giovedì 30 settembre 2010

IO QUI NON POTEVO VENIRCI CHE A PIEDI

Il portone si chiude alle mie spalle e m'incammino per il viottolo di ghiaia, che mi tiene a galla tra i due mari di prato verde che si stagliano ai lati. Raggiungo il cancello, che è ancora aperto. Due operai controllano la chiusura automatica. Li saluto e prendo a destra.
Sotto i miei piedi l'asfalto della Flaminia. Il cielo è blu e il sole dell'una finalmente non fa soffocare. Basta sbottonare la giacca, e si va che è una meraviglia. La strada è lunga, ma Dio o chi per lui mi ha concesso un giorno senza fretta, e il mio grazie è davvero sentito. Ho tutto il tempo di pensare. Di ripensare. Di assaporare.

Non è stato facile arrivare fin là. Era abbastanza lontano e abbastanza scomodo, coi mezzi. E poi era la prima volta che giravo quella zona. Una piccola avventura geografica nella grande avventura professionale. La ricerca del lavoro che porta a conoscere nuovi posti, nuove persone. Come il signore a cui ho chiesto informazioni e che dal nulla mi ha offerto un passaggio, visto che secondo lui la strada a piedi era lunga parecchio.
Ogni volta conquisto un pezzo di mondo in più.
Quello di oggi era periferico, in parte rurale. Segni particolari un cimitero, un golf club, e due o tre chilometri di strada statale consolare senza marciapiede. Erba verde, scorci di campagna autentica, tante lucertole imperattive e perfino qualche grillo. Uno spettacolo.

Ad un certo punto mi trovo davanti un cartello BUS - FERMATA SU RICHIESTA. Mi giro, da lì si vede almeno un kilometro di strada. Però c'è solo un torrente di macchine. Forse un paio di camion. Niente pullman. All'autostop non ci penso che per un secondo. Ho già avuto la mia dose di culo, e poi davvero non ho fretta. Me lo voglio godere, questo sole. Mi sistemo la tracolla, penso che potrei addirittura sfilarmi la giacca, arrotolarmi le maniche e abbronzarmi un po'. L'unico rimpianto gli occhiali da sole. Anzi no, la macchina fotografica. Ma la perfezione non esiste, per fortuna.

Persone che ti sorridono, persone che ti soccorrono. Persone che ti stringono la mano o che si propongono di darti un passaggio almeno a ritorno. Non appena esci di casa tutti i nemici spariscono, si dileguano. E poi metti che arrivi in un posto che ha qualcosa di paradisiaco. Una specie di casale rinascimentale, lucente e immerso nel verde. La strada è di ghiaia così bianca che sembra lavata a mano, sassolino per sassolino.
Una cosa incredibile. Una cosa che mi viene il pensiero sia finta.
Una ragazza coi capelli mossi mi dà il benvenuto. Rimane sorpresa, alla storia del passaggio. Io sono sorpreso quanto lei.
Dentro mi accomodo su una sedia rossa. Chi arriva in anticipo condanna se stesso all'attesa. È normale. Nel mentre, però, si rovescia dell'acqua da un contenitore. Finisce sul pavimento, tutta intorno alla stampante. La ragazza corre, prende il mocio e lo passa veloce avanti e indietro sul pavimento. Si affanna un po'.
Eccola là. Ecco la conferma che quel posto è umano, vulnerabile, reale.

Un cartello tondo cerchiato di rosso mi avvisa che non si devono oltrepassare i 50 km orari. Non c'è alcun pericolo. Io qui non potevo venirci che a piedi.
Io vado alla velocità di chi se la gode, anche se non dispongo di molto e cerco sempre qualcosa di più.
Ma lungo la strada, tra una lucertola e un fioraio ambulante, sotto un cielo stupendo, per un bel pezzo non cerco più niente.


