domenica 30 marzo 2008

Un tipico sabato australiano

La sveglia suona alle 6 e 20 anche se è sabato –settimana lunga, giornata lunga. Esco che è ancora buio, alla fermata non c’è nessuno, sul bus solo qualche vecchia un po’ incerta sulla fermata a cui scendere. L’aria è fredda. Poco a poco, mentre puntiamo verso la zona nord di Sydney, l’oscurità si apre un po’ lasciando il posto al viola e sprazzi di un celeste accennato, mentre ragazzi in doposbronza salgono sul bus e nemmeno loro sanno a che fermata scendere.
Arrivo al lavoro alle 8. nemmeno il tempo di salutare, di fare una pisciata, che subito si comincia a scaricare casse. Come ho detto, giornata lunga, anche se si lavora solo fino a mezzogiorno. Almeno la paga è più alta. Peccato manchi il tempo di godersela.
Insomma siamo lì a trafficare quando Little Joe apre il nostro frigo personale e lancia un urlo.
«Che cazzo c’è?» gli fa Milton. Little Joe e Milton sono inglesi. Anche Keith è inglese.
«Birra» riesce solo a dire Little Joe, paralizzato di fronte alla fila di James Boags messe lì dio solo sa da chi. Poi, col fare più naturale del mondo, ne prende una, la stappa e ci si attacca a canna.
«Joe!» urla Tina, la nostra manager neozelandese. «Che fai?»
«Bevo» risponde Little Joe, e continua a tracannare. Sono solo le 8 e mezza di mattina. In più Little Joe la sera prima ha rivisto il fratello dopo mesi e mesi. cosa possono fare due fratelli inglesi che si reincontrano a Sydney dopo tanto tempo, e che stanno in un ostello proprio sopra un pub?
Indovinato.
«Se ti scopre Tyron, ti licenzia»
«Ne vuoi una anche tu?» gli dice Little Joe. Poi, per sfuggire ai suoi rompimenti di coglioni, si nasconde dietro una fila di casse, e si fa fuori la birra. Vado da lui.
«Molto rock» gli dico, indicando la birra.
«No, amico» risponde lui, «solo English Breakfast»
Intanto continuiamo a scaricare casse. Donne vecchie, con una tendenza a una peluria scura tra le labbra e il naso, ci dicono che, sì, ci spiace, ma abbiamo parcheggiato dietro il palazzo. Solo un paio di isolati che devi farti col tuo carrello che pesa 40, 50, 70 chili.
«No worries» dici tu, sfoggiando il più meraviglioso dei sorrisi, e pensando al momento in cui anche tu ti attaccherai alla tua birra fredda. Le vecchie ti raccontano la loro vita, se ti piace quel lavoro, da quanto tempo lo fai, se è un giorno molto busy. Tu sei schiacciato dal peso, ma rispondi lo stesso. in fondo sono gentili, anche se parcheggiano nel culo del demonio. Il cielo è molto azzurro, brillante, e per fortuna non fa così caldo.
Un altro paio di giri e anche Milton si fa una birra. Little Joe lo segue. Le bevono di nascosto, dietro le casse, e poi le infilano dietro i cartoni da riciclare appena arriva qualche cliente. Nelle pause fanno come sempre, cioè ruttano, scoreggiano e fanno finta di incularsi. Il frigo si vuota velocemente. Mi chiedo se resterà qualcosa anche per me, alla fine del turno.
Little Joe comincia a provarci con Tina. Tina è una di quelle donne che in qualsiasi parte del mondo potrebbe aspirare a un titolo di miss –anche solo nel suo quartiere. Qui in Australia, è roba normale. Non ci fanno troppo caso. Lei non se la tira, e sta al gioco.
«Bambina» gli fa Little Joe, barcollando tra le parole, «perché non resti qui per un’altra sera, invece di tornartenete in quella bloody Nuova Zelanda?»
Little Joe è 8 anni e 20 centimentri più piccolo di lei. Lei sorride.
«Sentiamo, perché dovrei restare?»
«Se vieni con me dietro quelle casse, te lo faccio vedere»
Scarichiamo, mangiamo in fretta tra un cliente e l’altro. Little Joe beve e beve, finchè non crolla. Lo troviamo addormentato dietro alcune casse. Milton e gli altri lo ricoprono con dei cartoni, poi lo fotografano.
