domenica 27 novembre 2016

Contro ogni probabilità


Quando avevo 16 anni, i miei genitori mi fecero per Natale due regali particolarmente azzeccati. Il primo era una giacca di velluto nera molto scicchettosa (negli anni ’90 bastava poco per essere scicchettosi).
Il secondo fu un libro.
Senza perdere la tenerezza”di Paco Ignacio Taibo II era una biografia iperdocumentata ed esaustiva (fin troppo) di Ernesto Guevara, detto il Che. Ogni tanto penso che questo fosse il regalo più sbagliato che potevano farmi, considerata la mia confusione totale di allora (su qualunque argomento, in qualunque direzione), e i rischi legati ad una lettura del genere erano tanti.
Poi invece capisco che era il regalo migliore che potessero farmi. Perchè dimostrava che, al di là dei (tanti) scontri che avevamo in quel periodo, vedevano la mia curiosità, la mia fame di pagine, la voglia di capire. In tempi pre-Google, raccoglievo e custodivo gelosamente gli inserti del “Corriere” sulla storia del Novecento –considerando che il nostro libro di testo finiva a malapena nel secondo Dopoguerra. La storia mi piaceva tantissimo, per qualche motivo. Forse, dal momento che non avevo alcuna idea di cosa mi aspettasse, del che cosa fosse il futuro, cercavo quantomeno di mettere ordine nel passato.
Ancora adesso rimpiango i tempi in cui il passato era solo quello dei libri, e non il mio personale.

Sapevo qualcosa del Che, la sua figura mi affascinava, ma a parte i documentari in seconda serata di Raitre, ne sapevo davvero poco. Cercavo di evitare gli slogan facili come molti miei coetanei, volevo solo capire –sempre se c’era da capire.
I miei devono aver captato questo bisogno, e grazie a loro mi immersi in quelle pagine. Il libro mi prese parecchio tempo. Le mie conoscenze politiche non erano sufficienti, ancora, per la prosa iperdettagliata di Taibo II (una sequela di partiti movimenti decreti alleanze ministeri accordi sotterfugi). Ammetto di aver fatto fatica in quelle parti. Per il resto, il libro fu davvero una rivelazione.
Anche coi miei 16 anni, capivo che il Che aveva tutto per diventare un’icona romantica e nostalgica. Dottore che da ragazzo gira il Sudamerica con mezzi di fortuna, poi una volta laureato molla tutto per andare a combattere le lotte di altri in Paesi di altri –senza mirare al potere, peraltro. A questo aggiungiamo il carisma, l’avvenenza fisica, un cervello che fumava (uno che leggeva i classici della letteratura nella Sierra Madre, tra uno scontro e l’altro), una favella lucida e brillante, un’ ostinazione che superava qualsiasi cosa (compresa l’asma), la fine tragica... insomma, gli ingredienti c’erano tutti. Forse la sua figura ha dettato inconsapevolmente la linea per il profilo dell’eroe moderno –una versione aggiornata di ciò che l’uomo ha sempre cercato, di cui ha sempre avuto bisogno, pur dicendoselo sempre di meno.
Una figura luminosa, rara, che per contrasto copriva anche tutti quegli angoli oscuri della Storia che inevitabilmente esistono. A 16 anni capii una cosa: c’è chi i 16 anni ce li ha una volta sola, e chi se li porta dietro da sempre. A quell’età è facile dire bene e male, bianco e nero, eroe o demone, e in fondo ci sta pure.
Dopo, no.
L’ironia è che fare la fine del santino non sarebbe piaciuto nemmeno al Che –che, come detto, era persona intelligente, e come tale sapeva prendersi anche poco sul serio. In fondo le definizioni servono a noi, che vogliamo ridurre tutto ad un’etichetta frettolosa per passare avanti. Eroi, folli, sognatori, dittatori... Erano uomini, nel bene e nel male.
Spesso nel male, che non riesce ad essere giustificato dal bene.
C’era una lezione preziosa per tutti noi, in ogni caso, in quei barbudos che entravano all’Avana prendendo a calci nel sedere gli yankee: la Storia non è mai una, e nemmeno le persone lo sono. Ho visto i social, ieri, affondare in questo concetto monoblocco. Ho visto tutti tornare ai propri 16 anni.
Il che è figo, se uno pensa alla giacca di velluto. Meno utile sotto altri aspetti, probabilmente.