lido alternativo

le facce sudate
uguali
le chiacchiere impalpabili
le pacche sulle spalle, anche tu qui,
che piacere, che fine hai fatto
ancora a studiare porco dio
a fare finta cioè, è estate come
fai a studiare, dove vai quest’anno,
io Barcellona io Marocco io
Amsterdam anche stavolta
c’eri alla manifestazione, no me la
sono persa, ero a quell’altra quella
del no al ponte del bavaglio della scuola
bastardi, dove andate al mare, ma
quella è la tua ragazza, piacere,
prendiamo un tavolo, questo gruppo
è forte, fanno musica particolare
un genere tutto loro, conosco il
cantante il chitarrista quello là
sei stato lì, no, vacci compare,
ci siamo ubriacati, eravamo fumati
non ti dico, ho esami a settembre
ma adesso vediamo, sei andato poi
su quel sito, ma quanto tempo
mi fa proprio piacere

faccio la fila
assieme a loro
e quando arrivo lì
il barman dice che il mio drink
non è molto estivo

lo prendo lo stesso e
mi muovo tra i genitori
noiosi di domani
sperando che finito il drink
sia di nuovo
inverno.
(Marco Zangari, 2010)

lunedì 27 settembre 2010

Bukowski -Hank, per gli amici.


Bukoswki. Ne vogliamo parlare?


In realtà l’ho già fatto altre volte, qui al Morgana. Sento però sempre le stesse cose, gli stessi luoghi comuni, e allora oggi mi va di (ri)parlare di lui, Henry Charles Bukowski –Hank, per gli amici.


Tanti l’hanno letto, ma ancora di più ne hanno sentito parlare, e spesso ne parlano anche, senza però saperne molto. Ho smesso di contare le volte in cui citavo il suo nome e la persona davanti a me faceva una faccia come a dire –ah, lui. Come a dire, ma davvero ne stiamo parlando. Come a dire, ma quella fase non doveva essere finita da un pezzo.


La cosa mi è accaduta così spesso che ho smesso di parlarne. Un po’ non mi andava di giustificarmi, un po’ mi sembrava che potessero avere ragione. Di Bukowski in fondo si dicono sempre le stesse cose: che era un vecchio porco, un alcolizzato, uno che ha avuto culo e basta, uno che non sapeva scrivere. Alcune di queste cose, effettivamente, sono vere. Bukowski ERA un vecchio porco alcolizzato (anche se con questa immagine ci giocava spesso, e con più ironia di molti altri). Ma davvero è solo questo? Abbiamo letto la stessa persona?


Bukowski è l’autore che, in assoluto, ho riletto di più negli anni. Penso di conoscere interi passi a memoria. Non era Calvino che diceva che un classico è un libro che hai voglia di rileggere non appena l’hai finito? Allora questo tizio, per me, aveva scritto una marea di classici. Così poco a poco ho smesso di vergognarmene, di pensare a lui come una macchietta, un personaggio che beve scopa e ci sollazza. Ebbene sì, Bukowski faceva queste cose e ne scriveva. Qual’è il problema? Voi non lo fate? Magari non ne parlate, ma allora la genialità di quest’uomo è stata (anche) questa: parlare di qualcosa di cui di solito non si parla. Non intendo il sesso o l’alcol in sè, ma tutto il resto: la disperazione di vivere, l’orrore quotidiano, l’incapacità di capire un sistema così stupido, la solitudine e la mancanza di solitudine, la tristezza e la risata che ti salva dal baratro. Bukowski fa sembrare il resto della letteratura moderna come ottocentesca, incentrata solo su re e regine. Leggete (ma stavolta davvero) Bukowski, e poi ditemi: chi altro ha descritto questa morte giornaliera meglio di lui? Chi ha parlato meglio di me, di voi, del vostro vicino di casa?


Ho sentito spesso dire, sì ma non sa scrivere. Cioè intendiamoci, mi dicevano, il tipo è divertente e tutto quello che vuoi, ma a scrivere così sono capaci tutti.


Davvero? Allora state sprecando un talento, belli miei. Quel tizio lì si è fatto i soldi, sapete? Perchè non vi lanciate? Tutti dicono di poter essere come lui, ma essere Bukowski 24 ore al giorno era una cosa non da tutti.


