domenica 28 dicembre 2008

All the best


Non riesco a dormire. Mi giro, mi rigiro, poi vado fuori a pisciare. Una rana si è impadronita del bagno e non fa entrare nessuno, così si fa pipì fuori guardando le stelle (e stando attenti che nessun serpente ti morda il culo). In realtà è già quasi l’alba, lì dietro i campi di mango, un panorama che ho visto milioni di volte in queste tre settimane. oggi, però, è l’ultima volta.
Faccio colazione mentre i coreani dormono ancora, poi vado fuori a recuperare lo zaino nel capannone. Lisa, la capa, mi guarda stranita – “come, tu qua?”. Le dico che sto per andare. Ci abbracciamo e salutiamo ancora. Rivedo Agnes e poi Alison, le mie amiche aborigene, e resto un po’ a parlare. Il tempo vola, però, e devo andare. Torno a casa –a quella che è stata la mia casa per un po’- e lì c’è il saluto più difficile, perchè anche se col compare ci siamo salutati migliaia di volte, questa volta sembra una beffa. Ma la sua ragazza si trasferisce in casa stasera, così sono sicuro che non sentirà troppo la mancanza.
Mi incammino verso la casa di Frank, il mitico farmer. La moglie Cherie dovrebbe darmi un passaggio, ma è in ritardo, così mi siedo nel giardino e aspetto. Saluto la figlia Chakira e la ringrazio ancora del giro che mi ha fatto fare ieri sul 4WD. È stato un giro di quelli che ne vale la pena. È stata una di quelle piccole cose per cui sono venuto qui in Australia. È stato lì, anche, che per la prima volta ho visto quella terra rossa che ho sempre sognato, terra di bush e outback, terra di deserto, terra dell’Australia come l’ho in mente io fin da bambino.
Alla fine Cherie viene –dopo che Frank le smadonna dietro un paio di volte- e partiamo. Lei deve prendere la figlia all’aereoporto di Cairns. La figlia arriva alle otto e mezza. Dimbulah, il posto dei mango, e Cairns distano quasi due ore di macchina. Guardo l’orologio, e sono quasi le sette e mezza.
Montiamo in macchina.
“Ti avverto Marco, che ho la guida un po’ pazza. Non sono in molti a voler venire in macchina con me”
“no worries” dico, e allaccio bene la cintura mentre lei si lancia sulle strade completamente deserte a oltre 140, saltando e sobbalzando e facendo strani rumori in curva. Mentre corre come una pazza mi racconta la sua storia, che come molte delle storie della gente di questo posto di frontiera, questo Far West del 2008, si fa ascoltare e qualche volta ti fa fare anche Oohhh. Mentre sgusciamo in mezzo alla foresta pluviale le dico che non ho comprato nessun regalo di Natale. Lei schiocca le dita e dice che lì è pieno di piantagioni di caffè –sarebbe carino tornare a casa con un pacco di originale caffè dei tropici. Guarda l’orologio, e vede che siamo già in ritardo di una vita.
“Oh beh, mia figlia mi conosce, ci è abituata”
Così questa semi-estranea sgomma nelle strade del mattino per portarmi a comprare qualcosa per casa, mentre la figlia sta atterrando in quel momento. Non so cosa dire così non dico niente, ma mi gusto tutto.
Per suo sommo dispiacere, le piantagioni non aprono fino alle 9. Niente da fare, mi dice, con sincero rammarico.
Corriamo e corriamo e alla fine spunta fuori la città, il mondo civile, le case i supermercati gli Hungry Jack i MacDonald. Dopo 3 settimane nel bush, i miei occhi si devono riabituare a tutto questo. Ora capisco perchè Frank, uomo che nel bush c’è nato e cresciuto, non si vuole allontanare nemmeno per andare nel villaggio vicino. La vita del bush ti entra dentro, ti invade gli occhi, ti stordisce e toglie il respiro, ti fa sudare chili e chili, quasi ti ammazza, e ti fa innamorare.
Recuperiamo la figlia all’aereoporto con solo mezzora di ritardo. Lei è incazzata. Parliamo un po’ della sua carriera di cantante folk, dei suoi viaggi a Nashville. Alla fine mi lasciano al centro commerciale di Cairns –il più grande, e anche l’unico. Cherie si gira e mi dice, all the best, Marco.
Grazie, dico io. Ne ho bisogno.
Appena sceso dalla macchina, riecco l’aria dei tropici che ti assale come una febbre buona e non ti fa respirare. l’umidità non è tremenda come altre volte, ma lo stesso fa impressione. Quando entri nel centro, poi, l’aria condizionata ti sega la gola in un secondo.
Appena dentro vedo questa massa di gente, vedo le facce, sento le voci. Mi sento stranito. Tutto mi sembra nuovo. Sembro davvero sceso dalle montagne. Mi chiedo se 3 settimane bastino per diventare almeno un po’ bushman. Passeggiando mi rendo conto che tra 3 giorni è Natale. Non ci avevo per niente pensato. Il caldo afoso non aiuta, nella mia idea europea di bianco natale. La folla che fa shopping non mi piace. Non è Sydney, e di certo non è Roma, e i personaggi tropicali fanno un po’ ridere per il loro abbigliamento, ma lo stesso non mi trovo a mio agio in mezzo a questa folla. Decido di uscire sotto il sole con le valigie. Vado verso l’Esplanade, un po’ vuota in questo lunedì d’estate. Nella Laguna ci sono poche persone. Ho caldo, così mi spoglio e mi metto a mollo anch’io. Il cielo però è nuvoloso, e l’umore non dei migliori. Sono felice di tornare, ma mi è anche dispiaciuto andar via. Sul braccio posto ancora i segni della raccolta del mango. I muscoli sono ancora indolenziti. Una faticaccia, ma 3 settimane sono volate, tra il cazzeggiamento al lavoro e le bevuto con Agnes e le altre la sera. Quella birra sul verandino la sera dopolavoro col compare aveva un suo valore, un suo gusto. Niente di che, ma ne valeva, credetemi.
Esco dalla Laguna, mi asciugo. Vado in un ristorante a fare il primo pasto vero dopo giorni. Niente più fottuti panini al tonno. Dopo passeggio sul lungomare, guardo i segnali di pericolo coccodrilli, osservo i granchi che si muovono a migliaia nella baia.
Torno al centro commerciale per vedere se riesco a fare un po’ di shopping natalizio anch’io, ma appena rivedo quella folla cambio idea e salgo sul primo taxi verso l’aereoporto. Sono in un anticipo bestiale, ma non m’importa. Non voglio dividere quest’ultima giornata con loro.
Cerco di parlare un po’ con l’autista, un inglese espatriato un po’ snob che sostiene che non c’è caldo a Cairns –come tutta la popolazione qui. Guardo il termometro segnare 30 gradi, e poi torno a fissare fuori dal finestrino.
All’aereoporto scendo dalla macchina, e l’umidità mi assale. Mi tocco la barba di giorni e giorni. Scarico le valigie dal taxi mentre penso che fra un paio di settimane mi aspetta il viaggio più lungo di tutti. Beh, fanculo. Ho le mie 2 settimane. ho le 3 che ho appena fatto. Respiro a pieni polmoni, per l’ultima volta, quest’aria tropicale e la trattengo un po’ lì, come a fare scorta. All the best.
Adesso non vedo l’ora di rivedere la mia Sydney, e la mia bambina. Ho delle storie da raccontarle, e da farmi raccontare. Ho delle altre cose da fare. Non vedo la cazzo di ora.
Buon natale tropicale.



martedì 25 novembre 2008

E stiamo ancora passando...




Così, eccoci. Cinque giorni –ormai quattro visto che la mezzanotte australiana è passata da un po’- e si partirà per l’ennesima follia. Io e il buon Mauro, pochi vestiti, un caldo equatoriale, e dei mango.
Neanche in un film di Bud Spencer e Terence Hill, ragazzi miei...
Domenica pomeriggio partiremo per Cairns, nell’estremo nord dell’Australia –che qui vuol dire appunto vicino all’equatore. Da lì, non si sa bene come, dovremo percorrere altri 300 km verso l’interno, in piena foresta pluviale, lì dove esiste solo una strada e per il resto è tutta giungla. Una volta arrivati alla nostra meta finale, Dimbulah, ci aspetta la fattoria del simpatico italoaustraliano Frank, dove io e Mauro taglieremo, raccoglieremo, impacchetteremo mango per 3 settimane, in un luogo privo di telefono, internet (e se non mi vedete al Morgana per un pezzo, sapete dove sono –ma giù le mani dal mio minibar!), negozi, dove nemmeno il cellulare prende e si lavora a fianco con i veri aborigeni, quelli che sono fieri delle loro origini e che a volte si sbronzano così tanto che il giorno dopo non ce la fanno ad andare al lavoro.
Tutto questo senza specificare che il mango spesso e volentieri crea una fastidiosissima forma di allergia che arriva quasi all’ustione.
Dunque, 3 settimane in questo luogo imprecisato, a raccogliere mango, con 35 gradi fissi, in attesa del Santo Natale.
Solo io e quell’altro pazzo potevamo trovarci in una situazione del genere (oltre al Dottore che ci legge anche lui, e che è stato lo sponsor ed eventualmente il responsabile di questa spedizione)...
Un modo come un altro per approcciarsi al Santo Natale.
Penso a tutti i miei amici sparsi nel mondo, della mia età più o meno. Alcuni cercano ancora, altri hanno già trovato. Molti di loro hanno un lavoro, un posto dove andare ogni mattina alle 9, hanno scadenze e responsabilità. Programmano la carriera, si guardano da lì a dieci anni, si informano sul prezzo delle case. Si chiedono cosa dovranno regalare a nonno Angelino a Natale. Preparano la solita settimana bianca nel solito posto. Si domandano se sia meglio una monovolume o un Suv.
Cose stabili, ferme, sensate. Noiose, magari. Cose loro, vite loro.
Facciamoli fare.
Io mi tengo i miei mango.

lunedì 24 novembre 2008

Ritrovarsi

Ogni attimo vissuto accanto
é una nuova emozione
sguardi che si spogliano
mani che si toccano
in una passione incontrollabile
troppo forte per vincerla
troppo desiderio di sentirsi
uno nell´altro
Due corpi che si fondono
nell´ansia di aversi ancora una volta
ancora un´ultima volta
con false promesse di fine
e sogni di esserci ancora.
Per consumare ancora qualcosa di immenso
e infinito
che si nutre di segreti
e profumi inconfondibili
di baci e abbracci
di carezze, segreti e risate.
Un calore che lascia dentro
ancora tanto desiderio
e ancora l´ultimo bacio
l´ultimo abbraccio
per un infinito desiderio.

Portatemi Dio

"Portatemi Dio
lo voglio vedere
Portatemi Dio
gli devo parlare
Gli voglio raccontare di una vita che ho vissuto e che non ho capito
A cosa è servito
Che cosa è cambiato
Anzi
E adesso cos'ho guadagnato?
E adesso voglio esser pagato!"