Il Che è stato così sommerso di aggettivi, encomi, calunnie e definizioni, che sembrava non essere rimasto quasi niente per Fidel. A Cuba lo sapevano meglio di qualunque altro; per tutti gli altri, Fidel era quello che il potere, a differenza del Che, se l’era preso, e l’aveva usato come sappiamo. Era quello che aveva sognato una rivoluzione, e poi l’aveva tradita. Quello che mirava al paradiso, finendo per confonderlo con un altro tipo di inferno.
Per molti, era quello che era arrivato a rinnegare persino il Che –colpevole di essere personaggio troppo popolare, troppo amato dalla gente, identificato come la vera mente della rivoluzione appena conclusa.
Non essendo Saviano, non so cosa c’è di vero o falso in tutto questo –e nemmeno m’importa. Non ho difficoltà a definire dittatore Fidel, perchè ho evitato sempre di costruire santini, di credere che il mondo fosse quello dei miei 16 anni –per quanto affascinante e persino consolatorio. E un dittatore è un dittatore, non ci sono cazzi. Probabilmente la mia vita ha poco o nulla di rivoluzionario al momento, ma amo troppo la libertà –in forme più o meno astratte- per poter giustificare qualcuno che vuole sottrarla, impedirla. Svuotarla.
Quindi sì, alla notizia di Fidel ho avvertito la portata storica, il Nocevento, il comunismo e tutto il resto –ma non mi sono mai dimenticato di chi stavamo parlando.
In fondo fare la Storia vuol dire anche questo: gente che ti ama, altri che in un tweet riescono a buttare merda, e un giudizio che si dividerà in mille fino a perdere di ogni senso.

Quando avevo 16 anni, decisi di averli fino in fondo. Quando lessi quel libro sul Che, feci conto di non sapere come andasse a finire (e in fondo, ne sapevo così poco che era praticamente vero).
Così, quando arrivai allo sbarco della Granma, che portava gli esuli cubani sull’isola pronti a iniziare la rivoluzione, lo lessi come un racconto d’avventura, e pure bello tosto. Sapete già la storia: Fidel aveva organizzato una barca che poteva contenere 22 persone e in realtà ne portava 82. La barca era andata alla deriva, c’erano state tempeste, ma alla fine era arrivata a Cuba. Appena approdata, era stata immediatamente attaccata dall’esercito di Batista. Degli 82 passeggeri, si erano salvati solo in 12. Contro ogni probabilità, Fidel e il Che si trovavano tra quei 12, anche se feriti. Una dozzina di uomini, perlopiù feriti, con poche armi e nessun mezzo di sostentamento, e un esercito alle calcagna.
La Rivoluzione era cominciata così, con ogni sorta di imprevisto e incidente, con tutto contro e solo una flebilissima speranza a favore.
Probabilmente ogni tipo di rivoluzione comincia sempre in condizioni simili.
A 16 anni, inutile dirlo, andavo matto per queste storie. Quelle che non ci scommetteresti un soldo, imprese sostenute solo dai sogni e dagli ideali. Forse, ancora una volta, mi ci stavo identificando.
Fidel non mi stava particolarmente simpatico, ma capivo che solo un pazzo o un genio potevano concepire un’avventura così disperata e difficile, sperando di uscirne vincitore.
Quando, tre anni dopo quello sbarco, i barbudos entravano all’Avana a scacciare gli americani (per i quali nessuno aveva grande simpatia a 16 anni, e molti nemmeno dopo), era il trionfo contro ogni probabilità. Un’isoletta piazzata sotto il Grande Impero del Novecento diventava un’utopia. Qualcosa di imprevedibile, e altamente improbabile –se pensiamo alla longevità del governo di Castro, nonostante embarghi, attentati e falliti colpi di Stato. Se pensiamo agli americani, quelli sempre cazzuti potenti e arroganti dei film (e purtroppo non solo di quelli), la presenza di questa isoletta era uno schiaffo in faccia –e uno di quegli schiaffi che faceva godere buona parte del resto del mondo.
La Storia è stata anche questa.
Purtroppo, non è stata solo questa.
Nei miei 16 anni sognavo, e forse avrei dovuto chiudere quel libro lì, con l’ingresso all’Avana, il mondo che si stupiva per la prima volta dalla Rivoluzione d’Ottobre, il Che ancora vivo, e Fidel solo una testa dura che aveva portato avanti un piano a cui solo lui aveva creduto, e che adesso diventava reale.
Sarebbe stato bello.
Invece continuai a leggere, i miei 16 anni finirono e la giacca di velluto andò fuori moda.
Ma la conservo ancora.
Contro ogni probabilità.