Ho già usato la parola “genialità” una volta, ma mi sa che ci siamo di nuovo. Hank è riuscito a far sembrare tutto semplice, a portata di mano. Questo vuol dire non saper scrivere? Perchè? Perchè una prosa, per diventare ARTE, deve essere ampollosa, lunga, trita, vecchia? Questa è rivoluzione, amici miei. Buk ha messo una bomba nel salotto letterario mentre quelli discutevano di amore e anima. Le parolacce, si dice. Oddio, non sia mai! Perchè voi non le dite mai, vero? In Buk il turpiloquio non è mai fine a sè stesso. È inserito in un contesto, parla di gente fatta di carne ossa e demoni. Direste a Van Gogh che usava troppo colore, che quelle pennellate erano VOLGARI?


Proprio a Vincent rimproveravano di essere troppo lineare, troppo piatto. Sembra che le emozioni devono avere sempre una cornice in oro, per poter brillare. Hank ha fatto vedere che le emozioni possono trovarsi anche nella stanza di un bordello, o nella testa di un vagabondo.


Vargas Llosa, un autore sudamericano, ha detto “non capisco come mai, ma leggi i grandi classici della letteratura, e tutto quello che ti resta alla fine è Bukowski”.


Aveva ragione. Perchè è vero che devi passare da tutta la trafila, se vuoi penetrare quel mondo, se vuoi vivere tutti i colori, da Dostoevskij ad Hemingway, da Salinger a Celinè a Miller –ma alla fine della giornata, ti ritrovi invariabilmente seduto ad uno sgabello di bar, con davanti una birra e accanto lui, Bukowski. E puoi star sicuro che quello è il momento migliore della giornata.


Per quanto mi riguarda, Buk mi ha insegnato TUTTO quello che so in questo campo. Era Carver con sentimento, Fante con piu’ follia. Se mi andra’ male con lo scrivere potro’ dire che mi e’ mancata la fortuna, il talento o la forza, ma non i buoni (o cattivi) maestri.


Leggetelo e fatelo leggere. Magari qualcuno non capirà, magari non gli piacerà. Io vi consiglio solo di non fermarvi alla copertina, ma di cominciare. Bastano poche righe. Il resto viene da sè.


Buona lettura.




Testi consigliati (in quest’ordine, ma anche no): Panino al prosciutto, Post office, Factotum, Donne, Storie di ordinaria follia, Taccuino di un vecchio sporcaccione, Urla dal balcone, Birra fagioli crackers e sigarette, Shakespeare non l’ha mai fatto, Niente canzoni d’amore, Poesie, Il capitano e’ fuori a pranzo, ed essenzialmente qualsiasi cosa con su scritto il nome Charles Bukowski. E fidatevi, cazzo.


sabato 25 settembre 2010

La volta che non cenai col presidente

Lei è uscita dal lavoro ed è venuta a casa mia per cambiarsi. Quando stai con i mezzi non devi mai trascurare l'aspetto logistico di ogni cosa.
Cinque minuti per salutarci, dieci per raccontarci brevemente la giornata e altri dieci per una doccia. Non insieme. Dieci minuti per uno.
Una cena alla scuola sperimentale di cinema. Non è il caso di fare figuracce di fronte ad attori e attrici.

Di fretta penso a come vestirmi. Il pantalone è meglio scuro, così ci piazzo la camicia a righe viola. In quest'altro modo sto bene, ma non voglio essere tutto nero. Però aspetta. Le attrici saranno in tiro, ma gli attori mica tanto. I ragazzi di solito puntano più sulla stravaganza. E poi è una scuola sperimentale, ci sarà pure un motivo se si chiama così.
E se mi mettessi la giacca sopra alla maglietta? Dovrei cambiare anche i pantaloni? Eh sì, a quel punto cambi tutto. Boh.
Sempre più veloce, mi ritrovo nei panni (solo metaforicamente) di una top model a pochi istanti dalla passerella. Cambio e ricambio i vestiti e gli addendi, senza cambiare mai il risultato. Non mi convince. Me lo dovevo comprare, qualcosa di decente per una serata fighetta!