Vasco

sabato 22 novembre 2008

Le notti dell'anima

Certe notti sono anche delle notti dell’anima. E basta poco. Una notizia, una lettera, un ricordo, qualsiasi cosa. Fa paura pensare quanto poco basti, per entrarci.
È notte e tutti dormono, anche quei pochi che potrebbero aiutarti, che potrebbero avvolgerti con le loro parole e la loro, di anima. Non che si possa fare miracoli. Una notte è notte, dentro. Un cuore nero come ali di corvo. Ma certe persone possono lo stesso farti bene. Non guarire la ferita, ma almeno tamponarla. Impedirti che il sangue vada via in un lungo fiume notturno.
Così provi a contattare qualcuno, senza l’intenzione di metterti a raccontare tutta la tua storia. Non c’è bisogno. Sono cose tue, lasciale nel tuo giardino, a prendere sole o a marcire. Ma parlare sì, sfogarsi un po’, come stai raccontami hai poi preso quel lavoro la prossima vacanza. Poco, anche in questo caso basta poco. Ma una ha da fare, una va a correre –non sanno quel che succede, la tua vita si ferma un secondo ma la loro continua, non c’è niente di ingiusto in questo, forse è ingiusto chi ha pensato tutto questo Affare fin dal principio, ma lasciamo perdere- un’altra ha avuto una bella notizia e l’ultima cosa che vuoi è fare il guastafeste col tuo umore a picco nella notte, e allora lasci stare. Sei tu, ancora, e la notte dell’anima.
Un silenzio innaturale, intorno. Il primo istinto sarebbe il bicchiere, ma è solo un momento. Quando ci sei davvero, in quelle notti lì, sai che sarebbe tutto inutile. Peggiorerebbe soltanto. Domani mattina sarebbe un incubo. Una notte dell’anima che non finisce mai.
Allora ti consoli come puoi, con la coscienza, terribile e spietata, che consolazione non esiste, in quei momenti lì. Dopo, a lucido, a freddo, come si dice, forse. Non perchè passa il dolore, ma solo perchè ti inventi dei metodi per far finta che non ci sia. Ci giri intorno. Il dolore, quello non lo cacci via mai. Sempre lì, fino alla prossima notte.
Ognuno ha il suo modo. Io ho le mie parole, queste parole, che un po’ fanno ballare la mia pena e forse le danno un senso per qualche secondo, forse è un canto leggero a me stesso mentre il buio fuori sembra totale e la Terra mi sembra persa in un nero inchiostro che toglie il respiro. forse divide un po’ il dolore, lo espone, lo spiega un poco, e un po’ lo lenisce, perchè il buio fa meno paura quando non si è del tutto soli. Forse è tutto inutile, come il bicchiere.
Espiri, inspiri. Piano. Senza fretta. La notte è sempre lì, a metterti il groppo in gola, a tapparti le orecchie, a toglierti il colore dal viso. Ti pesa sul cuore, una notte così. Non te la sbrighi facilmente. Dio sembra rimasto rinchiuso nelle ore del giorno, e anche il rumore dei grilli scompare.
È notte e scrivo. Forse non serve nè a me nè agli altri, forse non risolve, ma forse aiuta. C’è tutta una notte da passare, prima di poter andare a dormire.
L’anima con gli occhi pesti si siede un attima. Inspira. Espira. Ecco così, piano. Brava. Batto alla tastiera, e lei osserva. Si dimentica, per qualche istante, delle sue ossa fratturate, dei suoi lividi. L’ho catturata, forse solo fino alla fine del rigo, ma è già tanto. Fa male ancora, ma c’è una pausa breve. Nessuno intorno. Tutti dormono. Io sveglio.
Scrivo.

domenica 16 novembre 2008

Un giocattolo

Quanto tempo che non scrivevo...
troppa fretta troppa frenesia...
poi mi fermo
di fronte a me una finestra, pioggia, un freddo e gelido mare...
e un vecchio amico che risveglia l´arte dello scrivere...
di saper vivere, dare, amare, piangere e gioire con le parole....
Comincio a pensare.. ad amare la mia solitudine..
a ritrovarmi arrabiata con tutto il mondo e con me stessa..
prendo una penna e dopo anni..
qualcosa sgorga come un fiume in piena dalla mia mente,
dalla mia anima...
vorrei essere ovunque e da nessuna parte...
ma basta
basta davvero
non voglio l´amore con il conta gocce,
non voglio essere sua solo quelle ore nella sua casa a mare,
dolcissime,
forti,
che poi lasciano l´amaro in bocca.
Amaro di un amore truccato,
senza scampo,
senza sole
Solo buie ore rubate alla sua vita
e alla mia pace.
Non voglio vivere aspettando che viva la sua vta.
Non voglio piú essere la donna della seconda serata.
Che viene dopo,
dopo tutto,
dopo la cena con lei, dopo i regali
i fiori, il cinema.
Io vengo dopo,
per me non c´é altro spazio
che il dopo.
Mi sento presa e buttata via.
come un giocattolo
che piace
ma ormai vecchio
Rivivi emozioni facili e conosciute
ma di poco valore.
Non é realtá,
non é futuro.
Ero una stella rubata al suo cielo
che vive un riflesso di una vita non sua.

12-XI-08

martedì 11 novembre 2008

Non è successo niente





Ovunque ti giri leggi, Obama Obama Obama. Per una volta tutti, anche fuori dagli US, sembrano essere contenti. Al di là di cosa farà poi di concreto Obama nei prossimi mesi e anni, la notizia comunque è di quelle grosse. Lo stesso popolo capace di votare per ben due volte di fila quel coglione di Bush, popolo di immigrati e di razzismo, è riuscito a portare lassù un presidente nero. Bisogna dargliene atto, per una volta. A forza di esportare democrazia con bombe e carriarmati, magari un po’ glien’è rimasta ancora in casa.
E comunque mentre la Storia maiuscola va avanti e forse qualcuno un giorno la leggerà sui libri, la storia minuscola va avanti come può, giorno dopo giorno, con un mutuo che salta e un nano che parla. Alcune storie invece scompaiono del tutto. Piazza Navona, le proteste, i cortei contro la Gelmini, il nano che prometteva di spaccare le ossa.
Che cosa è davvero successo?
Niente, ovviamente. C’è stato qualche titolo sul giorno, Beppe Grillo s’è incazzato come sempre, qualcuno ha avuto un manganello in testa. Poi arriva Obama e un nuovo scandalo all’Isola dei Famosi, e tutto scompare. Ma questo tutto, come già detto, è niente.
Tutto cambia e niente cambia, diceva lo scrittore. Si riferiva alla Sicilia di un tempo, ma va bene per l’Italia di adesso. Tutto è stato previsto, tutto è programmato. Non esistono imprevisti, nell’Impero del Nano (a parte le cazzate che si fa scappare Lui Stesso). I giovani italiani nascono già vecchi, con uno spazio di manovra ridotto allo zero. La scuola? Quando ci arrivano, hanno già perso le speranze di cambiare non dico il mondo, ma la strada dove vivono. Li hanno schiacciati, come e più dei balilla di un tempo. Anche le proteste, in questa atmosfera stagnante, artificiale, senza respiro, sembrano come le liti in un reality show –tutto finto, scritto a tavolino, per tenere desta l’attenzione e per non far credere a chi guarda che in realtà è tutto deciso.
E quelli delle poltrone osservano compiaciuti e ingrassano come maiali. Il Sessantotto è stata una svista, ma sanno bene che non si ripeterà. Hanno imparato la lezione. Mai far vedere troppo il tuo gioco, se non vuoi bruciarti il culo. I magnacci non picchierebbero mai le loro prostitute in faccia. Non si deve vedere niente. Riempili di cazzotti nello stomaco, e intanto continua a sorridere alla telecamera.
Ma una bella mano gliela danno proprio loro, i Giovani, questa entità sconosciuta. Nessuno sa chi cazzo sono, ma tutti se ne lavano le mani. Con una mia amica parlavamo se ai nostri tempi (come se avessimo 60 anni...) era diverso. Io non credo proprio. Ho fatto parte di una delle prime occupazioni nella mia città. A quel tempo andavo ad ogni corteo, ad ogni fiaccolata. Ci credevo. Ero Giovane anch’io, sapete com’è.
E intanto i miei compagni di classe restavano a casa a dormire. Ogni protesta era un giorno di vacanza per loro. Nella scuola occupata, nel comitato vedevi solo gli amici degli amici, gente che non sapeva nemmeno perchè fossimo tutti lì, ma erano popolari, eggià, sìsì.
Il preside fece chiamare la polizia (molto prima di Maroni) perchè non voleva che la figlia restasse invischiata con questi facinorosi fancazzisti, e l’occupazione finì.
Adesso i cortei, gli scontri. Eppure io so che molti studenti, quando leggono di sciopero generale, la prima e spesso unica cosa che pensano è, domani dormo. Cominciano presto a farsi i cazzi loro, i Giovani Italiani, e poi non smettono più.
Dormono e dal loro sonno non li sveglia nessuno. In Francia la legge sul primo lavoro ha portato alle barricate, agli scontri, ai cassonetti incendiati, alle proteste ad oltranza. Qui in Italia la legge Biagi a cosa ha portato?
Zzzzzzz.
Ora della legge Biagi non se ne può nemmeno parlare perchè sarebbe come mancare di rispetto a un morto –il che, detto da parte di un gruppo che sta usando un morto per i loro scopi, è quasi divertente. Non ne parliamo, e di questa legge dedicata a un martire facciamo invece morire tutti i nostri simpatici Giovani Italiani, che tanto il martirio ce l’hanno di vocazione e anzi qualcuno se l’è messo pure nel curriculum, sai mai quello che succede. Co.co.co, contratti a progetto...ma voi forse queste cose le sapete già. Non perchè qualcuno ve le ha dette. Mica sono notizie da tg, queste. Le sapete perchè c’è passato un vostro amico, un vostro cugino. Se siete proprio sfigati, voi stessi.
Bella merda, vero?
Erano quelli i tempi per scendere in piazza. Ma forse era estate, forse era giornata da andare al mare, come i referendum che nessuno vota. Che cazzo, non venite a romperci le palle. Tanto loro comandano e noi siamo i poveri coglioni. Obama è possibile in America, non qua. Dateci Silvio. Lui è già ricco, che bisogno avrebbe di rubare? Dateci il re, che così ruba solo uno e gli altri no. Dateci un dittatore che ci dica che cosa fare.
Ops scusate, mi sono ripetuto.
E così è. I Giovani Italiani sono morti, ma nessuno li ha avvertiti. Sono governati da morti, da ottantenni di merda che decidono delle loro vite. Nessuno fiata. Bravi questi Giovani Italiani. Perchè andare a Piazza Navona, allora? Sprecare così una bella giornata di sole, dico io? Ma andate ai Castelli, andatevene a Fregene. Massì, chi se ne frega dei tagli alla scuola. Tanto, anche così l’hanno cambiata la legge? No? E allora vedete?
Niente sta succedendo. Lasciate perdere il giornale e compratevi un Topolino, può sempre servirvi quando vi chiudete nel cesso, Giovani Italiani. Non vi preoccupate per le risate, sono i Grassi Vecchi di prima. Non fateci caso.
E un’altra cosa: mi raccomando, sempre odiare Silvio. Diamogli sotto, sì sì, quel bastardo. E poi tra 4 anni (perchè è chiaro che questo governo di leccaculo non cadrà mai prima), rivotiamolo, ok? Mica siamo in America qui. Lo stesso coglione lo puoi votare quante volte vuoi.
Yes we can.
Buon sonno....

martedì 28 ottobre 2008

Magia





È l’una di notte. È l’una di una giornata lunga e pesante. Due lavori, oggi. Quello di mattina, a scarabocchiare fogli mentre questa cilena pazza mi riempiva la testa di numeri senza senso. Ore buttate nel cesso. Poi sul motorino e via, verso questo negozio sullo stile dei nostri, tutto a 1 euro o giù di lì. Arrivo quando le serrande chiudono. Noi riempiamo gli scaffali. Siamo il popolo in divisa dei lavori merdosi della notte. Avete presente quelli che si addormetano alle fermate degli autobus?
Eccoci. Ero lì a lavorare coi cinesi, a scaricare casse, a sudare. Non mangiavo da non so quanto. La gola prosciugata. Ancora un’altra cassa. Ancora del cartone da mettere nella macchina. Ancora un’altra ora.
Esco di lì alle dieci, salgo sul motorino, parto. Comincia a piovere. In pochi minuti sono completamente zuppo. Qualcuno lassù si diverte ma io non gli voglio dare nessuna soddisfazione, così sorrido come un matto sotto il diluvio.
Poi arrivo a casa, bagnato, barcollante per la stanchezza, affamato, sporco. La mia Morgana è lì, e anche il compare. Sono uno fortunato, lo so. Ma oggi, oltre loro due, c’è anche una sorpresa.
Un pacco.
Lo aspettavo da mesi. Non posso credere che sia arrivato. Non posso credere che sia arrivato proprio oggi.
Mi siedo per terra. Sono intontito. Apro il pacco. Dentro ci sono due copie di “Scrivimi di questo tempo”, l’antologia in cui è pubblicato un mio racconto. In copertina, i miei occhi che mi guardano e che mi chiedono, beh?
Non so voi, ma ogni volta che io arrivo in un moment altamente emozionante, in cui ci si aspetta che io debba sorridere tutto il tempo o aprire i rubinetti, mi immobilizzo. Non penso a niente. Faccio caso a cose come il rumore del televisore o il rumore della doccia in bagno. Le persone a volte restano deluse da queste mie reazioni, la prendono sul personale, dicono che non sono mai contento. Non riesco a far capire loro che non è colpa di nessuno. Sono fatto così. A reagire alla merda, sono abituato. Per le cose belle, meglio se passate un’altra volta.
E così, stanco fino al midollo ma col sonno che già sta sgasando, accarezzo la copertina. Apro il libro. Lo sfoglio. Averlo qui, tra le mani, è una strana sensazione, che però non so definire. Mi sento ubriaco senza aver bevuto. Domani, mi dico. Forse domani saprò sentire tutto chiaramente.
Così lo chiudo, dò la buonanotte a tutti e vado a fare una doccia. Quando ho finito vado nella mia stanza e ritrovo il libro, lì sul comodino fra Pirandello e Bukowski. Una compagnia mica male, in fondo. I miei occhi quasi arrossiscono. Allora lo riprendo in mano, con tutta la stanchezza che ho. Lo sfoglio ancora. Stavolta non me ne stacco più.
Vado a versarmene uno, allora. Un bianco celebrativo. Io, il libro, un bicchiere e una stanza vuota. In fondo, il racconto è nato così. Non potrebbe esserci celebrazione migliore.
Vado su internet –tenendo sempre il libro a vista d’occhio- e scopro che una tizia mi ha contattato per delle lezioni di italiano. Soldi facili. C’è sempre un modo per uscirne con classe, da questa vita sudata. Sorrido. È una serata magica, nel suo piccolo. Date Speranza a un Uomo, e l'avrete fatto Santo. Le casse e i cinesi sono lontani già.
Così finisco il bicchiere, mi siedo sulla poltrona e apro il libro a pagina 149. Ritrovo quelle parole. Trovo il mio nome. Allora è vero. È proprio vero, cazzo.
Mi sembra che siano serviti, tutti quegli anni. Mi sembra che ci sia stato un senso, dopotutto. Mi sembra che stia cominciando qualcosa. Ma non ho voglia di pensare a questo, adesso.
Comincio a leggere mentre il mondo fa un giro su sè stesso e tutto il mondo ha una sola ora, che è quella soltanto.
E non ho più sonno.