Marco Zangari © 2016

martedì 22 novembre 2016

"Al culmine della disperazione" - E.M. Cioran


Guardatevi dagli esseri incapaci di vizi, poiche' non possono che annoiare con la loro insipida presenza. Di che cosa, infatti, potrebbero parlare se non di morale? E chi non ha superato la morale non ha saputo approfondire alcuna esperienza ne' trasfigurare i suoi crolli. Una grande esistenza inizia la' dove la morale finisce, perche' soltanto a partire da quel punto essa puo' rischiare tutto, tentare tutto.

Ho sempre avuto un debole per la filosofia, pur non capendoci niente. Mi hanno sempre avvicinato quei passi oscuri, complessi, che vanno avanti a lungo scavando pensieri come autopsie dettagliate, inventando un linguaggio nuovo, analizzando ciò che mai avrei pensato si potesse o dovesse analizzare. Mi piaceva quel loro modo di vedere affine ai pazzi, che vedono il mondo in una stanza –e provando in qualche modo a spiegarlo a tutti coloro che si trovano fuori da quella stanza.
Ancora di più, ho avuto un debole per uomini e donne che in quella stanzetta sembrano esserci nati, e credono di doverci morire. Gente rinchiusa in una caverna come quella descritta da Nietzsche, illuminata da una lampada da tavolo magari, e dal loro incessante pensare e ragionare su quello che c’è o ci potrebbe essere fuori –come dei santi che si fanno carico di tutto quello su cui non riflette (o non vuole riflettere) il resto dell’umanità. Più erano perduti e più mi piacevano, questi personaggi simili all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij.
E Cioran, a 22 anni, era indubbiamente un uomo del sottosuolo. Bloccato in una cittadina della Transilvania, imbevuto di letture e vessato da un’insonnia che non gli da’ tregua, Cioran non dimostra per niente la sua giovane età. Sembra anzi essersi spinto avanti, troppo avanti, quasi che avesse vissuto già tutta una vita in quella stanza e fosse pronto per l’inevitabile conclusione. Vaga per la città, va a prostitute e medita il suicidio. Insomma, il giovane Cioran fa la rockstar nel suo paesino rumeno, chiuso in se stesso e senza l’amore di una donna (chissà quanti sistemi filosofici sono stati generati dalla mancanza di una donna).
L’unica cosa che lo tiene su è la scrittura. Notte dopo notte, Cioran annota i suoi pensieri, le sue riflessioni. Scrivere gli permette di capire, di spiegare anche a chi si trova fuori da quella stanza, e soprattutto lo aiuta a non farsi saltare la testa.
Il risultato di quelle notti insonni è questo “Al culmine della disperazione” (Adelphi), che già dal titolo non sembra propriamente una lettura da fare sotto l’ombrellone.
E grazie al cielo per questo, tra l’altro.
Pagina dopo pagina, Cioran riflette sul mondo che lo circonda, sul rapporto tra la vita e la morte, tra gli uomini che sentono di più e quelli che sono felici perché riescono a dimenticare (o sono troppo stupidi per pensare). Torna spesso sul concetto di malattia, descritta come un’opportunità che può sovvertire completamente il normale sentire, aprendo ad intuizioni e riflessioni che l’uomo sempre sano incontra raramente. Si sente tutto il dolore dell’uomo del sottosuolo, la ferita che solo lui riesce a vedere, che rende tutto disperatemente chiaro e insopportabile. Come da titolo, il pensiero di Cioran non è esattamente ottimistico. Nonostante creda nelle grandi passioni, nel lirismo che solleva l’uomo, nel dolore che illumina e fa crescere, sa bene che la vita finisce con la morte, e già questo stesso concetto la svuota in partenza di ogni slancio (chiaramente sto semplificando al limite della denuncia da parte degli eredi di Cioran). Quello che ci ho visto io è quel senso di tutto o niente tipico dell’età in cui Cioran l’ha scritto, quando l’inesperienza e la mancanza di compromessi possono innalzare o far sprofondare con la stessa facilità –ed è una testimonianza preziosa anche per questo (lo stesso Cioran dirà in seguito che “Al culmine” conteneva già tutti i temi che avrebbe poi sviluppato nei decenni successivi). Sembra quasi che, al fianco al pessimismo annichilente, la mano che ha scritto questi appunti volesse credere, al di là di ogni logica e di ogni ragionamento, che possa esserci qualcos'altro.
E pur essendo decisamente lontani da un happy ending, verso la fine Cioran scrive:
La sola cosa che possa salvare l’uomo è l’amore. E se molti hanno finito per trasformare in banalità questa asserzione, è perché non hanno mai veramente amato. Aver voglia di piangere quando si pensa agli uomini, di amare tutto in un sentimento di suprema responsabilità, sentirsi invasi dalla melanconia al pensiero delle lacrime che ancora non si sono versate per gli uomini, ecco cosa significa salvarsi attraverso l’amore, la sola fonte di speranza.
“Al culmine della disperazione” fornisce interessanti spunti, in una prosa elaborata e interessante, lontana dal tradizionale (e noiosissimo) linguaggio filosofico. Da scoprire.