"Ma in fondo non saranno mica tutti in tiro. Voglio dire, non è mica una serata di gala", le dico.
"Non lo so, credo di no. Non dovrebbe essere una serata importante".
"Allora è no per forza. Perché se fosse stata una serata di gala, una serata importante, roba da abito scuro, da giacca e cravatta, da smoking, da papillon, l'avresti sicuramente ricordato. Sarebbe stato scritto sull'invito, e invece non c'è scritto niente del genere".

Mezz'ora dopo, ancora frastornato per l'esperienza da modella, sono in strada con una giacca un po' casual sulla camicia bianca. A volte quando fai le cose di fretta tiri fuori qualche mirabile idea, altre volte solo stronzate. Mentre cammino verso la metro, penso che stasera il mio è un caso a metà.
Lei cammina al mio fianco, con l'highliner e il rossetto che la fanno più donna. Si muove incerta sui tacchi, si appoggia a me per salvarsi la pelle.

A Termini cambiamo, un fiume di persone ci trasporta sulla linea A. Sono le 19 e siamo già in ritardo. Ma in fondo attori e compagnia bella non sono mai puntuali: perché dovremmo esserlo noi?

Quanta polizia, a Cinecittà. Dev'esserci qualcos'altro, oltre alla nostra cena. Chissà, una premiazione forse. Procediamo sul marciapiede fino a quando ci fermano. C'è un gruppetto di persone vestite da serata, accalcate contro delle ringhiere provvisiorie.

"Non si può proseguire", ci dice un poliziotto.
Penso ma come, noi dobbiamo andare a una cena della scuola di cinema. Roba fichissima. Attori, attrici, registi. Cinema. BUFFET DELLA MADONNA, soprattutto. Du iu andestend?
"Ah, ma noi dobbiamo arrivare al numero 1524. Non si può passare"? gli dico.
Il poliziotto guarda gli inviti e poi va da una donna con tailleur nero e camicia bianca, a pochi metri da noi. Lei sì che è in tiro.
"Dovete passare per l'altro ingresso, poi da lì arrivate lo stesso".
"Perfetto. Grazie e buona serata".

All'altro ingresso ci sono più luci e più persone. Uno che sembra il capo della sicurezza urla a un suo ragazzo di dire al tipo nella Punto che non si può entrare con la macchina. Un uomo grosso, col pizzetto e una cartellina, nel trambusto generale ci viene incontro.
"Buonasera".
Gli diamo l'invito e lui ci chiede i nomi.
Prima lei.
"Mi spiace, ma non è sulla lista".
"Sì, ma ho l'invito. Sono stata invitata dal Senatore ROSSI".
"Purtroppo il suo nome non figura, vede? Avrebbe dovuto comunicarcelo. Avrebbe dovuto chiamare e avvisare che veniva. Se vuole però può chiamare il Senatore. Può usare il nostro telefono lì all'accoglienza".
"Ah be'...no, guardi, preferisco non disturbarlo".
"Capisco. Mi spiace signorina, ma sono misure volute dalla Presidenza della Repubblica".
"La presidenza della Repubblica?", faccio io.
"Eh sì. Sono intransigenti, giustamente".

E per fortuna che non era una serata importante.

Al ritorno, di nuovo cambio a Termini. Il fiume di prima si è esaurito, ma ora per colpa dei lavori siamo costretti a fare un lunghissimo giro di peppe. Tunnel e scale mobili, poi ancora tunnel e scale mobil. Poi i tornelli, e poi ancora tunnel e scale mobili. Ma che storia è questa? È una selezione naturale, solo gli individui più forti arriveranno alla linea B. Sembriamo tanti piccoli spermatozoi alle prese con la corsa per la vita. Noi comunque ce la facciamo, e saliamo a bordo.

Scendiamo a Colosseo. Siamo ben vestiti, siamo affamati ed eravamo usciti convinti di mangiare roba di un certo livello in una cornice di un certo livello. Al diavolo tutto e tutti, ci regaliamo una cena fuori, in centro.