giovedì 16 ottobre 2008

Attività (apparentemente) prive di significato





Tipico giovedì da disoccupato a Sydney –visita su gumtree.com.au e spedizioni della solita decina di curriculum, annunci sul giornale che poi viene buttato nell’angolo, lieve malditesta da doposbronza, una nausea dovuta ai biscotti sottocosto avuti per colazione. Tipico giovedì, come detto. lo stesso mi sentivo inquieto. Qualcosa che non andava. Un po’ di cose, veramente, ma tutte facevano rima con affitto e impegni saltati.
Così, invece di starmene lì a pensare a cosa avrei rimandato prima, ho preso gli occhiali da sole e sono uscito.
Giornata di sole. Ventosa, forse, ma spettacolare lo stesso. La primavera è un’opera d’arte, da queste parti. Nemmeno troppo calda. Perfetta, vi dico.
Insomma, senza sapere dove cazzo andare o perchè, finisco al solito parco vicino casa. È giusto due strade dietro casa mia, ma appena mettete piede nel sentiero, scompare ogni forma di vita umana. Sei nel bush, a un incrocio dalla civiltà.
Cammino piano. Ho paura che i magpie, una specie di corvi di qui, mi becchino la testa. Non cagando, intendo proprio col becco. Lo fanno. Sono incazzosi, i magpie. Senza scherzi.
Arrivo al parco vero e proprio. Dio benedica il giovedì. Ci sono solo io e un pescatore solitario lì sul molo. Mi addentro nella zona più nascosta del parco, sotto un muro di eucalipti, proprio sulla riva del fiume. Mi sembra di essere in uno di quei libri con Huckleberry Finn. Mi manca un’armonica a bocca e una zattera.
Mi stendo sull’erba. Mi sono portato un paio di libri da leggere, Anderson e Kerouac, giusto per avere scelta. Così alla fine scelgo di non leggerne nessuno, e me ne resto lì, semplicemente.
L’aria è fresca ma gradevole. Un paio di tizi su una delle tante barche ancorate lì mettono a posto le esche. Silenzio. Ogni tanto dagli alberi dietro spunta un altro magpie o un ibis e gracchiando mi fanno venire un infarto. Un kookaburra ride all’orizzonte, lì dove ci sono le case dei ricchi, proprio sulla riva. Le guardo, poi torno a fissare il fiume. Piano piano tutti gli impegni, i pensieri, le scadenze, gli appuntamenti, le bollette, le pagine da scrivere, le liste della spesa, le telefonate da fare, i messaggi da mandare, le interviste, le visite, tutto scompare oltre l’orizzonte, lì dove il fiume si tuffa nella baia. dio. Quanto tempo era che non me ne stavo semplicemente così –a quattro di spade, come direbbe una mia amica nana- a guardare il cielo, le nuvole, il fiume, e basta? Senza cercare di tirar fuori chissà che pensieri, chissà che soluzioni? Senza pensare al momento dopo, a quello che c’è da fare?
Tanto, troppo, mi sa. Tutti, in realtà, ne avrebbero bisogno, ma io non sono tutti. Io sono io, e stamattina me ne sono stato con me stesso. Non quella che definirei la compagnia migliore del mondo, ma per una mattina si può anche reggere, lì in riva al fiume.
Poi l’ho vista. C’era questa nuvola enorme. Si stava gonfiando, piano piano, sotto i miei occhi. Diventava sempre più grossa. Era imponente, ma lo stesso sembrava che tutto stesse avvenendo con una certa grazia. Un cielo blu, neve di cotone, un silenzio di dentro, e questa nuvola che si gonfiava. Io, sdraiato sull’erba, la fissavo.
Sembrava la cosa più interessante che avessi mai visto. La mente è cominciata ad andare per conto suo, come sempre in questi casi. Voleva distogliermi da quell’attività apparentemente priva di ogni significato. Non perdere tempo in queste cazzate, mi diceva. E così arrivavano pensieri e immagini –ma confusi, non so. Ho pensato a me da piccolo, a come mi mancavano certe cose di allora. Ho pensato che Obama avrebbe vinto le elezioni. Ho pensato a mio padre. Ho pensato che dopotutto ero fortunato. Ho pensato a quella nausea, e a cosa avrei mangiato per pranzo. Ho pensato che il sesso ne vale la pena. Ho pensato chissà se quel pescatore sul molo sta davvero pescando o sta lì per non aver nessuno a rompergli i coglioni. Ho pensato che mi piacciono i cani. Ho pensato a come a giugno i banchi della mia scuola sembravano lisci e lustri, quando avevo 8 anni. Ho pensato che questo finesettimana mi sarei ubriacato. ho pensato alla mia ex casa a Roma, a quando ci stavo, a quando andavo all’università. Ho pensato che ero in Australia.
Pensieri senza senso, come vedete. Poi, mentre la nuvola si gonfiava ancora, ho realizzato che, in mezzo a tutti questi pensieri, non c’era niente che riguardasse la mancanza di lavoro, o il conto in rosso, o le cose da fare. Allora ho sorriso e guardato la nuvola che ormai era enorme, mi sono pulito dall’erba e mi sono incamminato. Pensavo a tutti gli ingegneri che nel mondo stavano uscendo per andare a pescare, e dottori e avvocati che stavano nelle ville sulla riva del fiume. Io me ne tornavo a casa, fischiettando.

venerdì 10 ottobre 2008

E uno scarafaggio si affacciò alla porta...

...SECONDO MESE...

Domani lascio la mia prima casa Australiana e così i miei primi coinquilini Australiani …

non chiedetemi di raccontarvi di loro , ricordo solo le loro stanze chiuse e il gelo con cui mi hanno accolto al mio arrivo….

4 Mc Gregor Street, North Ryde, 2113 , NSW .

Se vi capita di passare da queste parti provate a bussare , sembra che qui abbiano girato Fight Club…

Anzi, fate in fretta, perché come dice Bip (si questo è il nome del padrone di casa, un Arabo che lavora all’immigrazione Australiana e che ha sempre una macchina diversa), questa casa dovrebbero demolirla in qualsiasi momento…

La mia stanza, al contrario del resto della casa, non aveva crepe nei muri. Dava su un giardino ed era perennemente oscurata da un albero.

Riceveva luce solo per pochi attimi, al sorgere del sole, il momento giusto per svegliarvi…

Non credo che nessuno, sano di mente, avrebbe potuto prendere in considerazione di vivere qui.

Io sono stato al 4 di Mc Gregor Street per tre settimane e mezza.

Speravo di potere finalmente iniziare un nuovo lavoro, qui vicino in un centro commerciale, a scaricare i pacchi per l’arrivo del natale…

La mia “capa” Australiana mi aveva promesso una marea di turni durante la settimana (di cui il primo iniziava alle 5 di mattina)…

Purtroppo questo lavoro non è mai iniziato …

In compenso ho quasi finito tutti i miei soldi e non credo di potere rientrare neanche della caparra lasciata all’Arabo Bip …

In queste tre settimane, c’è stato anche un altro lavoro, durato un giorno soltanto…

Mi avreste potuto incontrare in strada, nel centro di Sydney, a chiedere agli Australiani la loro carta di credito per aiutare il WWF …

Non vi stupirà sapere che nessun Australiano pensava fosse una buona idea e che a nessuno di loro importava più di tanto del protocollo di Kyoto e delle specie in estinzione…

Così, sono ancora alla ricerca di un qualsiasi tipo di lavoro che mi permetta di continuare questa avventura …

Ma non è tutto qui …

In queste tre settimane e mezza ho visto Sydney di notte, dalla finestra di un grattacielo e quella notte mi sono sentito veramente felice …

Ho pensato che quello fosse il mio posto, con tutta la città ai miei piedi e io li , ancora una volta ubriaco e molesto, a fare quello che più mi riesce meglio…

Poi ci sono stati caffè, nuovi incontri, giri di VB e momenti improbabili…

Non so quello che succederà nel prossimo mese, se ci sarà un modo per restare a galla e se alla fine troverò quello che cercavo ….

Ma so che domani è sabato e potete scommettere che io sarò qui a Sydney, ancora una volta ubriaco e molesto, a giocare con la sorte in una notte che sa di Australia.

Al prossimo mese …

martedì 7 ottobre 2008

Sugli artisti e sulle bollette

A quante interviste di lavoro siete stati nella vostra vita? Quante volte vi siete seduti a quella scrivania, con uno stronzo/a dall’altra parte che cerca di capire se siete la persona giusta? Loro che fanno la faccia pensierosa, che sembra quasi che siano sul cesso. Voi, che fate intanto i salti mortali per capire come cazzo si faccia ad essere la persona giusta.
Vestirsi bene, arrivare lì preparati. Cravatta, giacca, vestito. Essere sicuri senza essere arroganti. Energici ma posati. Maturi ma disposti ad imparare ancora. Lui/lei che tiene in mano il tuo curriculum come fosse merda. Tu, che quel curriculum di merda l’hai allungato quanto potevi, l’hai sistemato, magari –spesso- anche inventato.
E tutto per una misera all’ora, ovviamente.
Ti guardano, ti chiedono –sei uno che lavora sodo? Uno a cui PIACE LAVORARE? E tu dici, CERTO!!!!!!!!!!!!!!! (compresi i 40 punti esclamativi).
Quello che pensi è però -ma vaffanculo. A chi cazzo piace lavorare? Certo, qualche pazzo isolato c’è. Ma anche qui bisogna distinguere. Dipende da che lato della scrivania sei seduto in quel momento, a esempio. Un conto è se sei Colui Che Giudica Lo Scopino Di Turno, un conto è se sei Lo Scopino.
Chi mi conosce sa che sono molto estremista in questo. A parte quello che fa Hugh Hefner (qualsiasi cosa sia), tutti i lavori mi stanno sul cazzo. Non mi spiego proprio perchè l’Uomo debba lavorare. Lo so che sta scritto nella Bibbia, lo so che ti rompono le palle da quando hai l’età della ragione (o l’età per cominciare a prenderla in culo ed essere anche grato per questo). Perfino alcuni famosi psicologi e psichiatri sostengono che lavorare rientra nella MISSIONE DI VITA di ognuno.
Ok. Nella mia MISSIONE DI VITA, privata e personale, c’è la volontà di non fare un emerito cazzo per il più lungo tempo possibile. Per me la pigrizia è Filosofia. Il fancazzismo, l’ultima vera Rivoluzione.
No beh, ok, qualcosa che mi piacerebbe fare c’è. Lo so che non è un lavoro, e lo so che scatteranno le risate. Qualcuno però, facendo lo scrittore (ah ah ah ah!), qualche soldino l’ha fatto. L’1% di tutti quelli che scrivono, credo.
E tutti gli altri? Mi sono sempre chiesto com’è la vita di uno scrittore. Cioè, uno vero, ovviamente, mica un fannullone come me. Come faceva questa gente a campare prima di diventare famosa –e, in molti casi, persino DOPO che è diventata famosa? Che entrate aveva, che so, un Orwell, o un Carver?
Molti facevano giornalismo, lo so. Si dicevano, siamo già delle puttane, perchè non fare anche un po’ di anal? Chessarà mai? Così spargevano le loro parole dappertutto. Sembra che quando uno sia scrittore, scriva tutto bene, dal romanzo psicologico all’articolo di cronaca, alla lista della spesa. Davvero, niente scherzi. Alcuni, come il lampadato Baricco, aprono addirittura delle scuole per insegnare a scrivere. Fanno letture. Fanno film. Vanno in televisione. Qui siamo ben oltre l’anal. Mi sa che ci siamo già spinti nel regno dell’orgia.
E tutti gli altri? Boh. La storiella di Bukowski già la sappiamo. Lavoretti del cazzo fino a 50 anni, e poi la botta di culo e il successo. Ma gli scrittori ci arrivano tutti, a 50 anni? E come pagano l’affitto? Come si regolano coi contributi? Donano anche l’8 per mille?
La mia è una visione personale. Probabilmente molti di loro potevano permettersi di cenare in veranda con pesci e bianchi costosi, mentre riflettevano sui Grandi Temi. Me li immagino tutti alla Hemingway, a fare battute di caccia, lunghe passeggiate al tramonto, e poi a casa (una casa ovviamente di proprietà), prendere lunghi respiri artistici mentre si domandano se l’anima esiste o no e come l’Uomo sia sull’orlo del Disastro, mentre la moglie canticchia un motivetto stupidetto e la cameriera sparecchia la tavola.
Ecco perchè la roba che scrive questa gente è pura merda melensa, senza significato. È esattamente come le loro esistenze. Il lampadato ne sa qualcosa.
Con questo non dico che un po’ di moneta faccia male. Anzi. La moneta fa benissimo al cuore a al portafogli del giovane autore. Che cazzo. La birra mica si paga da sola.
Vi dico una cosa: toglietevi dalla mente l’idea dell’Artista Morto Di Fame, chiuso nella sua soffitta, con una candela e un calamaio, che scrive cose sublimi & romantiche & immortali. Non c’è niente d’immortale, primo di tutto il giovane autore. Deve mangiare e bere e andare al bagno e prendere l’autobus e pagare la bolletta come tutti. Può farlo sospirando e sognando, o anche senza. Ma deve farlo.
Tutte cazzate. Ve lo dico io: si scrive meglio con la pancia piena, e senza troppi pensieri al prossimo affitto o al conto dal meccanico. Pensare ai Grandi Temi, all’Universo all’Amore a Dio allo Spazio alla Morte e alla Vita, è difficile quando hai fame. Ci sono 3 bisogni primari, e due sono mangiare e bere.
Anche il terzo comunque giova, al giovane autore.
Ognuno fa come può. Dostoevskji ha scritto i suoi capolavori perchè pressato dai creditori, a cui prometteva romanzi che in realtà non aveva ancora scritto. Il buon Dosto era rimasto fregato dalla sua mania per la roulette e per le ragazze francesi sotto i 25.
Magari se era pieno di soldi, come il lampadato, “Delitto e castigo”, “I fratelli Karamazov” e “Memorie” non li scriveva. Si sarebbe limitato ad andare a mignotte, spendere milioni al casinò e grattarsi il sedere. Magari non si sarebbe mai chiesto le cose che si è chiesto quando era con le spalle al muro. Lui ci avrebbe guadagnato in salute, noi ci avremmo perduto in qualcos’altro.
L’Arte è come il Rock: ti deve partire dallo stomaco.
Sperando sempre che non faccia l’eco.