domenica 20 novembre 2016

Elefante


Non so se ci avete fatto caso, ma ogni volta che siamo a terra e qualcuno ci chiede come va –qualcuno a cui frega davvero, s’intende- rispondiamo sempre: così. C’è un implicito dietro quella singola parola, unita all’incertezza tra il voler dire e il lasciar perdere e parlare d’altro. E’ strano come riusciamo a definire tutto, ad avere una parola pronta per ogni situazione e stato d’animo, perfino un emoji che possa esprimere al volo o chiarificare il tono, ma quando si tratta di descrivere come ci sentiamo quando ci sentiamo di merda, l’unica soluzione a cui riusciamo a pensare è quella parolina vaga e terribile.
Così.
Non credo sia un caso. In tempi fintamente ottimistici, dove i social sono una passerella dove mostrare il nostro miglior profilo e perfino il dolore sembra solo una strategia di marketing per attirare attenzioni e like, è normale avere difficoltà quando si tratta di parlare del lato oscuro, di quella fetta di sentimenti grigi e spaventosi che assomigliano alla malattia, e come la malattia vengono evitati.
Per questo, quando ce lo chiede un estraneo, diciamo: tutto bene, grazie, anche se di bene non c’è proprio un cazzo.
Per questo, quando ce lo chiede un amico, ci troviamo spiazzati, con troppo da dire e nessuna parola per farlo, e preferiamo solo ammiccare, far intuire: così.
C’è un problema di comunicazione. Abbiamo velocizzato tutto, semplificato tutto, e il pericolo di banalizzare eventi gravi e lieti è reale. Abbiamo lasciato che immagini e frasi fatte parlassero per noi, senza renderci conto che, andando bene per tutti, alla fine non andavano bene per nessuno. Perchè distruggevano l’esperienza personale, intima, in nome di un qualunquismo in cui tutti potessero indentificarsi, creando un senso di finta appartenenza alla Tribù dei Cuori Infranti. Abbiamo aderito ad opinioni brillanti sul fatto del giorno, e ci siamo dimenticati di formarcene una nostra. Abbiamo mostrato ciò che andava mostrato, e non ciò che ci andava di mostrare. Abbiamo mischiato figli e lutti, partite di calcio e guerre, gattini e rivolte, senza un ordine, un codice, una minima priorità. Abbiamo chinato la testa, dimenticandoci di parlare.
Per questo, quando viene il nostro turno, sappiamo dire solo: così.

Ma chiaramente, non si tratta solo di un problema di social o comunicazione. Quando si tratta di parlare del proprio disagio, si tocca una zona pericolosa. E’ facile mostrare le nostre vittorie –un po’ meno le nostre ferite. Non credo sia solo questione di machismo, orgoglio o insicurezza.
Probabilmente, è fottutamente complicato dire che ci si sente persi.
Paradossale, perchè tutti, prima o poi, per poco o troppo a lungo, si sentono così. Come se non trovassero la loro parte scritta in questa grande recita, il ruolo che rivestono in questa tragicommedia. Tutti, prima o poi, si ritrovano con un bicchiere in mano, una notte troppo lunga davanti, e l’assoluta incertezza sul cosa fare della propria vita.
E’ una sensazione così comunque che sarei tentato di sovvertire l’ordine: sono pochissime le persone che sanno sempre, costantemente, cosa fare della loro vita. Tutti gli altri si pongono in uno spettro tra gli idioti (che queste domande non se le pongono mai, dormono bene la notte, sono terrorizzati solo dal lunedì mattina, e ogni venerdì sono felici senza sapere perchè) e le anime perse, quegli essere così sensibili e tormentati che hanno dubitato fin dal primo momento, e che non hanno smesso mai fino alla fine. Tutti gli altri si sono trovati, in vari momenti, tra questi due estremi –ora irragionevolmente felici, ora depressi da far schifo. E’ la vita, baby. Tutto questo saprebbe di scontato, se non fosse che, quando si tratta del nostro culo a stare male, di scontato non c’è proprio nulla.