Lei cammina al mio fianco col trucco da donna, e si regge a me. Ogni tanto mette il piede in fallo e il mio braccio la salva. Io la prendo in giro, la guardo negli occhi e sorrido. Lei metà donna e metà ragazza. Io metà eroe e metà saltimbanco.


domenica 19 settembre 2010

SUNTO

Vi è mai capitato di vivere un giorno in cui di colpo si riassuma tutta la vostra vita? Io al massimo ho vissuto dei "giorni molto intensi", ma il venerdì 17 del settembre 2010  ha decisamente superato ogni limite, andando oltre ogni aspettativa.
Ci sono dei giorni in cui ti svegli gagliardo e parti per spaccare il mondo, per prenderti con gli interessi tutto quello che di solito, per pigrizia, lasci in avanzo nel piatto della vita. In realtà quasi mai quei giorni vanno come dovevano andare. Colpa del caso, di imprevisti, delle mille difficoltà che oggi devi affrontare per fare persino le cose più stupide. Il certificato è stato stampato con un errore di battitura e quindi è invalidato, la consegna del pacco che aspettavi è slittata a chissà quando, mentre ti chini a raccogliere il fazzoletto a una signora in fila alla posta, quella ti supera e poi nega che il fazzoletto sia suo. E se perdi un autobus, solo Dio sa se sarai mai in grado di arrivare in orario.
Un bal casino.
Eppure ci sono dei giorni (pochissimi, in realtà) in cui vai oltre queste cose. sembra che nulla possa fermarti. Non è solo questione di fortuna o di forza di volontà. Le cose che volevi semplicemente ti accadono. A volte pare che nemmeno tu possa farci niente. Sembrano delle giornate già scritte, e te ne accorgi minuto dopo minuto. Senza mai crederci, però.

Alla segreteria la scelta più difficile ha preso vita nel modo più semplice. Un ritiro è una cosa semplicissima. La tua carriera si strappa, la segretaria timbra, e non vogliono nemmeno un cent delle tasse arretrate. Il mondo è arrivato a un punto che se vuoi vivere devi romperti il culo, mentre per farti morire ti viene incontro lui. È quasi tutto pagato. Dall'autobus posso leggere un cartellone che mi dice che potrei farmi un funerale con soli 790 euro. Mi viene da pensare che tra un cazzo e l'altro, considerando questa crisi infinita e la svalutazione dell'euro , mi converrebbe di gran lunga morire in questo istante. Oggi potrei permettermelo, domani chissà.

Sono incredibilmente sorpreso, i 150 euro più adeguamento si trasformano esattamente nell'ammontare che avevo stimato. Duecento. Quello che mi sorprende ancora di più, però, è che, al contrario del solito, questa volta la cifra si trasforma anche in lettere e approda su un assegno. Lo tocco, sembra essere vero.
C'è la scritta, c'è il numero, c'è la data e c'è la firma. Manca solo la mia. C'è giusto il tempo di fare un altro saluto a chi è rimasto nel cuore.Il capitano, il KING, poi è sempre al mio fianco. Eccolo lì che mi saluta e cammina col mio stesso passo verso un altro sorriso.

Due libri in cambio dei suoi occhi. Scuri, vivi. Più grandi, forse. Per niente arrabbiati, come ricordavo. Il suo sguardo vale più di mille sincere ammissioni di colpa, più di quasi un anno di attesa, più di infinite rincorse senza traguardo.Al di là della tosse, sta bene. I suoi occhi grandi dicono questo. Ed è questo quello che conta. Quindici minuti valgono più dei dieci mesi che ho atteso. Non ricordo neppure se mentre aspettavo ci credevo, in questi quindici minuti. Forse ci speravo soltanto, perché era il massimo che potevo fare. Ma ci ho sperato con tutto me stesso.