domenica 5 ottobre 2008

Bussare con piedi

Ciao a tutti, sono stato invitato e sollecitato a contribuire a questa taverna dei tempi nostri, i tempi dell'economia della conoscenza, dal nostro comune amico Marco.

Ci si e' conosciuti in un mondo fiabesco lavorando fianco a fianco, gomito contro gomito, al servizio della nuova economia globale, tra the bollenti e shiraz di contrabbando post pausa pranzo, in un sobborgo di Sydney.

Entrando in questo luogo nuovo condivido con voi un piccolo video che mi ossessiona in questi giorni di foglie italiche ingiallenti. Come quando si va ad una festa e si porta un piccolo nonsoche di cortesia. Enjoy it.


http://www.youtube.com/watch?v=9JhuOicPFZY

Alla fine della festa

Accorgimenti medicamentosi al mattino
I pesanti strascichi di una vita
Mal vissuta
Il pavimento sporco, le sedie
Per terra
Una bevuta di sola birra
O quasi

Fasce e fiabe nell’alba enorme
Infiltratasi, come sonnecchiante pantera, nei
Nostri discorsi senza voce
Nelle nostre fortezze ormai
Sventrate
Nel nostro trucco liquefatto

La notte ha ceduto il posto
Ancora una volta
Lasciandosi dietro
Poesie tristi e arrivederci

venerdì 3 ottobre 2008

Le lacrime di nemo

"Chiaro di luna scendi in fondo al mare e arriva dove il vento non può arrivare e

trova le parole per calmare quest'acqua che si mescola col mare

quest'onda sulla riva della ciglia

Che un po' t'incanta e un po' ti meraviglia

Che un po' t'incanta e un po' ti meraviglia

Ancora senza nave

e vela senza veliero

bottiglia mezza vuota e mezza piena

e pesci e luci e canto di balena

Chiaro di luna segnami il futuro

e passo dopo passo piano piano Illumina i miei passi con i tuoi

che ogni passo avanti è un passo in meno e meno ossigeno nei serbatoi

illumina le torri medievali E i falchi e il tempo e i sogni e gli ideali

e le città sconfitte in fondo al fumo e il sangue e l'innocenza di nessuno

il sangue e l'innocenza di nessuno"

De Gregori

martedì 23 settembre 2008

Come funziona il Morgana

Cari abitanti del Morgana
anche se da poco l'Hotel ha festeggiato il suo primo anno, mi sembra giusto rinfrescare un po' le idee e spiegare che cos'è il Morgana. Ci sono nuovi visitatori, e questo potrà servire loro magari a fare quel passo in più e prendere quella stanza che già li aspetta. Per i vecchi frequentatori, beh -vista la latitanza, un ripasso non fa mai male...
L'Hotel Morgana è un luogo d'incontro, di passaggio, di incontri fatti per caso, di facce che si incontrano e ritrovano, anche a migliaia di chilometri di distanza. Anche se, come in tutti gli Hotel, c'è un portinaio che tiene le chiavi e smista le chiamate, in realtà questo posto è di TUTTI.
Ok, lo ripeto: Questo Posto E' Di Tutti.
Lo so che, rileggendo gli ultimi post, sembra diventato un discorso a 2, ma vi assicuro che non è quella l'intenzione. La gente è timida, ha bisogno di quel paio di birre per sciogliersi, e a tal proposito vi ricordo che i frigobar nelle vostre stanze sono sempre pieni, e che il bar di giù, per quanto decadente, fa sempre il suo dovere.
Ognuno può occupare una stanza e sedersi per un po', tra un impegno importantissimo e l'altro, tra una cosa da fare a tutti i costi e l'altra -lo sappiamo, lo sappiamo. Ognuno può piazzare il suo bel post senza che nessun'altro gli rompa le scatole.
Al Morgana uno fa un po' come cavolo gli pare. Non c'importa. Non c'è un tema, e anzi più fuoritraccia andate, più interessante si fa la faccenda. Si è parlato spesso di viaggi, di Paesi, ma questo non vuol dire niente. Potete benissimo mandarci la poesia d'amore, la ricetta di vostra nonna, il disco che vi fa impazzire, il libro che vi fa adormentare, quella cosa che proprio vi preme in gola e volete buttarla fuori. Anzi, visto che come portinaio sono abbastanza pigro, non dovete nemmeno mandarla a me. Una volta iscritti, avrete il vostro spazio e ve lo gestite un po' come volete.
Io, intanto, mi godo il sonno del giusto.
E' un'idea, è un'esperimento, è una Casa Gialla alla Van Gogh, è uno spazio autogestito, è una democrazia in tempi in cui sembra una bestemmia, è un semplice cazzeggiare in riva al mare.
E così, eccoci. L'Hotel è pieno di stanze che aspettano solo di essere occupate, per discorsi seri come per chiacchiere sbronze.
Aspettano voi.
Ancora una volta, benvenuti al Morgana.

venerdì 19 settembre 2008

Il rock non è morto, solo un po' orbo





L’altra sera ero qui a casa mia con Mauro. Erano le sette di sera e stavamo bevendo VB. Lui suonava, io ascoltavo. La musica andava e la birra scendeva, come sempre. Fuori era buio e io indossavo occhiali da sole. Qualche giorno prima avevo spaccato i miei, e in attesa dovevo girare per casa come fossi Ray Charles. Non vedevo un cazzo, ma ascoltavo e cantavo. Mauro faceva i pezzi che sapeva. A un certo punto si gira verso di me e dice “Adesso prova tu”.
“Io?” dico, indicandomi come se ci fosse qualcun altro lì.
“Dai, almeno prova” dice lui, e mi passa la chitarra, con quel gesto intimo e sozzo che è come voler prestare la propria ragazza al migliore amico.
Prendo la chitarra in mano e la guardo anche se non la vedo bene. Non ho il coraggio di dirgli che qualche giorno prima, di nascosto, avevo preso in mano la chitarra e avevo provato a strimpellare la mia solita “Leggero” di Ligabue. Per me suonare “Leggero” è come quando da piccolo facevi 2 per 2 sulla calcolatrice per vedere se funzionava. Quella volta non ha funzionato. La canzone è solo 4 accordi, e io non ricordavo nemmeno come cazzo si facesse il Do –e se non ti ricordi come cazzo si fa un Do, allora bello mio meglio che ti dai alla cucina o al giardinaggio.
Adesso ho di nuovo la chitarra in mano. Non suono ormai da più di un anno, da quando sono partito per Oz. Sono sicuro che non ce la farò nemmeno stavolta.
Però la birra è scesa bene, l’atmosfera è buona, il compare è qui e l’Australia è lì. Perchè no?
Attacco.
Do. Lo trovo subito. Viene fuori anche bene, senza quei boeinggg di rinculo di quando cominci a suonare per la prima volta.
Sol. Questo viene proprio spontaneo, dopo il Do. Voglio dire, hai fatto un Do, sarai certo capace di fare anche un cazzo di Sol, no?
Mi minore. Questo è facile. Ma già so cosa mi aspetta dopo, e comincio a temerlo.
Fa. Eccoci. Lo sapevo che non poteva durare. Di ricordarlo, lo ricordo sul momento –come quelle parole di una canzone che non senti da anni ma che è sempre lì, in qualche angolo dimenticato della tua testa. Il farlo, però, è diverso. C’è un barrè di mezzo, e a me il barrè mi veniva mica tanto bene anche prima di smettere.
Allungo il mio indice, ci metto la forza giusta, nè troppa nè poca, e provo. Va.
È andato. il primo giro è andato.
Il secondo va ancora più liscio. Al terzo smetto anche di guardare le corde e mi concentro sulle parole. Poco a poco, parole e musica escono tutte assieme, passando dalle stesse zone. Vibrano, in questa stanza di birra e sole. Mi lascio andare completamente alla canzone, e in quel momento anzi IO sono la canzone. Ci sono io, ci sono i miei ricordi, ci sono tutte le cose che ci metto dentro. Ogni tanto un accordo salta, ovviamente, e c’è qualche pausa di troppo, ma per il resto va tutto bene. Mi nascondo dietro gli occhiali da sole per non far vedere che sono quasi commosso. A chi suona –per sfizio come per vocazione- capitano momenti così. Sono illuminazioni breve, sono passeggiate tra le stelle e sesso con le nuvole. Non sei neanche più lì. Diventi una persona di carne e note.
Finisco il pezzo. Io e Mauro ci guardiamo, lo sguardo complice di chi sa che razza di puttana difficile sia la chitarra, e anche che meravigliosa geisha sia se la sai prendere dal verso giusto.
Sono in silenzio. Guardo la chitarra. Come ho fatto, 12 mesi senza?
“Un’altra?” dice Mauro.
“Un’altra” dico io. Sfoglio il canzoniere che si è portato dietro dall’Italia, e attacco. Ligabue, ancora. So fare quasi solo Ligabue. Non sono esattamente tipo da falò di Ferragosto, ma per una decina di minuti puoi anche fermarti a sentirmi. A me, quei 10 minuti bastano e avanzano.
Le canzoni scivolano. In un paio ho un sussulto strano. È come tornare indietro, e ritrovare qualcosa che amavi immensamente, e che non sai neanche perchè hai lasciato perdere. Ricordo tutto, perfino accordi come il Si minore 7. È come se non avessi mai smesso –e probabilmente è proprio così.
Penso alla mia Pam, la mia prima chitarra, che ha fatto una brutta fine, e le dedico “Non dovete badare al cantante”.
Nel mezzo della canzone sento bussare alla porta. Eccolo lì. Il coretto degli italiani ha rotto le palle al condominio australiano. Vado ad aprire, non realizzando che sono in occhiali da sole, di sera, con l’alito che sa di birra e ancora la birra in mano.
“Yes?” dico, mentre Mauro si nasconde per non scoppiare a ridere.
Lei resta un po’ interdetta, all’inizio. È solo rock’n’roll, baby, non avere paura. Alla fine ritrova le parole. Voleva chiedermi se il giorno dopo potevo spostare il motorino perchè deve fare un trasloco.
Mh-mh, dico. La saluto e torno in postazione. Verso un altro po’ di VB per me e un altro per il compare. Sfoglio il canzoniere, ne ritrovo un’altra delle mie. Schiarisco la voce con un po’ di birra. Mi sistemo gli occhiali da sole. Prendo in mano il plettro.
Ricomincio a scoparmi le nuvole.


domenica 14 settembre 2008

un mese in OZ

Cari abitanti dell’Hotel ,

mancano poche ore al mio primo mese qui in OZ…

Con un po’ di presunzione ho pensato di fare un salto all’hotel è raccontarvi l’Australia come l’hanno vista i miei occhi di working holiday in questi primi giorni…


Il primo mese mi ha fatto rendere conto che qui a down under la vita non è più facile che altrove …

la prima e forse più importante difficoltà è certamente il lavoro ….