Come ci si sente, quando ci sente “così”?
Come se le certezze quotidiane diventassero futili. Come se le nostre nozioni –su noi, sul mondo che ci circonda- assolutamente inutili. Come se ci rendessimo conto che stiamo combattendo una guerra esterna di cui non ci frega nulla ma che dobbiamo combattere lo stesso, anche a scapito della nostra, intima, che non ci molla mai. Come se nessuno ci capisse, ma noi dovessimo sempre capire gli altri. Come se tutto fosse troppo, e noi volessimo solo una tregua, un breve attimo di pace da questo turbinìo ora apatico ora frenetico.
Come se alzare bandiera bianca e mandare tutto e tutti affanculo fosse l’ipotesi più affascinante.
Ma poi, in qualche modo, decidiamo di tenere botta (o di “guantare”, come dice G.). Lasciamo da parte la bandiera bianca, buona ormai solo per pulirci il culo. Non sappiamo nemmeno perchè lo facciamo –per masochismo, per inerzia, per abitudine, per i valori in cui crediamo, per l’amore che dobbiamo a chi ci sta intorno, per l’amore che ci da chi ci sta intorno. Non molliamo in barba a calcoli e ragionamenti logici, a facili fughe, a facili morti. Restiamo lì, un po’ eroi e un po’ coglioni, a prenderci tutto quello che le nuvole hanno deciso di rovesciarci addosso.
Ed è bello quando, passata la guerra, possiamo guardarci indietro e dire che l’abbiamo passata, che non abbiamo mai mollato.
E’ bello, ma in certi momenti è dannatamente dura.

L’altro giorno pensavo ad un racconto di Raymond Carver, “Elefante”. E’ la storia di un uomo che prova a vivere in pace la vita non esaltante che gli è capitata. Ci prova ma non ci riesce, perchè arrivano lettere. Gli scrive la figlia, che sceglie un uomo sbagliato dietro l’altro e ha bisogno di un aiuto per mantenere i due figli. Gli scrive il fratello, che si imbarca in diversi progetti finanziari, tutti fallimentari, e ha bisogno di una mano prima che i creditori lo assalgano. Gli scrive la madre, che vive da sola e ogni tanto dà i soldi della propria pensione all’altro figlio (che li investe male), e per caso non avresti qualcosa da mandarmi? Mi sento tanto sola qui. Mi servirebbe una sveglia perchè la mia si è rotta, poi non ti disturberò più.
L’uomo continua a scrivere lettere e a mandare soldi. Quando li finisce, comincia a fare gli straordinari al lavoro. Non spende più niente per sè, manda tutto ai suoi famigliari –così bisognosi, così dipendenti da lui. Ogni volta che pensa di aver finito, di aver pagato tutti i conti, ecco che arriva una nuova lettera, un nuovo imprevisto, altri soldi da rinchiudere in una busta. A volte vorrebbe arrabbiarsi con tutti loro ma non può, perchè subito pensa a quello che stanno affrontando. Ognuno sta passando una guerra. Solo che lui sta pagando i conti per tutti loro. Letteralmente.
L’uomo lavora e lavora per poter pagare i debiti. Non gli resta nemmeno più tempo per dormire a sufficienza. Non gli resta il tempo per la sua, di guerra.
Poi una notte dorme e sogna. Nel sogno, è di nuovo bambino ed è sulle spalle di suo padre. Per quanto sia in una posizione pericolosa, sa che è al sicuro. Qualcun altro si sta occupando di lui, gli sta dicendo di stare tranquillo. Non ha niente da temere. Ci sono qua io. Non pensare più a niente.
In quel sogno, l’uomo è felice.
Così.


Marco Zangari © 2016

martedì 15 novembre 2016

"Sono il guardiano del faro" - Éric Faye


Telefono muto, buca delle lettere vuota, quanto al fax, da tempo non batteva ciglio. Il mondo dispiegava un cordone sanitario attorno a quelli che avevano avuto la forza di volere.