Giorno dopo giorno, sono lì a aggiungere e sottrarre, a tenere a mente il conto. Sudo, metto e tolgo, calcolo, prego la memoria di non tradirmi. Mi porto tutti i numeri sulle spalle, e davvero sono felice per ogni giorno che non crollo. La pigrizia la pago col sudore della fronte, la ponderazione di mesi con la sfrontata improvvisazione di giorni. Grandezze, misure. Sorrisi e lacrime, numeri in colonna. Poi, di colpo, un giorno mi ritrovo a guardare una riga prendere forma sotto di loro. Il totale si scrive da solo a inchiostro indelebile. Non si può evitare. Si fanno i riporti, e i conti si azzerano. Non c'è un limite, non puoi sforare. Ma è facile che manchi qualcosa. La riga separa, cancella il peso senza cancellare il passato. Sotto di lei un solo numero. Non si riparte da zero.

Dedico questo post a tutti quelli che lottano, che vivono con un block notes a quadretti e una penna, sempre pronti a tenere il conto senza perdere né una pagina né una riga.
Lo dedic a te, Giulia, che non hai paura di segnare, di mettere in conto. Che come tutti cerchi il totale, la quadratura, e che quando fai i conti li fai sul serio, lasciando a casa la matita.

Edo

giovedì 9 settembre 2010

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

Esco di corsa dalle viscere della terra. Gradini fatti a due a due su una scala mobile, e mi lancio verso l'alto a una velocità sorprendente. L'avesse avuta Orfeo, la scala mobile, avrebbe salvato Euridice in un attimo e i due avrebbero passato il tempo a fare l'amore sui prati e a coglionare quel vecchio di Ade.
Fiatone, quando riemergo su viale Regina Margherita. E non è solo per le quattro Golia Bianca mandate giù una dietro l'altra. Scarsa lucidità, effetto allucinogeno. Vedo passare di fila tre 61 e un 649. Sbuffo e penso alla somma, ma ecco che dietro l'ultimo mi strizza l'occhio il 490.

Villa Borghese è cupa, misteriosa. Così buia e vasta che mi sembra possa perdermi tra gli alberi e urlare a squarciagola senza che nessuno mi senta.
Al botteghino, mentre ritiro la busta con i biglietti riservati, donne col trucco pesante prendono le sembianze di streghe e uomini che corrono in canottiera  appaiono come fanti alla carica.

La locandina dice Shakespeare, e io mi domando quanto ne sappia a riguardo. Mi chiedo cosa ci faccia io lì, davanti a un teatro Elisabettiano.
William Shakespeare. Mi pare di sapere anche come si scriva. È un buon inizio. Poi mi vengono in mente titoli e frasi, più una manciata di ritratti che forse sono suoi o forse di qualche filosofo. Sono un po' in confusione, allora prendo l'agenda e scarabocchio qualcosa. Non è il buon William, il frutto del tratto della mia penna, ma ha comunque begli occhi. Cos'altro? Un film o qualcosa del genere: Shakespeare in love. Almeno lui.

Le luci calano e il palco s'illumina. Due giovani fuggono in un bosco. Luci e veli al vento mi trasportano nell'atmosfera del sogno. Quando me ne accorgo, ci sono già dentro. Sono tra quegli alberi, a seguire le loro parole. A giocare a nascondino, a spiare le stelle al di là delle fronde, al chiaro di luna. Poi la mente prende ad andare da sola. Si perde nei propri meandri, nei suoi sogni più in là. Nelle sue fughe, nei suoi inseguimenti, nelle sue parole compiute o rimaste a metà. È sogno o realtà? È l'uno, è l'altra, è prima l'uno e poi l'altra. Si rincorrono come gli innamorati sul palco, come il sole e la luna, come l'autunno e la primavera. Alzo gli occhi, e vedo ancora il cielo stellato. Il bosco sul palco non è altro che la stessa Villa Borhese, in cui mi sono smarrito. Riconosco i rumori, le luci. Forse quel campeggio che non ho più avuto. Vento tra le foglie. Aria.
Non riesco ad uscire, finalmente sono dentro di me. Roba che non posso descriverla, ma ho la pelle d'oca. Un brivido di paura, paura che quella libertà possa essere vera.