Molti credono che con un buon livello di inglese si possa trovare qualcosa facilmente…In realtà non è così e anche qui in Australia presto o tardi andrete alla ricerca di qualsiasi tipo di occupazione senza badare a orari e a paga …


Anche qui le case (o meglio i posti letto) costano in maniera esorbitante…e anche qui c’è chi pensa bene di trarne vantaggio…

Allora un letto su un balcone oppure una stanza in una casa completamente senza finestre diventano un buon modo per accogliere chi viene da lontano…

Del resto gli Australiani tendono a stare tra di loro occupando le case migliori (che ovviamente costano di più e sono quelle in cui bisogna dare più garanzie per andarci a vivere).

Così, prima o poi tutti occupano il proprio posto….

Gli Asiatici, spaventati dal mondo, sembrano vivere in una dimensione parallela della quale apprezzo solo il look al femminile (che fa invidia alle ragazze del red light di Amsterdam ma che al contrario qui sembra senza senso).

Mentre i working holiday si ostinano (come me) a cercare una sistemazione nel centro (anche se ancora non ho capito quale sia il centro…) e a rispondere ad annunci di lavoro che promettono di farti diventare ricco vendendo improbabili ed inutili aggeggi agli ingenui australiani.

E poi c’è Sydney, che riesce sempre ad emozionarti, di giorno e di notte, così senti che questo è il posto in cui vuoi stare e capisci perché sei andato così lontano… questo primo mese, per me, è letteralmente volato via…Per me, che i giorni sembravano non finire mai ed ora tutto così diverso… dando un nuovo senso ad una nuova vita…

Aldilà delle difficoltà che non ti aspetti , Il vento Australiano ha la capacità di darti quella ostinata e ottimistica determinazione a fare si che le cose funzionino…questo cielo ti rincuora e ti senti di nuovo forte…

In questo mese, anche io, ho avuto tante prime volte e spesso sono riuscito a lasciarmi andare , fregandomene di tutto e a pensare che in fondo non è mai finita se non lo decidi tu… stare qui mi ha fatto sentire di nuovo giovane ed è qui che la mia vita mi piace più di prima …

Non dovremmo mai smettere di viaggiare…

Al prossimo mese...

lunedì 8 settembre 2008

Un anno



Il tizio alla scrivania è impassibile. Con un gesto veloce mi strappa l’assegno di 2mila dollari dalla mano, lo passa nella macchinetta e mi porge una ricevuta. La guardo senza capire. Non per l’inglese, ma perchè tutto è stato così veloce. Mesi e mesi, e adesso siamo al dunque. La mia Morgana mi accarezza la schiena e capisco che dobbiamo alzarci e andare, e lasciare il posto alla prossima coppia che potrà sborsare 2 mila per tentare la fortuna come noi.
Uscendo dall’ufficio immigrazione, in una giornata fredda ma piena di sole, capisco anche un’altra cosa. Se sono qui, se sto uscendo da questo ufficio, vuol dire che un anno è già passato.
Un anno. Me lo ripeto, e il suono mi sembra rimbombare. C’è un’eco strana. So che un anno è un bel po’ di tempo, lo so. Ma lo stesso, il tempo mi è sembrato volare, in un certo senso. Un anno come un gioco, ma di quelli seri.
Guardo il cielo di Oz. Lui, sempre lo stesso. Blu, anche dopo un anno. E io? Come sono dopo un anno, io?
Un anno in più, quindi più vecchio, dovrei dire. Eppure non mi sento affatto così.
Il 9 settembre 2007 lasciavo l’Italia, quel Paese che amo e odio, quella meravigliosa puttana in riva al mare. Non ci metto piede da un anno. Da un anno non vedo quelle facce. Nessuna notizia sul Grande Fratello nè su Vespa. Un anno, e sembra pure poco.
Mi guardo indietro, e quando ci provo però ricado in avanti. Il futuro, almeno, è incerto. Il passato sappiamo già come va a finire. Il mio, a pensarci bene, non finiva nemmeno troppo male: c’era un aereo, un giornale che non ho letto, c’era un volo di 26 ore, e poi una città di sera.
Di solito, a queste scadenze, si fanno dei bilanci, si fanno dei proclami. Io non sono mai stato troppo bravo in questo. Non sono mai riuscito a darmi un voto, io. Mi limitavo a vivere, e questo era tutto.
Tra quella città di sera e il tizio impassibile alla scrivania sono passate un bel po’ di cose. Sarebbe facile dire che il Marco che è partito non è lo stesso di adesso, ma non lo dirò. Non lo dico perchè non sarebbe vero. Io, sono sempre io, anche quando sono un altro. La parola che mi ossessionava, prima e durante questo viaggio che non è un viaggio, è stata “ricominciare”. Ho sempre avuto una fretta maledetta, e ho visto il mondo come da un’auto in corsa. Mai fermarsi, solo andare. Avevo troppe cose da dire prima dei titoli di coda, per stare ad aspettare il cambio di scena. La cambiavo io, la scena, se era il caso.
E l’Australia mi sembrava perfetta per ricominciare. Tutti, in fondo, vengono qui per questo. Non si capisce perchè, sennò, uno se ne va a 15000 km lontano dalla propria casa. Non si viene qui per fare foto, nè per gurdare koala (per quanto simpatici siano). In una terra di ex-galeotti, tutti venivamo ad espiare la nostra pena infinita, la nostra condanna, a cercare la nostra evasione definitiva.
Ricominciare, ancora una volta.
Questo, un anno fa.

Scendo lungo George Street, verso dove ho lasciato il motorino. L’aria si riscalda. Primavera, come un anno fa. Primavera dopo l’estate, dicevo allora. Adesso non ho più un’estate di riferimento, quindi è solo primavera. Ma basta e avanza.
Un anno, e sembravano essercene dieci dentro. Prime esperienze come se avessi 18 anni ancora, e invece i 30 sono ormai lì a ridermi dietro. La prima casa, i primi lavori. Io, lei, e un affitto da pagare. 13 anni di scuola dell’obbligo, 5 di università, e nessuno che mi avesse preparato a tutto questo. In questo senso, “ricominciare” diventa “cominciare” e basta. Direi che sono cresciuto, ma questo farebbe ridere per primo me. Siamo eterni studenti, tutto qua. Qualcosa ci ha indurito lungo la strada, ma questo è successo millenni prima di Oz e del suo sole anche d’inverno. È successo quando una Oz non sembrava nemmeno esistere. Quando a “ricominciare” non ci si pensava nemmeno.
Arrivato di primavera, e poi scivolato verso un’estate piena di pioggia. L’acqua che rigava i vetri e io che guardavo e pensavo, dev’esserci qualcos’altro che devo fare, per poter “ricominciare”. Ma cosa? Come?
Mi sono concesso il lusso di essere triste anche a Oz, e ho capito allora che tutta questa faccenda del “ricominciare” era una stronzata da libro di Moccia. Solo allora, quando ho smesso di pensare sempre e solo ad essere contento, ho potuto essere davvero felice. Solo quando ho visto il cielo d’Australia riempirsi di nuvole, ho capito veramente quanto sole ancora restava. E il cielo era lo stesso, nuvole o sole. E così io.
Un anno, e come vedete non ho smesso neanche per un attimo di dire cazzate.
È stato un bel pezzo di strada, in ogni caso. Giornate di quelle che nemmeno avevo mai pensato potessero esistere. E un “ricominciare”, alla fine, c’era davvero. Qui, tra una risata e un doposbronza, ho ricominciato a sognare. A camminare, perchè correre a volte ha senso e a volte no. Ho ricominciato a sperare, non solo per me, ma per tutti.
Ho ricominciato a scrivere. Ho ricominciato a crederci.
Ho ricominciato ad amare, qui a Oz.
A quel punto ero già arrivato al motorino. Io e Morgana siamo saliti. Abbiamo messo il casco. I documenti non in regola. Ho fatto partire il motore. Adesso non restava altro che tornare a casa.


giovedì 7 agosto 2008

29 anni (secondo tempo)





Una volta ho scritto un racconto. Si chiamava “23 e 50”. Il messaggio di fondo era abbastanza chiaro: i compleanni mi sono sempre stati sulle palle. Come il Natale, Capodanno e la Pasqua, non ci ho mai trovato niente da festeggiare. È questa la parola magica: festeggiare. Cosa ci sarà mai da festeggiare in un giorno in cui diventa ufficiale il fatto che stai lentamente, inesorabilmente invecchiando?
In più, i numeretti rossi sul calendario non mi hanno mai ispirato. Quei giorni di divertimento stabilito, mi sembrano tutti una truffa.
Eppure, sarebbe ipocrita fare finta di niente. Il compleanno è un giorno con cui, ti piaccia o no, ci devi fare i conti. Non può mai scivolarti via indifferente, anche se vorresti. Non basta non organizzare feste, non andare fuori a cena, non fare niente e barricarti in casa fino alla mezzanotte successiva. Il compleanno è sempre lì, paziente e stronzo.
Ne avrei un bel po’ di storie sui compleanni, e quasi tutte diverse da quelle a cui di solito siete abituati. Ce ne sono stati anche un paio piacevoli, in mezzo alla massa. Gli altri, beh...
Qualcuno è così lontano nel tempo che fa quasi tenerezza. Altri, invece, fanno ancora male. Ce ne sono stati di folli (ma nel senso noioso del termine). Ce ne sono stati di dimenticati.
L’unica costante era lui, il Tempo. Sentirtelo passare addosso, con una leggera aria di minaccia. Rispondere alle sue domande insinuanti sul come sta andando, sul come te la stai cavando. Vederlo diventare di anno in anno un po’ meno paziente, e un po’ più arrabbiato.
E veloce. Fottutamente, inutilmente veloce.
Per questo la gente si ubriaca, ai suoi compleanni. Mica sta FESTEGGIANDO. No. Sta cercando di dimenticare. Sta cercando di non rispondere a quelle domande che si fa da sola una volta all’anno.
Di solito lo facevo anch’io. Non quest’anno. Non in questo strano giorno che di solito è afoso da morire e quest’anno invece indosso 3 strati di vestiti. Non mentre bevo una birra (il primo regalo di compleanno, la gente mi conosce) e guardo questo sole e questo cielo assurdi e bellissimi.
Non ho ancora tutte le risposte. Anzi, a essere sinceri, non ne ho nessuna. La differenza è che ora non ho paura di ammetterlo.
Non so dove sto andando, e non m’importa, fintanto che è un bel giro. E poi, in una vita dove un anno fa spegnevo le candeline a Orto Liuzzo e ora mi preparo per una cena alcolica a Sydney, non ha nemmeno molto senso, avere delle risposte ferme, fisse. Basta aspettarti l’inaspettato, avere le spalle larghe. Vedere il sole con la memoria di tutto quel buio.
Vivere con la santità di un doposbronza infinito.
È il 7 agosto e mi guardo indietro. È stata una lunga corsa. Bella, molto, in certi momenti. In altri, è stata più che altro una rincorsa. I muscoli che bruciavano, le energie ridotte allo zero. Ma si correva, si correva sempre. Anche in quei tratti in cui sembrava non esserci forza sufficiente nemmeno a camminare. A zoppicare.
Ci sono state delle soste, spesso forzate. Inutile recriminare. Non ero maledetto allora, e non sono benedetto adesso. Ho corso come un matto per quello che ho, e quello che ho è sempre qualcosa che può essermi tolta in qualsiasi momento. Quindi godersela, e prepararsi a sprint improvvisi.
La mia vita fino a qualche anno fa assomigliava al film “Blow”, parti strappalacrime comprese. Non è per fare il piagnone. Diciamo solo che sono capitate diverse mani storte, lì a quel tavolo. Così storte che veniva d’alzarsi e mandare tutto affanculo.
Ero stato fottuto dalle persone, dalle circostanze, dalla Fortuna, dalla Luna, da centinaia di cattive stagioni.
Io c’avevo messo il mio, ovviamente.
Come un imbecille, come l’ultimo degli illusi, ho continuato a crederci, da qualche parte. Ho continuato a correre. Ho continuato a giocare.
Proprio per questo sono qui a scrivere questo post, in un pomeriggio di sole di Sydney (guarda caso, dopo un temporale), con la birra ormai finita accanto, e con la pace fatta con questo Sette Agosto che mi perseguita da una vita. Mi tocco la barba, mi tocco il pacco. Le scarpe da corsa sono sempre lì. Il piatto è davanti.
Abbiamo avuto i nostri momenti. Abbiamo fatto ballare un po’ di gente, qui e lì.
29 anni.
Il viaggio è appena cominciato.
Al prossimo 7/8.

martedì 5 agosto 2008

"a carta s'annamura di fissa"


Io sono cresciuto a Lamezia Terme, per esattezza Neocastro.