Alla fine Little Joe si alza, mugolando. Dice che sta male. Va in bagno e ci resta un sacco di tempo. Quando esce va subito verso il frigo e si apre un’altra birra. Non sono nemmeno le 11.
Il sole adesso picchia, Milton e Little Joe sono strafatti, le casse sempre più pesanti. Una vecchia che aiuto con le casse mi dice, almeno fai esercizio. Sorrido, e la giornata è finita.
Mi stappo anche io quella famosa birra, mi siedo. Una meraviglia. Guardo l’Australia là fuori e mi godo una settimana rompiculo che è scivolata via. in quella entra Tyron, il capo. Va verso il frigo, lo apre.
«Dove sono le birre?» dice. Io sono accanto a lui, ne ho una in mano.
«Ok. Milton, vammi a prendere una cassa di birre, per favore, che festeggiamo»
Così finiamo nella sala riunioni, con davanti delle pizze e birre che girano veloci e vino bianco freddo. Manager o scimmie, qui adesso non conta un cazzo. mandiamo giù tanta più birra possibile, visto che è gratis. Sono occasioni rare. In pochissimo tempo siamo tutti sbronzi. Keith si avvicina a Tyron e gli dice, «Complimenti amico, il tuo ufficio è pieno di MILF (Mothers I Love Fucking)», e indica le altre manager. Il boss ride e si apre un’altra birra. Ingaggio una gara con gli inglesi, ma loro ormai sono andati. Progettano di rubare del vino. Milton chiama Tyron con un altro nome, se ne rende conto e comincia a urlare «I’M FUCKED, MAN!». Poi si calma e parliamo di calcio. Io sono così sbronzo che partecipo e abbraccio tutti e mangio pezzi di pizza e nessuno segue più la conversazione, gli inglesi si forzano a bere del vino ma non ce la fanno, io ne butto già uno monosorso, saluto tutti e vado verso la fermata del bus, due chilometri in salita, mentre la birra che ho rubato mi tintinna nello zaino.
La sera, ancora sull’onda alcolica, vado con la mia ragazza da una coppia che lei conosce, e che sembrano curiosi di conoscere anche me. Porto una bottiglia di vino. Ci vengono a prendere alla fermata. Cominciamo subito a parlare in macchina, e non ci sono silenzi né imbarazzi. Tutto fila naturale. Casa loro è un tipico appartamento australiano per studenti, quindi due piani, salone e cucina e poi anche il giardino con barbecue.
Il ragazzo di lei, Jarrod, mi si avvicina e mi dice «Marco, hai mai cucinato sul barbecue?»
Ammetto di no.
«Ok, questa è la volta buona», e così mi ritrovo con una spatola in una mano, una bottiglia di sidro alcolico nell’altra, e un mucchio di carne che sfrigola davanti a me. Butto giù un sorso, do una girata ai lamb chops e me la rido. Nel giardino si sta da dio, anche se è un buco. Con Jarrod cominciamo a parlare, ci chiediamo qualcosa delle nostre vite ma poi lasciamo perdere, non perché non c’interessi, ma sappiamo che quello che è stato è stato, punto. Qui siamo a Oz, e non conta più un cazzo. ci facciamo battute stupide e ridiamo, di quella risata che non ti muore dopo pochi secondi, senza forzature né niente. Lui e Sarah, la sua ragazza, sono a posto. Gentili ma completamente alla mano, tanto che mangiamo senza posate e ce ne sbattiamo. Simpatici ma senza sforzi. Brillanti, senza dover parlare di qualcosa in particolare. Non c’è l’urgenza di dire qualcosa, di colpire, di non annoiare. Stiamo bene semplicemente stando lì, in quella stanza, con una buona energia che gira piano nell’aria mentre i bicchieri vengono riempiti ancora e ancora, tutti facciamo battute, la mia Morgana ride tanto che le fa male la faccia, ci mettiamo ai videogiochi persino ma siamo troppo sballati e comunque non importa, stiamo bene perché stiamo bene, non ci sembra che quel tempo venga sprecato in alcun modo, anzi. Vado a pisciare un po’ del rosè e anche del bianco che mi hanno dato, e guardo fuori dalla finestra mentre sento le risate da sotto. Sveglio dalle 6, è quasi mezzanotte.
Nessuna voglia di andare a dormire.