Le luci ripartono, e applausi scroscianti scacciano il vento di prima. Mi desto e mi unisco, alle luci e agli applausi. Riprendo a brillare, mi vesto di chiaro sul volto. Saluto e ringrazio. Offro le ultime Golia per non rischiare il suicidio. Ho la lingua che pare la pelliccia di un orso polare. Maledetta pubblicità.
I ragazzi seduti al mio fianco stanno insieme da 18 anni. Me lo dice lei. Io la guardo negli occhi e mi complimento. Lei, chissà poi perché, non mi crede.
Ultimi saluti, ultimi sorrisi e un paio di abbracci. Le Golia sono finite, per fortuna

Posso perdermi nella notte. A piedi, il sentiero è diventato d'asfalto e gli alberi sono adesso palazzi. Le stelle quasi non si vedono, ma luci arancioni filtrano ovunque.
Non ne sono mai uscito.
Continuate pure a chiamarlo teatro. Io lo chiamo magia.



domenica 5 settembre 2010

Olive grove, rotten fruit

I will never forget that place
Up on that hill
Amongst the olive grove

The place where sky meets sea
And the soil looks like dust
Where fruit has again begun to grow

I will never forget our walks
Discussions over sunset
The islands our only witnesses

I will never forget the times
When we made love
The abandoned church and its ghosts
Our spectators

I will never forget the smells
Of life renewed
And rotten fruit

Ritorno all'Opg

Sono salito in macchina alle otto, solo quattro ore dopo essere tornato a casa. Mi sono messo alla guida con ancora un retrogusto di Tennent’s in bocca, e una bottiglia d’acqua sul sedile passeggero. Gli occhi quasi mi si chiudevano, ma lo stesso non ho avuto difficoltà a ricordare la strada.
Erano due mesi che non mettevo piede nel manicomio criminale, quel castello pieno di crepe dal moderno nome di Opg, una sigla che ha un significato ma alla fine non vuol dire niente –esattamente come quel posto.
Ho pensato parecchio al ritorno. Sapevo sarebbe stato breve, per sbrigare alcune formalità, ma m’interessava vedere che reazione avrei avuto, che ricordi si sarebbero risvegliati. Se avrei visto, da qualche parte, il me stesso di un anno fa, lasciato al di qua di muri e celle.
Una volta lì davanti, ho provato una sola cosa: niente. Niente mentre parlavo con la guardia al block-house, niente mentre camminavo per i vialetti che conoscevo bene, niente mentre mi dirigevo verso quegli uffici dove le mattine diventavano notti presto. Non una sola, singola emozione. Tutto era familiare e detestabile, come se fossi stato lì il giorno prima.
All’inizio ho dato la colpa al doposbronza feroce che mi prosciugava labbra e parole, al sonno che mi incollava le palpebre.
Sono entrato in biblioteca, mi sono seduto in silenzio e ho lasciato che lo sguardo vagasse intorno. Come fosse acqua. Ho sospirato e sono andato verso gli uffici. No, non c’entrava il doposbronza, e nemmeno il sonno.

Ho sbrigato le mie cose, con la solita assurda difficoltà che si incontra in ogni minima virgola burocratica, in quel posto e in questo Paese. Alla fine però avevo tutto quello che mi serviva. Potevo rilassarmi. Parlare con qualcuno che mi conosceva, guardarmi intorno con l’aria di chi pensa, quante ne abbiamo passate qui. Invece, volevo solo andar via.