Infatti, Lamezia Terme era una città che comprendeva tre frazioni di cui una, appunto, Neocastro.

Credo che Neocastro fosse la frazione, che dall’unione con le restanti due, avesse tratto minori benefici.

Di Neocastro ricordo due cose: la scuola elementare, e le bombe sotto casa.

A Neocastro la mafia c’era e si faceva pure sentire, la mafia non era “babba” e ti svegliava di notte (anche al quinto piano) perché qualcuno non aveva pagato il pizzo.

Ricordo che Messina, da piccolo , sembrava una grande metropoli che sorgeva sul mare.

Era infinita.

Ancora adesso, C’è un momento in cui, quando mi avvicino alla mia città, intravedo lo stretto e non posso resistere, devo osservarlo e mi sembra sempre la prima volta…

È come se questo pezzo di mare, questa “Falce” si fosse impressa dentro di me.

Lo stretto non riesce a stancarti poiché è semplicemente perfetto.

Ho sentito spesso parlare noi “immigrati” e il mare è ciò che più ci manca quando andiamo via, Lo stretto ci rende schiavi della sua bellezza.

Forse per questo le città di mare ci sembrano sempre più familiari.

È il nostro imprinting, il legame con questa terra, con i suoi sapori, con i suoi accenti e con suoi colori.

Non ha senso chiedersi se si è orgogliosi di essere Messinese.

Riconosco che questa è la mia terra e che in qualche modo le appartengo… è semplicemente un istinto, qualcosa che sento dentro.

Forse siamo l’ultima città d’Italia ma Qui io non mi sono mai sentito un ospite.

Penso che questo sia più che sufficiente.

Più esattamente , Quello che spesso provo verso Messina, è un senso di profonda frustrazione e rabbia: sento che questo posto dove siamo cresciuti (più VOI che io , visto che io sono cresciuto a Lamezia Terme) venga continuamente violentato e umiliato.


Quello che abbiamo qui è così tanto che mi fa incazzare vedere come sia andato sprecato: una città ferma nel tempo che non riesce ad impadronirsi di ciò che le appartiene.

A questo punto, Molti se la prendono coi Messinesi, come se sia responsabilità VOSTRA (e non MIA, dato che io sono cresciuto a Lamezia Terme) avere distrutto un patrimonio inestimabile di bellezze.

I Messinesi sono perditempo, stupidi, con la pancia grossa , eiaculatori precoci e buddaci.

Nessuno riesce a spiegarmi “Cosa” avrebbero dovuto fare esattamente i Messinesi, nel concreto, per potere avere oggi , una città che non fosse quello che è…

La verità è che Messina, paga il suo essere città del Sud, il suo essere città Siciliana.

Messina è stata distrutta… noi siamo stati feriti e continuiamo ad esserlo…

I Borbone non hanno mai lasciato questa terra e noi continuiamo ad essere luogo di conquista ...

Come noi continuiamo ad essere cittadini di serie B…

Sento che niente potrà mai cambiare questo e forse il futuro prossimo di Messina sarà il giusto epilogo per una città che ha sofferto troppo e che probabilmente non sarebbe mai dovuta rinascere… sepolta sotto un ponte, ultimo simbolo di una Roma mafiosa, che non vedrà mai la fine...

Mi rende triste vedere la mia terra ridotta in questo stato di coma indotto… Ma non vivo questo con distacco,non provo rancore per Messina, il dolore di questa Città è il mio dolore…

Scusatemi allora se mi incanto a guardare lo stretto e se anche oggi, con la valigia in mano, penso alle cose che ancora non ci hanno tolto, alla voglia di trovare un senso e mi convinco che la nostra terra, così sfortunata, sia creditrice di un miracolo…

domenica 3 agosto 2008

A Messina


Io vengo da Messina. Dato anagrafico incontestabile. Una delle poche certezze. Chi mi conosce pensa che io odio Messina. Non è vero. O meglio, non del tutto.
Coloro che, tra quelli che stanno leggendo, vengono da un piccolo paese sanno a cosa mi sto riferendo. Quella specie di odio/amore, quella lotta continua che non ti lascia mai indifferente –perchè quelle stradine, quei muretti, quelle panchine, perfino quei muri ti dicono qualcosa. Te la diranno sempre, anche se non vuoi sentirla.
Odiare Messina è fin troppo facile. Di questi tempi è come odiare Berlusconi, con tutto il rispetto –per Messina, ovviamente.io l’ho odiata, di cuore. Quando ero ragazzo e vivevo lì, non mi sembrava ci fosse bucodiculo peggiore nel mondo. Poi ho fatto la visita militare a Taranto, e ho capito che c’è di peggio. Lo stesso, arrivare al n.2 non è che ti fa stappare lo spumante. Partire, era tutto quello che volevo.
Tutti pronti a dire che da ragazzi è normali, ribellarsi al posto dove stai. Tutti ce l’hanno. Sicuramente stavo crescendo anch’io, ma non voglio far andare via Messina con la coscienza troppo pulita per questo. Ha avuto le sue colpe, e non le dimentico. Messina sa essere una città stronza, spietata, piccola, fredda. Certo, ma se la metti con Milano, con Roma, con New York...io sono cresciuto lì. Era Messina quella che doveva fare qualcosa per me, non Milano Roma New York.
Ci siamo lasciati male, io e Messina. Anche a distanza, ci stavamo sulle palle –reciprocamente, direi. Andare lì era una forzatura. Vivere fuori aveva tirato fuori –come sempre succede- la mia sicilianità, ma questa svaniva proprio quando ero lì. Facile, quando sei a Roma, tirare fuori la passeggiata il mare i colli i tramonti lo stretto. Quando sei lì, e rivedi tutto e tutti, ti deprimi così tanto che ripartiresti subito.
Perchè? Perchè Messina è quella lì. Non quella dei depliant, non quella delle foto. Non sei un turista, tu. Per te Messina non è la pesca del pescespada, o la Vara. Per te Messina era la tua scuola, i tuoi amici, la tua famiglia. Era tutto ciò che andava bene e andava male nella tua vita. E quando andava male, dello Stretto te ne sbattevi proprio. Fidatevi.
Adesso però non la odio più, Messina. È passato tanto tempo, e odiare necessita di troppe energie che mi servono per molto altro. Non saremo mai amici, questo è sicuro, ma una birra ogni tanto possiamo bercela.
Parlavo con un mio amico, l’altra sera. Mi diceva che era andato al mare, in uno dei lidi, una sera, e che senza fare niente di particolare, solo stando lì, si sentiva bene. Stava bene. Ubriaco senz’aver bevuto.
Gli ho detto che capivo. Era vero. La conoscevo quella sensazione. Messina è una vecchia baldracca capace ancora di stupirti. Te ne stai sulla spiaggia sotto le stelle, e qualcosa succede. Semplicemente, la vita ti passa addosso. Realizzi che quello è un posto da 5 stelle, nel quale vivere. Ti dimentichi di tutti i suoi omicidi. È una sensazione bellissima. Ti senti leggero. L’aria ha un odore tutto suo, la sabbia si fa morbida, il cielo sembra aprirsi solo per te.
Gli altri giorni non va così. Ma capita.
Ogni tanto, ma capita.

Messina santa, Messina puttana
Messina sporca col vestito da sera
Messina occhi puliti, Messina sana
Messina che non ha mai avuto la cura
Messina terremoto, Messina sotto le bombe
Messina che risorge e Messina che si scorda
Messina che se ne fotte, che se n’è sempre fottuta
Messina da mercato e da stadio, Messina sola
Messina due ristoranti e poi tutto chiuso
Messina questo non lo saluto, questo nemmeno
Messina cosa siamo usciti a fare
Messina com la faccia voltata dall’altra parte
Messina baracche, Messina sporcizia, Messina ponte
Messina sotto processo, Messina vuota
Messina senz’acqua, Messina senza vita
Messina che vorrebbe ma è troppo pigra
Messina laida, Messina da libro di storia
Messina traffico all’una, Messina uscita di scuola
Messina di birra, Messina a festa
Messina con case che sono sempre le stesse
Messina in rovina, Messina in ritardo
Messina con traghetti lenti, Messina che riposa
Messina cimitero, Messina tragica
Messina che è solo un ricordo nelle sere di agosto
Messina che non muore, Messina in coma profondo
Messina passeggiata al mare e topi sullo scoglio
Messina due discoteche per tutta l’estate
Messina cornetto di notte, Messina con la merda nel mare
Messina avvelenata, Messina mafiosa
Messina io quello lo conosco, io conosco quello
Messina università piene di raccomandati, Messina coi malati
Che sono rimandati
Messina vergine infelice, Messina troia sfondata
Messina piena di chiese e senza nessun fedele
Messina una festa all’anno e per il resto stai sul balcone
Messina parcheggiata in doppia fila
Messina abusiva, Messina di tajone, Messina di canti
Messina popolare
Messina che non esiste, che non è mai esistita
Messina che sbiadisce nelle foto e nei ricordi
Messina ragazzi in strada, Messina dialetto, Messina dei preti
Messina ragazze culo grosso
Messina zalla, Messina vestita di calia
Messina che dorme, Messina che russa
Messina cafona, rumorosa, che puzza
Messina chimera
Non voluta, non cercata
Ma c’è
Ancora

martedì 29 luglio 2008

A different World Youth Day

Per celebrare come si deve il giorno del Signore, e come reazione al mega-scassamento di palle causate a tutti noi a Sydney, abitanti, visitatori, buddisti atei e bestemmiatori, dalla visita del Santissimo Padre e quella buffonata del WYD, il pellegrino Jarrod e io abbiamo deciso di recarci in meditazione al santuario del Sexpo Sydney 2008, a Moore Park.
Come tutti i cammini di fede, da Santiago in su, è stato difficile e pieno di tormenti, per lo più dovuti ai trasporti pubblici australiani, ma grazie ad una provvidenziale sosta ad un bar vicino il Sexpo, io e il confratello abbiamo potuto placare la nostra sete di conoscenza divina, oltre che di pilsner.
Riempiti di fede fino a barcollare, con tante risate certamente ispirate dal Supremo, abbiamo pagato il nostro obolo di 25 dollari ad un altro confratello e siamo entrati.
Il luogo all’inizio sembrava incline a ispirare la preghiera e il raccoglimento, con tutte quelle anime tormentate e pie che lì cercavano espiazione e illumazione. Da bravi pellegrini abbiamo cominciato allora la nostra personale Via Crucis, fermandoci laddove la nosra preghiera ne sentisse il bisogno. Strumenti creati apposta per la gioia di ogni pellegrino si trovavano lì, in varie forme, colori, modalità di vibrazione e massaggio –batterie non incluse. Creme e lubrificanti per benedire il corpo. Fruste e bastoni borchiati per poterlo punire, qualora il pensiero del male si affacciasse.
C’erano anche diverse tuniche per il pellegrino del Sexpo, modellata secondo le proprie aspirazioni e il proprio bisogno di aiutare il prossimo: c’era la generosa infermiera, la prodiga cameriera, la suora devota o, perchè no?, anche la poliziotta dedita al lavoro. Tutto ciò che serve per fare grande la comunità e portarla più vicina al Supremo.
Come tutti i pellegrinaggi, arriva il momento per ristorare il proprio corpo stanco dalla preghiera. Così io e il confratello Jarrod ci siamo fermati a mangiare e a bere un altro po’ di quel nettare divino. Al nostro tavolo c’era un confratello nero enorme, che ingoiava un insalata con un sorriso sulle labbra.
“Quanta passera, eh?” sorrise –intendendo probabilmente gli uccelli cari a San Francesco. Io e il confratello non abbiamo potuto che annuire con un sorriso radioso e piano di pace.
Una volta ripreso il nostro pellegrinaggio, abbiamo incontrato delle anime in pena. Una di queste si esibiva sul palco, con vestiti in pelle e stivali col tacco. Bastava pagare per fare delle foto con l’anima in pena –forse per ricordarti che c’è gente che soffre e che non devi mai smettere di pregare.
Io e il confratello continuavamo ad andare e a rovistare tra quegli strumenti così strani di fede. ovunque vendevano manette, che servivano a tenerti lontano dalle tentazioni, lì inchiodato al tuo letto da penitente. Vendevano anche dei chilli afrodisiaci, che servivano forse ad aiutarti ad esperire l’immagine del Supremo. Prendemmo quello più piccante, giusto per provare. Non so se era il Supremo o no, ma mezza lingua era andata di botto. Forse era l’ennesima prova di fede. io e il confratello Jarrod non ci lamentammo mai, infatti. Ci limitammo a buttare monosorso una birra per spegnere il fuoco.
Ma il pellegrinaggio, diversamente da quanto si può pensare, non è solo per gli uomini. Il Supremo non ha sesso, e così il Sexpo era pieno così di pellegrine di tutte le forme e misure, pronte anche loro a servirsi di quegli strumenti benedetti per poter raggiungere l’illuminazione. Le vedevi andare via con le borse piene e un sorriso soddisfatto. Eravamo tutti devoti, là dentro.
Quando poi sul palco si sono esibiti dei fratelli pellegrini muscolosi in mutande, è stata per loro una vera esperienza di fede. ne ho personalmente visto alcune urlare e diventare rosse, come se avesse un’esperienza ultraterrena. Quando poi l’uomo si è tolto anche le mutande, alte preghiere si sono elevate al cielo.
Il tempo di bere ancora un po’ di quel succo divino che lenisce lo spirito e allieta il corpo, ed eravamo pronti ad andare. Rinfrancati nello spirito, fortificati nella fede, e con le buste piene.
E tutto questo senza bloccare strade e occupare gli aereoporti.
Una vera esperienza di fede.

giovedì 24 luglio 2008

Lasci il posto che ti ha fatto da casa per quello che è stata una vita intera.