Nel mio consueto, annuale pomeriggio di follia (soprattutto finanziaria) alla Feltrinelli di via del Corso a Roma, investo sempre qualche sudato euro in nuove uscite e nuovi autori, ai quali arrivo per sentito dire, perché hanno copertine o titoli intriganti (sì, a volte sono anch’io un prodotto del becero marketing), o per ispirazione divina (se il libro è bello) o puro cazzeggio (se non lo è).
Nel caso di “Sono il guardiano del faro” di Eric Faye, ho deciso di investire nella casa editrice, la Racconti Edizioni, nata proprio quest’anno con l’intento di pubblicare… beh, di sicuro non saggistica! Ho apprezzato il tentativo di puntare su un mercato, quello appunto dei racconti, che sembra, per qualche ragione oscura, perennemente in crisi in Italia, nonostante vada più o meno a gonfie vele altrove –in America, ad esempio, dove la tradizione del racconto è solida e può vantare delle vere punte di diamante, dal buon vecchio Hemingway fino a sua maestà Raymond Carver.
Dal momento, quindi, che ho sempre apprezzato i racconti, che ne ho recensito delle raccolte anche qui, che amo moltissimo scriverne (e tra poco ci sarà una sorpresina a tal riguardo…), ho deciso dunque di avventurarmi in questo “Sono il guardiano del faro”.
Il libro, una raccolta di racconti cronologicamente sparpagliati nell’ultimo ventennio o giù di lì, parte molto bene. Lo stile di Faye è da subito pulito, scorrevole ma non semplicistico. Al contrario, le storie sono intricate, soprattutto inquietanti. Compaiono panorami vacui, indefiniti, tanto misteriosi quanto angoscianti. È inevitabile il pensiero a Buzzati, autore che (come già saprete) amo particolarmente, e che peraltro viene citato dallo stesso Faye in uno dei racconti, come una sorta di omaggio. Racconti come “Mentre viaggia il treno” e “Frontiere” non possono non far pensare a Buzzati, e li ho apprezzati proprio per questo motivo. Sebbene mi abbiano dato un senso di al confine tra deja-vù e citazione, mi sono piaciute quelle frasi secche, quello stile asciutto e un senso incombente di minaccia e solitudine dietro ogni paragrafo.
Mi è piaciuto meno il lungo racconto che dà il titolo al libro. “Sono il guardiano del faro”, che chiude la raccolta, sembra un po’ la summa degli altri racconti, e sicuramente la storia in cui Faye ha potuto sperimentare di più a livello stilistico –riprendendo però temi che già aveva toccato. Purtroppo, dopo un po’ ho risentito della fatica. Non ho mai avuto particolare interesse per i racconti troppo lunghi, perché ho sempre visto la forma-racconto come congeniale ad una brevità (e incisività) che il romanzo non può permettersi. Una storia lunga va bene solo se sostenuta da una trama adeguata e da personaggi interessanti. Qui ci si trova davanti ad un soliloquio che, per quanto interessante e carico di simbologie e significati e tutto il resto, alla lunga fa smarrire. Il che, probabilmente, era uno degli scopi dell’autore, ma in questa maniera si rischia anche di perdere il messaggio stesso della storia.
In definitiva, una raccolta elegante, curata e ben scritta, ma senza slanci particolari. Adatta ai fan puri e duri del racconto (e del racconto lungo).

lunedì 7 novembre 2016

"Lettere alle amiche" - Louis-Ferdinand Céline


Lei m’informa che raccontano delle cose su di me. Credevo m’avessero dimenticato. Io non vedo nessuno. Non leggo nulla. Non so. E non parlo. La mia vita è finita Lucie, il mio non è un esordio, è un epilogo nella letteratura, una cosa ben diversa –o piuttosto le mie vite, poiché insomma ne ho avute almeno tre o quattro ch’io sappia.