Sono uscito, sempre senza provare niente. Non mi sono mai guardato indietro. Avrei rischiato di vedere qualcuno di quelli rimasti dentro. Non negli uffici, intendo nelle celle sporche, nei corridoi senza luce. Non ne avevo visto nemmeno uno quella mattina. Forse era un caso, ma forse avevo fatto in modo che fosse così. Non avevo chiesto di loro. Non sapevo che fine avessero fatto quelli che conoscevo, come fossero quelli nuovi. Vorrei dire che l’ho fatto perchè non me ne importava. Chissà, magari è così. Magari ho accelerato il passo per lasciarmi tutto dietro, per lasciare loro alle violenze, all’abbandono, ai pianti la notte, alle domande senza risposta. Per mettere tutto da parte come se non fosse mai esistito, e andare avanti con la mia vita.
In fondo, in tanti sono passati di lì, e tutti hanno finito per andare via. Perchè io dovevo essere diverso? Il mio tempo era finito, il loro no. Ecco perchè io potevo salire in macchina, accendere la radio e sentirmi umano, e loro no.
Eppure avevo questa strana sensazione, ora che ero già in autostrada. Non capivo cosa fosse. Forse, quando passi un anno lì dentro, cominci a sentirti anche tu un po’ come quelli dietro le sbarre. Solo che tu non hai fatto niente per finirci, quindi stai espiando una colpa ingiusta, e non hai fatto niente per meritare la libertà, quindi ti stai godendo qualcosa di non tuo. Non c’è modo di uscirne bene, alla fine. Nessuno degli uffici mi aveva battuto sulle spalle e detto, hai fatto un buon lavoro figliolo. Ma non mi sarebbe servito comunque, anche se fosse stato vero.
Avevo questa sensazione, concretizzatasi dopo i caselli: lì dentro, alla fine, perdevano tutti. Chi stava di là dalle sbarre, e anche chi stava di qua. Avevo condiviso progetti e speranze con altri come me, di qua e di là, e cosa era rimasto di tutto quello? Chi era dentro restava dentro, gli altri se ne andavano per i fatti loro. L’inutilità di quella struttura era anche la nostra, il loro tempo rubato era anche il nostro. Avevo un foglio timbrato e firmato che confermava soltanto quell’ennesimo imbroglio.
E noi non pagati, noi che avevamo fatto il bagno nel dolore altrui ogni giorno, che cercavamo di ridere ogni volta che spuntava il sole, sapevamo un’unica cosa, alla fine di questo viaggio sempre troppo lungo: che essere coscienti dell’esistenza di un posto del genere, l’averlo toccato annusato sentito, non ci avrebbe più permesso di credere a nessun paradiso.

Ero quasi a casa. Vedevo il mare dalla strada. Settembre, nuvole cariche di pioggia, vento e desolazione. Ma era pur sempre mare, alla fine.
Misi la freccia. Per l’ultima volta.

giovedì 2 settembre 2010

QUESTIONE DI STILE

Questione di stile, quello stile che io non possiedo. Non ne ho uno definito, almeno. Uno che possa chiamare mio e che sia riconoscibile agli altri come mio marchio di fabbrica.
Non ce l'ho. Ed è un dato di fatto prima ancora che un vero problema.

Non ho un mio stile, non ho una mia peculiarità.
Non sono né carne né pesce, né abete né salice. Sceglierei a caso tra l'acqua, il vino, e la birra. Sceglierei a caso persino la mia famiglia.
Perché?
Forse sto ancora imparando a camminare, a scrivere, a vivere, e in tutti questi casi mi ci vorrà ancora molto. Forse è perché non ho una personalità decisa, perché l'unica costante del mio carattere è l'incostanza.
Ho l'impressione di poter essere tutto, ma non essere niente. Di essere la bandiera, che sventola a seconda del vento leggero, e nello stesso istante il palo, fissato nel terreno con convizione. Rincorro una vita serena, ma forse lo faccio solo per quanto mi è irraggiungibile, complicando la mia ancora di più. A volte temo che potrei soccorrere il diavolo, e poi prendermi gioco di Dio. In altri casi invece sarei il più brillante degli angeli.
Non ne sono fiero. Ma nemmeno il contrario.

Non ho visto nessun posto dove fermarmi. Alcuni erano seducenti, altri rinfrescanti. C'erano posti bellissimi e semplici, con panorami stupendi, posti dove respiravo la migliore aria del mondo. Li ho lasciati perché ho saputo di altri, così sporchi, infettati e intricati che erano parimenti imperdibili. Il mare per la montagna e poi ancora l'oceano. Nessun posto era mio, tutti lo erano in una parte piccolissima. Di fronte ai miei passi, di colpo di aprono strade a perdita d'occhio. A raggiera. Alcune vanno all'opposto di altre, e spesso non ho idea di che scegliere.
Roba che ci vorrebbe una vita accampati a riflettere. Eppure cammino.