Non puoi che aprire una birra e provare a dire qualcosa , almeno per una volta, che sia all'altezza di questo momento.

Queste mura sono state testimoni della tua storia , hanno fatto da teatro alle cose che hai vissuto e che ti hanno lasciato un segno … alle persone che hanno incrociato il tuo cammino, alle vittorie celebrate come scemi…alle notti che sembravano non avere fine, al buio che ti avvolgeva, alla voglia di arrenderti, alla forza di continuare.

Poi qualcosa è successo, hai deciso che ti eri fermato per troppo tempo , che era giusto ripartire.

Questo è il momento di dire addio a una città che di notte riesce ad essere meravigliosamente bella ma che al risveglio suona come una promessa non mantenuta.

Un capitolo non scritto, come quel viso… e quella musica che dura sempre troppo poco per ricordarti di nient’altro…

E man mano che ti allontani lo capisci: tutto sembra così piccolo e ora non serve più sforzarsi per dimenticare…

Partire significa tutto questo…Partire significa un nuovo inizio, una piccola bugia che ti racconti e lo sai solo tu .

domenica 20 luglio 2008

Ritorno al Morgana

Cari abitanti del Morgana
ho aspettato a lungo prima di scrivere questo post. Quest’attesa è stata giornate lunghe, giornate nuvolose, giornate che non dicevano niente di buono. C’era ansia, attesa, incertezza. Dubbi da non dormirci.
Vivere, che è sempre così fottutamente complicato.
Poi una mattina mi sono svegliato. La testa mi faceva meno male del solito. Il giorno prima era stato uno di quei giorni che non vedi l’ora che finisca. Uno di quei giorni che aspetti da una vita, e che non vorresti mai passare.
Quella mattina non pensavo a niente di tutto questo. Le tragedie, le attese, niente. Non pensavo a nulla. Mi sono alzato, sono andato a pisciare, sono tornato a letto. La mia Morgana era lì che dormiva, più bella che mai. Le ho dato un bacio e lei ha sbuffato. Poi mi sono girato nel letto, ho guardato fuori dalla finestra un panorama che avevo visto già migliaia di volte, e ho realizzato che ero in Australia.
Lo so, sono qui da dieci mesi, ma ancora sono rari i momenti che te ne rendi conto davvero. Non so nemmeno cosa voglia dire, essere in Australia. Ma io c’ero, e la cosa mi faceva godere.
In quel momento ho capito che un’altra battaglia era stata vinta. Non la più lunga, e nemmeno l’ultima, se è per questo. Ma una vittoria, anche coi malditesta e le incertezze, è pur sempre una vittoria, e uno se la deve tenere stretta. Di perdere siamo capaci tutti, e tutti ti dicono come dovresti affrontare la cosa. Per questo ci sono le religioni. Le droghe. I canali porno 24 ore su 24. I libri di auto-aiuto. Un mondo intero che va alla deriva, che affonda, e ognuno che si trova il suo modo personale di farlo.
A vincere, non te lo insegna nessuno. Non è previsto. Non fa parte della tua educazione, della tua cultura. Anche quelle culture tutte muscoli e steroidi, come quella americana, sono poi piene di sconfitti, da cima a fondo.
Il mantra che impari da piccolo è: confonditi con la massa. Non farti beccare. Non alzare la cresta. Diventa uno dei tanti. L’uniformità è la strada per il successo. Tutto ti porta a diventare uno dei tanti Nessuno che popolano il mondo. La massima vittoria è la mancanza di sconfitta. Non si sta bene, al massimo non si sta troppo male. Va ok, non alla grande. Si va in vacanza, ma si torna indietro in tempi ragionevoli. Si fanno dei sogni, ogni tanto, ma tanto poi ci si sveglia e ci si mette a fare le persone serie.
Non si ride, si sorride.
Non si vive, si sopravvive.
Quella mattina ho capito che quel vivere a metà non m’interessava più. Quella mattina ho deciso di salpare, di prendere quel treno, di salire su quell’aereo. Ho deciso che se non potevo avere tutto, allora non volevo più niente. Che se non provavo almeno a incularmi il mondo, era giusto allora che quello inculato alla fine fossi io.
Ho deciso che ci voleva ancora dell’altro rock, invece di quel lungo mortorio sottovoce.
Vivere rumorosamente. Farsi sentire. Dire quel che c’è ancora da dire, e poi esplodere in comete drogate.
Ho deciso di smettere di ascoltare, e cominciare a parlare. Di credere in quello che voglio, e di volere quello in cui credo. Ho deciso di darci sotto.
Ho deciso di rischiare, quella mattina.
Pensando queste cose ho sorriso, per la prima volta dopo un pezzo, con tutti i muscoli e tutti i denti, con quella sensazione calda e densa che ti arriva quando stai per lanciarti senza paracadute, e non vedi l’ora di vedere come va.
Poi ho spento quella maledetta sveglia, e finalmente sono tornato a dormire e sognare.

Il Morgana riparte, ragazzi. Adesso non si scherza più.
Per modo di dire.

mercoledì 16 luglio 2008

A voi, temerari della ricerca e del tentativo , e a chiunque si sia mai imbarcato con ingegnose vele su mari terribili.

…Le tre metamorfosi (come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo):

“…Tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé: come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, così corre anche lui nel suo deserto…”

“…Ma la dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: lo spirito diventa leone. Egli vuole come preda la sua libertà ed essere signore nel suo deserto…”

“…Crearsi la libertà per una nuova creazione: di questo è capace la potenza del leone…”

Crearsi la LIBERTA’ è un NO sacro anche verso il dovere: per questo è necessario il leone.

“…INNOCENZA è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un gioco, un primo moto, un sacro dire di si…”

Così Il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo…

Dedicato a un compagnero ( Da “così parlò Zarathustra”).

domenica 29 giugno 2008

L'inclinazione...

L'inclinazione umana all'abbandono totale...

L'inclinazione umana all'innamoramento fatuo...

L'inclinazione umana all'egoismo spicciolo e colpevole...

L'inclinazione umana all'invidia...

L'inclinazione umana alla competizione amorosa...

L'inclinazione umana alla sofferenza gratuita...

L'inclinazione umana al ricordo immotivato...

L'inclinazione umana al pianto irragionevole...

L'inclinazione umana alla scelta di comodo...

L'inclinazione umana al complesso di inferiorità...

L'inclinazione umana al fascino del superiore...

L'inclinazione umana al compromesso...

L'inclinazione umana ai piaceri del sesso...

L'inclinazione umana al placarsi del piacere...

L'inclinazione umana alla morte dei sensi...

L'inclinazione umana al riaccendersi del desiderio...

L'inclinazione umana alla simulazione...

L'inclinazione umana allo sbaglio...

L'inclinazione umana alla fedeltà forzata...

L'inclinazione umana all'infedeltà ostentata...

L'inclinazione umana alle cialtroneria....

L'inclinazione umana al perbenismo ipocrita...

L'inclinazione umana all'esibizionismo...

L'inclinazione umana alla reiterazione dell'azione...

L'inclinazione umana all'inconsapevolezza del dolore...

Mattina di Oz

Appena suona la sveglia, allungo subito una mano per staccarla. Sono le sei e mezza e nella casa dormono ancora tutti. Il mal di testa è devastante. La sorella della padrona di casa russa piano nel divano accanto. Io mi giro nel materasso per terra, e mi scambio un bacio alcolico con la mia ragazza prima di alzarmi. Solo pensare alla colazione mi fa venire da vomitare. Mi verso un bicchiere d’acqua, poi un altro. La testa che batte. Mangio un cookie. Altra acqua. Poi mi spoglio piano, nel buio, cercando di non fare rumore. Dal piano di sopra, altro russare. La mia ragazza mi saluta e si riaddormenta.
Fosse stato un sabato, magari nella mia Gladesville, sarebbe tutto diverso. E invece esco di casa in una mattina di sole di giovedì, a Ryde, Sydney, Australia. La sensazione di freddo appena esco di casa, e poi quella, infinitamente peggiore, del trovarmi in un tragico doposbronza in una zona che non conosco, in un paese sotto l’equatore, con una vaga idea solo del bus da prendere per andare al lavoro per altre 8 ore di quotidiana follia. Mi incammino piano, con lo zaino pieno e gli occhi pesanti. Non avrei dovuto bere quello shot di Jageirmaister. Se è per questo, non avrei dovuto bere nemmeno quello shot di assenzio. Ma tanto a quel punto, dopo un’intera bottiglia di vino, probabilmente contava poco. Ma è stato divertente, e in questa vita che si misura più a risate che a centimetri di fegato salvati, è questo quello che conta. Un delirio, come sempre. Cose australiane, come sempre.
Insomma, com’è è, arrivo alla fermata. Sarà quella giusta? Odio questa sensazione. Tutti sanno dove cazzo stanno andando tranne me. Guardo gli uomini in giacca e cravatta, i vecchi e i loro bastoni, i ragazzi con quelle uniformi ridicole per la scuola. Mi sale un rutto leggero che sa di rosso di Tambawamba, o come cazzo si scrive.
Salgo e trovo un posto a sedere. Tutto quieto, per fortuna. Tutto, tranne una ragazza che parla a voce alta al telefono. La ascolto, come tutti gli altri 50 nel bus. Italiana. Dall’accento direi siciliana, ma non di città. Sta litigando col ragazzo. Cristo Santo. Mi trovo sul 290 che va verso Parramatta, sfiliamo verso il Macquarie Center, e devo ascoltare una siciliana che urla al telefono mentre sono in doposbronza. Cristo.
Grazie a dio dopo un paio di fermate stacca il telefono in faccia al ragazzo e scende. Io mi godo la pace, e rischio anche di addormentarmi. C’è caldo, nel bus. Si sta bene. Sa di noddles e sigarette. Una ragazza asiatica davanti a me tiene gli occhi chiusi. Ci fermiamo ogni tanto a prendere su qualcuno, e qualcun altro scende. Al 95%, tutti asiatici. In questa zona di Sydney è esattamente come trovarsi a Singapore o Bangkok. Anzi no, a Bangkok è pieno di turisti.
Mi studio un po’ le facce, mi guardo un po’ di panorami. Non ce la faccio a leggere, né a mettermi l’ipod, oggi. Però quel cazzo di agnello ieri era una favola. Peccato che non sia andato giù del tutto. Facce stanche, facce da 7 di mattina. Quello non cambia mai. Facce di chi sta andando a dare il culo per qualche ora. Solo l’abitudine e la necessità permettono di tenere i pezzi insieme, e nemmeno sempre. Qualcuno legge il giornale, qualcuno si addormenta. Arriviamo.
Altra cosa che mi manda in paranoia, la fermata del bus. Quando ne prendo uno nuovo, ho sempre paura di sbagliare. Così cerco di non farmi fregare, scendo prima di quando dovrei, e capisco solo allora che così ho solo peggiorato le cose.
Stavolta scendo quando dovrei. Mi sembra che tutto fili. Peccato che della strada che dovrebbe portare al mio ufficio, nemmeno l’ombra. Eccomi qui, 15000 km lontano dall’Italia, senza sapere dove cazzo andare. Chiamo la mia ragazza, ma lei è già al lavoro e non mi può aiutare. Penso per un attimo di fermarmi lì, magari ricostruirmi una vita. comprarmi una casa, cose così. Ma è una zona troppo costosa per me. Prendo su lo zaino e comincio a camminare.
Vado avanti per un paio di km, poi torno indietro per la stessa identica strada. Le persone alla fermata pensano che sia pazzo. Non posso dargli torto. Avvicino qualche camionista che sta caricando per chiedere informazioni. Il mio inglese da doposbronza e il loro australiano sono più o meno la stessa, incomprensibile cosa. in ogni caso, nemmeno loro sanno dove cazzo sto andando. Almeno mi comforta un po’.
Alla fine, seguendo più l’ispirazione che una vera e propria logica, imbocco una di quelle stradine per pedoni e biciclette che affiancano l’autostrada. Mai fatto prima. Comincio a camminare. Sono solo. Il sole ora batte forte, ma si sta bene. più che inverno, una primavera spettacolare. Nemmeno una nuvola. Rutto ancora un po’, e mi viene da pisciare per tutta l’acqua che ho bevuto prima. Cammino piano, senza essere sicuro di dove andrò a finire, e penso, che cazzo, sei in Australia, ma ti rendi conto? Stai andando al lavoro (o almeno, ci stai provando), in un paese dall’altra parte del mondo. ti sei ubriacato in 2 continenti, e prevedi di allungare la lista. Un anno fa eri ancora a fare avanti e indietro per la Tiburtina. Ora sei a Lane Cove, e stai andando verso Artarmon (o almeno così speri, sennò arriverai al lavoro con un LEGGERO ritardo). In questo momento esatto in Italia stanno andando tutti a nanna, e tu sei qui sotto il sole. Chi se ne frega di doposbronze e orari e tutto il resto. Solo, goditela.
E così faccio. Metto gli occhiali da sole, e cammino piano, con piacere, per le rampe deserte, mentre le macchine mi sfrecciano accanto. Supero palazzi vuoti sotto un cielo blu abbagliante. Poi faccio l’unica cosa logica da fare in situazioni del genere: accendo l’Ipod, seleziono “Riders on the storm” dei Doors, rallento ancora di più il passo, e vado.