Céline era uno scrittore tosto, che di sicuro ha vissuto anche più delle “tre o quattro vite” che si attribuisce in queste lettere. C’è il Céline soldato, il Céline medico, il Céline romanziere. E poi quello che è stato più volte ricordato nel tempo, il Céline antisemita e controverso degli ultimi anni, che ha gettato un’ombra su una produzione letteraria con i controcoglioni, che come poche altre ha saputo illustrare tutti gli inghippi del Nocevento.
Tutti questi Céline si ritrovano nelle lettere che lo scrittore inviò a diverse amiche negli anni immediatamente successivi all’uscita di “Viaggio al termine della notte”, il suo capolavoro indiscusso. Céline, a quel tempo legato all’americana Elisabeth Craig (alla quale dedicò il “Voyage” e che quasi sposò, prima che lei decidesse di tornare negli States in pianta stabile), intrattenne una fitta corrispondenza con diverse altre donne –qualcuna come amica e confidente, altre come qualcosa in più. Al di là del puro pettegolezzo (che sarebbe irrispettoso in qualunque caso, specialmente nel caso di una personalità introversa e riservata come la sua), queste “Lettere alle amiche” (Adelphi) sono una lettura interessante per capire uno dei più grandi scrittori del secolo scorso, di cui tanto si è scritto –a torto o a ragione- e finalmente si dà la parola al diretto interessato. Le “Lettere”, infatti, coprendo gli anni che coprono l’avvento del nazismo e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, servono a cercare di capire quello che tantissimi studiosi di Céline si sono chiesti negli anni: perché mai lo scrittore decise di prendere una posizione politica così netta e controversa, che finì solo per danneggiarlo sotto ogni punto di vista?
La domanda, in realtà, non riceve una risposta precisa nemmeno in queste lettere, e anzi diventa ancora più spiazzante. In quasi nessuna di queste lettere, infatti, trapela questa virata antisemita dello scrittore. Perché mai una scelta così importante come questa, tale da scriverci sopra i libri che gli hanno poi causato l’esilio e l’arresto, non viene mai menzionata in queste lettere in cui, pure, Céline si metteva a nudo? Il tono è spesso scherzoso, altre serio e contrito, ma quasi mai si parla di politica –pure in un momento in cui la politica stava per diventare il suo enorme passo falso.
Céline si limita a lamentarsi delle conseguenze di quei libri, del bando, della povertà, dell’esilio, della censura, degli anni di carcere vissuti tra gli stenti.
La domanda, quindi, resta irrisolta e anzi assume toni ancora più tragici e incomprensibili quando si legge la corrispondenza con N., donna ebrea con cui lo scrittore aveva intrecciato una relazione durata anni –proprio quegli anni in cui Céline versava il suo inchiostro contro gli ebrei. L’ultima lettera a N., in risposta a quella in cui lei lo informava che il marito era appena morto in un campo di concentramento, lascia davvero sbigottiti, e da forse la misura di quanto Céline fosse confuso al limite della disumanità.
Le “Lettere” restano comunque una lettura interessante, che fanno approfondire la psicologia di un autore profondamente rivoluzionario e affascinante, senza però rispondere alle tante domande che restano sospese. Non ci sono giustificazioni, nemmeno postume, che tengano. Consiglio questa lettura a chi conosce (e apprezza) già Céline –e per tutti gli altri, correte ora, adesso, in questo secondo, a comprare una copia di “Viaggio al termine della notte”, e lasciatevi sedurre dalle parole –che quelle, a differenza degli uomini, non deludono mai.


Di Louis-Ferdinand Céline ho recensito:
-Viaggio al termine della notte (Corbaccio)







sabato 5 novembre 2016

Mi fai incazzare, Sydney, e mi sei mancata


Dopo 3 mesi passati fuori, non appena arrivo all’aeroporto, supero gli agenti terrificanti e gentili, trascino il mio bagaglio fino all’auto nell’alba accartocciata e mi infilo nel traffico insonnolito, penso subito: Sydney, mi sei mancata.

Mi è mancato il tuo traffico perfettamente incolonnato, giudiziosamente in attesa, quell’aria di santità che piomba su tutti noi in coda mentre radio show rumorosi esalano gag e rumori e canzoni che non dureranno fino alla meta, sentendoci santi al punto tale che puniremo mentalmente chiunque oserà trasgredire anche per sbaglio anche per un istante le Sacre Regole della Strada –che qui a Sydney, suonano come le Sacre Regole della Vita.
Mi è mancata la tua santità, Sydney, non appena varchi i cancelli e dimentichi i tuoi precedenti da pressappochista, da vabbè-che-sarà-mai, dal “lo fanno tutti, che sono io l’ultimo scemo?”. Mi è mancata la tua aria battesimale che tutti investe e tutti purifica, annullando i peccati del passato in nome dell’intransigenza del presente.
Mi sono mancati i tuoi autobus con le pubblicità cubitali che invitano a denunciare chiunque osi gettare una cicca per strada. Mi è mancato vedere il buonsenso, che altrove è andato a farsi benedire.
Mi è mancata, questa gabbia in cui abbiamo rinchiuso pensieri e comportamenti, in nome di un benessere che è prima di tutto mentale.
Mi è mancata, questa città che può passarla liscia a denunciare gli Orribili Gettatori di Cicche mentre si dimentica di facce e braccia a Nauru e Manus Island.
Mi è mancata la tua finta ingenuità, Sydney, con la quale ci hai sedotto tutti, con la quale continui a fregarci tutti.