domenica 15 giugno 2008

Sympathy for the devil

Una delle canzoni che sento spesso andando al lavoro –grazie ai bellissimi cd che mi ha dato un’amica tempo fa- è “Sympathy for the devil”. Bella canzone. Il diavolo per me era davvero un simpaticone. Solo che tutti gli danno addosso sempre, poverino –povero diavolo. Ha creato lui tutte le cose divertenti della Terra, eppure al momento dei conti ci giriamo dall’altra parte, come se non lo conoscessimo. Ha fatto cambiare lui il mondo, mica il suo collega. Anche quando gli eserciti avevano la croce, c’era sempre lui dietro. Dove c’è uomo c’è diavolo, in fondo. Solo che noi non vogliamo averci a che fare, perché cosi ci hanno insegnato da piccoli. Così facciamo le cose e ce ne pentiamo. Sentiamo senso di colpa per qualcosa che noi pensavamo giusta ma qualcun altro ha definito sbagliata. I tuoi istinti fanno il tifo per il povero diavolo. Poi arriva la sua controparte, e rovina la festa.
Anche nel peggiore dei doposbronza, non ho mai detto –mai più. Quella è una frase che si aspetta il me stesso con l’aureola. Io sapevo che sarebbe successo ancora, e che mi sarebbe piaciuto ancora, e allora che bisogno ho di fare stare zitta la mia coscienza con promesse che tanto non rispetterò?
Male e bene, e io non sono un satanista, non me ne frega niente di religioni e surrogati vari. Ma non ho mai creduto alla storiella del male male e del bene bene. non esiste nessun buono davvero buono. C’erano santi, nel cattolicesimo, che scopavano, ammazzavano, si ubriacavano. Papi che sono andati in battaglia. A quel tempo qualcuno aveva detto che era giusto così. Sant’Agostino era quello che voleva castità –ma non subito, Signore, aspetta un po’. I cattolici hanno dimenticato che l’albero da cui Adamo ed Eva avevano mangiato non era l’albero del male, o del bene e del male. Quello proibito era l’albero della CONOSCENZA del bene e del male. La differenza è di una parola, ed è immensa. Il buon Dio ci voleva nell’ignoranza, e tanti cattolici ci sono anche riusciti nell’impresa (senza generalizzare, please). Quello che rende quindi l’uomo davvero umano è il conoscere questi limiti, non fare sempre la cosa giusta. Conoscere le proprie ombre prima ancora che i propri colori.
Il male in sé non vuol dire niente. È tutto e niente. L’uomo è nato per ferire e uccidere l’altro uomo, non per abbracciarlo. La sua natura è animale. Il passo successivo è far convivere questa sua natura con la coscienza che c’è il giusto e c’è l’errore. Per istinto sono sempre stato attirato dalle persone che hanno fatto grandi errori, nella loro vita, perché spesso quello è l’unico modo che hanno avuto di trovare la cosa giusta –la LORO cosa giusta. Mi sono sempre stati simpatici i falliti, i caduti, quelli che hanno perso tutto, quelli che l’hanno presa nel culo, quelli che sono a terra con l’arbitro che comincia già a contare. Laggiù si possono avere le idee molto più chiare, credetemi. Si vedono le cose con qualche velo di ipocrisia e superficialità in meno. Si capisce meglio. Si mangia di nuovo quella mela lì.
Non sempre, ovvio. Non tutti quelli che cadono si rialzano, e non tutti quelli che lo fanno sono persone migliori, illuminate. C’è chi torna incattivito –e spesso ha tutte le ragioni per esserlo. È umano anche questo.
Gli altri hanno forzato i loro limiti, e sono andati avanti. Si sono spinti fino all’Inferno, e forse hanno scoperto che non esiste nessun Paradiso, o che non è quello che ci aspettiamo. Ma anche lì, era quel buon diavolo a guardarli con pena, non il suo collega. Il diavolo non li giudicava, non era lì a dirgli che stavano sbagliando tutto. Il diavolo capiva. E loro capivano lui.
Come diceva Twain, il paradiso lo preferisco per il clima, l’inferno per la compagnia. E così, lasciamo le nuvole ai primi della classe, sempre puliti belli bravi e buoni –e noiosi, dio mio. Noi ce ne stiamo lì sotto a fare casino ancora un po’.
PLEASE TO MEET YOU, HOPE YOU GUESS MY NAME!

domenica 8 giugno 2008

Sul pulire il bagno e sulla virtu'

Sono sempre stato dell’idea che tutti quelli che non hanno mai vissuto almeno per un po’ da soli, con un posto tutto loro, si sono persi alcune delle esperienze fondamentali che fanno parte di ogni esistenza. Una di queste è la pulizia del bagno.
Australia o Italia, poco importa. il cesso è il cesso, punto. E quando lo dividi con qualcuno –che sia un coinquilino, la dolce metà, o un ospite- l’esperienza del bagno diventa qualcosa di tosto. Concreto. Eppure, allo stesso tempo, assolutamente mistico.
Pulire il bagno è come avere a che fare direttamente con la propria mente. Ti apre nuovi orizzonti. Mentre sei lì piegato a passare la spugna intrisa di candeggina su superfici luride, capisci un po’ meglio chi sei. è un viaggio dentro te stesso che non solo non ti costa niente, ma ne guadagni in salute mentale e igiene. La casa gioisce con te.
Sul bagno ci sono diverse storie. La gente tende a non volerci avere a che fare, di solito. Pazzi, dico io. non sanno cosa si perdono.
Ci sono quei coinquilini che li devi pregare, scongiurare di strappare le ragnatele alla tazza, di togliere un po’ –non tutta, ma almeno un po’- della muffa che si è depositata nella doccia. Loro sbuffano, ti guardano male. Pensavano che tu fossi uno fico, uno rock, che se ne sbatteva di queste cose. Per loro è incredibile che uno come te si formalizzi per fare i suoi bisogni in un cesso che ha lo stesso odore di un orinale di un pub di venerdi sera. Che ti dia fastidio che il tuo spazzolino si immerga in due dita di acqua verdognola, stagnante, che odora di vomito di neonato. Si guardano intorno, cercano per la mamma, per qualche filippina che faccia il lavoro al posto loro. Quando vedono che tutte le speranze sono finite, che quel periodo meraviglioso chiamato infanzia si è infranto sopra un cumulo di capelli e peli ammucchiati sul fondo della vasca, allora si tirano su le maniche, sbuffano, e cominciano.
Ognuno ha il suo modo. A me, per esempio, piace tenere distinte le spugne per il lavandino da quelle per la tazza. Ho questa assurda fobia del non volere che qualcosa che ha pulito il mio piscio pulisca anche il posto dove mi lavo i denti. Ma a ciascuno il suo, come si dice. C’è chi lava il cesso e poi va a tavola senza lavarsi le mani. C’è chi usa la stessa spugna che poi userà per lavare i piatti (storia vera). Anch’io una volta, col lavandino della cucina rotto, ho dovuto lavare per qualche tempo tutte le stoviglie nel lavandino del bagno. Una di quelle cose che eviti di dire ai tuoi ospiti –specie se vuoi averne ancora, di ospiti, nella tua vita.
Intendiamoci, non è che faccia i salti di gioia. Quando c’è da lavare lo scopettone del cesso, beh ragazzi miei, lì ti chiedi il perché di tante cose. Poi pensi che se c’è qualcuno che lavora nelle fogne e poi lo stesso può avere il suo pranzo, tu puoi fare altrettanto. Basta non guardare e non respirare. Anche sullo scopettone ci sarebbero tante e tante storie da raccontare, che hanno a che fare con ospiti e strane indigestioni, ma sono buono e ve le risparmierò.
Lavare il cesso però è un’esperienza che ti purifica. Ti pulisce dentro. Di solito metto della musica quando lo faccio, ma poi quasi non la ascolto –tanto sono preso da quello che sto facendo. La tua mente scivola piano piano in una dimensione parallela fatta di sapone, capelli e bianco che riappare. Ogni volta che il lavandino mostra il suo antico splendore, ti senti come rinascere un po’. Ti pieghi a 90 col sangue che ti va alla testa e il sudore che ti cola dalla fronte e ti metti a strigliare il fondo della vasca –e mentre sei così, con le vene che pompano e i peli pubici che si attaccano alla spugna, ti sembra di afferrare il senso vero delle cose. Hai delle illuminazioni. Capisci che hai vissuto in maniera sbagliata, fino a quel momento. Basta con i vizi, basta con gli eccessi. Quella è la via da seguire. Giù di gomito, sudore, pulizia. Spazzi via i tuoi peccati. Strappi i capelli che si sono legati nello scarico della vasca, e ti sembra di liberare il tuo Io più vero e profondo, quello che non hai mai il tempo di ascoltare. Strofini bene il bordo, che da grigio nebbia diventa bianco, e capisci che per troppo tempo hai vissuto nell’oscurità, e già vedi una speranza. Rivedi i tuoi sogni fare capolino, li ritrovi come vecchi amici vicino al bagnoschiuma vuoto da mesi che nessuno ha ancora buttato. Le aspirazioni che avevi lasciato lungo il tuo cammino peccaminoso risalgono una ad una mentre provi a togliere il calcare dalle tubazioni.
Ma è quando arrivi al momento della tazza che tutto viene al dunque. La lotta tra il tuo Es e il tuo Io raggiunge il culmine. Tutti i tuoi incubi, le tue paura più nascoste, i tuoi dubbi che non puoi confessare a nessuno sono lì, lungo il bordo. Un po’ più sotto, in zone a cui solitamente eviti di pensare, ci sono i tuoi tabù, i tuoi terrori ancestrali, immotivati, le tue perversioni nascoste, le tue follie momentanee. C’è chi non le affronta mai, in tutta una vita. tu sì. Tu hai il tuo Anitra WC, e tanto basta. Non credevi che bastasse così poco, ma quando quel getto verde circonda l’interno della tazza, ti sembra come risvegliarti da un coma volontario. Sei stato battezzato una seconda volta. La Luce e la Gloria sono con te.
Mentre strofini il bordo della tazza, in un aroma inconfondibile che associ con tutto ciò che vedi di sbagliato in te, capisci che stai andando verso il fondo di tutte le cose, che la tua mente si sta aprendo. Stai pulendo i canali di comunicazione. niente più ostruirà la tua vista interiore. Diventare uno zero assoluto, e ripartire da quello.
E poi, dopo tutto questo lottare con sé stessi, l’ultimo tocco dello straccio passato per terra, con quell’ultimo cumulo di capelli che non ti vuole lasciare, come un residuo della notte che non cede il posto all’alba –ma anche quello ha i secondi contati. Secchio, strizzata, e tutto va via.
Ti rialzi sudato, puzzolente, soddisfatto. Guardi tutto quel lavoro, odori a pieni polmoni quel pulito e ti dici, finalmente. Sei puro, come appena nato. Non esiste più alcun timore né cattiveria dentro di te. Sei nuovo. Guardi il bagno e dici, mai più come prima. Ti commuovi da solo e quasi ti scende una lacrima. Mai più, ti ripeti.
Poi metti via stracci e spugne in un cassetto e te ne dimentichi fino al mese dopo.
Provate anche voi.
Un cesso pulito può salvare la vostra anima.