Mi sei mancata. Mi sono mancate le tue facce rossastre, sorridenti, come se tutto andasse sempre bene.
Mi sono mancate le tue giornate che sembrano sempre a lieto fine, anche quando in tasca ti restano solo i soldi per la prossima birra.
Mi sono mancate le tue strade ariose, i tuoi parchi con la paletta dei colori posizionata al massimo, mi è mancato l’oceano che continua a fare sempre il suo lavoro, malgrado tutto.
Mi è mancato il tuo cielo, che a vederlo ogni volta è come se fosse la prima. Mi è mancato chiedermi se quel blu così intenso lo vedi solo tu o lo notano anche altri, e anche altri si domandano se c’è qualche senso dietro tutto quel bagliore.

Mi sei mancata, Sydney, coi tuoi caffè che fanno pessimi caffè, che fanno pagare carissimo i loro pessimi caffè, e ognuno siede al suo tavolo, perfettamente contento, perfettamente distante, ingoiando un pessimo dollaro alla volta dalla tazza, parlando di case che non si potranno mai permettere, di vacanze che una volta hanno fatto, di case ancora, di vacanze ancora –come se tutto quel che conta non fosse lì, in quel caffè. Non è mai nei caffè, o nei pub, o nei club, nemmeno in quelle bettole che servono alcol oltre l’orario consentito, quando il weekend è diventato ormai un umore fumoso, un occhio stanco e una pisciata impellente.
Mi sei mancata, Sydney, coi tuoi discorsi sempre gli stessi, con le tue case che scenderanno di prezzo mentre i figli diventano padri e tutto resta uguale. Mi sei mancata, con la tua attenzione sempre all’ombelico, a quello che succede dentro confini vastissimi e troppo stretti, mi è mancata la tua disattenzione costante a quel che succede intorno, alla politica che non sia solo gossip, alle emergenze sociali che diventano cartelloni della metropolitana ben studiati ben progettati ben fotografati con ottimi slogan che tutti vediamo per qualche secondo prima di salire in carrozza incontro ad una giornata esattamente identica a quella prima e a quella dopo.
Mi è mancato il tuo ripeterti che non hai storia per dimenticare che una ce l’hai, che probabilmente non sempre è stata piacevole –nemmeno in tempi recenti- ma saperlo forse servirebbe a qualcosa –a godersela, a capire, a buttare giù tutto. Mi è mancata la tua noncuranza mentre ti costruivano intorno orribili palazzoni uno dietro l’altro, ti appesantivano di casinò e grattacieli, e la sola cosa che ti interessava era la lista dei dieci locali migliori dove fare il brunch la domenica e le vacanze al mare e azzeccare il prossimo cavallo alla Coppa mentre ti ubriachi e al ritorno in treno ti addormenti senza più sognare.

Mi sei mancata, Sydney, con la tua aria da multiculturalismo, con le tue opportunità, con un sistema che sicuramente non è ancora per tutti, ma stiamo lavorando per voi. Mi è mancata la tua pietà e la tua ferocia, come braccia di uno stesso corpo che non sai mai se proteggerà o colpirà, se è lì per aiutare o per punire.
Mi è mancata la tua inflessibilità, mi sono mancate le tue uniformi così strette che non lasciano più nemmeno respirare, mi sono mancate le tue migliaia di regole procedure policies avvertenze restrizioni, mi sono mancati i tuoi consigli costanti su come dovrei vivere la mia vita in armonia, mi è mancata la tua impassibilità con cui vieti e tassi e punisci chi beve e poi costringi tutti seduti dentro un pub.
Mi è mancata, la tua assenza di interesse per queste leggere sfumature di contraddizione.

Mi sei mancata, Sydney, coi tuoi coprifuoco e i tuoi locali tutti uguali e la tua cultura sporadica e tutti a letto presto che domani si lavora.
Mi sei mancata, con la tua baia che tutti almeno una volta dovrebbero vedere per ridiventare bambini per qualche minuto.
Mi sei mancata, con le tue solitudini per chi arriva, per chi prova a starci, per chi è solo di passaggio e non capisce perchè non si riescano mai ad abbattere queste mura, a vedersi davvero senza doverlo progettare settimane prima.
Mi sei mancata, con la gentilezza della gente anche in mezzo al caos, con un sorriso che non si nega mai a nessuno, con quell’aria docile, marina, che sembra voler riconciliare tutte queste Sydney diverse tra loro.
Per tutto questo, per molto altro, mi fai incazzare, Sydney, e mi sei mancata da morire.
Sono tornato a casa.