martedì 25 marzo 2008

A un amico del Morgana

Tra le pasquette, l'odore di bruciato e le birre che vanno giu' come le pioggie dell'autunno australiano, un pensiero passa per i corridoi polverosi e le stanze ammuffite di questo albergo a ore, dove a volte si fa tanto casino per niente, e a volte non si trovano troppo le parole. In ogni caso si aspetta sempre il sole.
Domani sara' una delle giornate piu' lunghe per uno degli abitanti del Morgana, di quelli che anche se parlava poco, sapevamo che ci seguiva sempre nelle nostre chiacchiere sbronze, serie e semiserie. Una di quelle giornate che sembra non finire piu'. Una di quelle giornate che ti cambiano il panorama da un momento all'altro. Una di quelle giornate col fiato sospeso.
Non siamo tipi troppo seri, noi del Morgana, ma per domani anche noi ce ne staremo buoni a far passare i secondi, a sentirceli scivolare addosso, con tutta la birra accumulata in cantina per il dopo, per quando torneremo a cantare e a farci fare l'amore l'amore dalle infermiere. Domani ci guarderemo senza dire niente, e saremo li', Salvatore, aspettando il sole, come sempre.
Tu, non fare cazzate.
A dopodomani...

martedì 11 marzo 2008

I vostri 15 minuti per tutta la vita

Poche cose mi fanno paura come le foto sui giornali scandalistici. Guardo quelle facce vuote, coperte dal trucco, quegli occhi aridi, e mi chiedo: cosa vuol dire essere famosi?
E’ il principio della ripetitività, come sempre: ti fanno vedere una faccia più e più e più volte finchè ti resta in testa, senza una ragione precisa. La gente li riconosce, ma non sa dire perché. Alcuni sono famosi perché sono delle gran fiche, o perché sono stati dentro la casa del Grande Fratello, o perché hanno fatto un pompino a un presidente sotto il tavolo –e nemmeno bene, visto che i vestiti ci sono andati di mezzo.
Questo è, essere famosi. Vedere qualcosa più volte. C’è una chiazza di vomito sotto casa mia, lasciata dagli ubriachi del fine settimana. la vedo ogni mattina e ogni sera. Anche la chiazza di vomito è dunque famosa?
Se funziona così, allora, possono esserlo davvero tutti, famosi. Che poi lo si diventi o meno, è poco importa. io credo che sia importante crederci. Non illudersi, quello già lo si fa per tutto il resto. Sognare, forse è la parola giusta. Anzi, concedersi il LUSSO di sognare. Sentirsi una rockstar, un’artista, quello che cazzo volete, e vivere come tali. Pensate che già, molto probabilmente, alcuni –pochi, ma non importa- vi vedono già così. Senza arrivare alle frasette da diario, dico in tutta tranquillità che sono più interessato a quello che succede ad alcune persone che conosco rispetto ai matrimoni e i tradimenti delle facce che vedo sui giornali. E se succedesse qualcosa mai a queste persone, di tutti quei sorrisi coi denti bianchi e delle tette al silicone e quelle canzoni e quei film, non me ne fregherebbero un cazzo.
E così, vivete il vostro sogno. Siate la vostra cazzo di rockstar. Cazzo se ne frega se non lo diventerete mai. Non è importante. Non è importante nemmeno che sappiate cantare sotto la doccia. Trasformate la vostra inutile domenica in un doposbronza-dopoconcerto, con passi lenti e decisi, e quella sigaretta accesa con luminosa indifferenza. Infilate quegli occhiali da sole come se foste dio. Vedetevi in grande, sentitevi in grande. Non fatevi trascinare dallo squallore, dal becerume, dalle facce spente intorno.
La mattina, andando al lavoro, sul bus leggo Camus, Dostoevskij e Buzzati. Quando faccio la parte a piedi ascolto Mozart e Ludovico Van e Fabrizio e gli Who. So che quando arriverò lì e scatterà il tassametro sul mio culo passerò 8 ore tra inglesi beoni che scorreggiano ruttano e parlano di culi e tette. Quelle 8 ore se le prendono loro. Tutto il resto, però, è ancora mio. Finchè non varco quella soglia allora vivo in tutti i mondi in cui ancora non sono stato, viaggio e penso e a volte ne ho abbastanza a volte penso che ne voglio ancora e ancora e ancora.
Dio è morto, Marx è morto, e anche Jim e gli altri con lui –ma voi no, cazzo. Siate gli artisti che non diventerete mai. Immergete la testa in pensieri meravigliosi e completamente assurdi. Anche se non creerete niente, se il vostro nome non sarà sul giornale di domani, voi andate per la vostra strada. Mentre la musica vi gira nelle vene e vi dimenticate anche di scendere alla vostra fermata, sorridete e godetevela. Non c’era solo Jim e gli altri con lui. Con le facce che girano, non avrete nemmeno troppe difficoltà a immedesimarvi nella parte. Il pubblico è già lì. ricordate sempre le due grandi massime:
a) la gente è stupida;
b) voi fate parte della gente.
Buon concerto. Che il rock sia con voi, ora e sempre.

domenica 2 marzo 2008

La follia di Nietzsche




L’altro giorno stavo pensando a Nietzsche. Lo so che sembra strano pensare ad un filosofo dal cognome impossibile e dall’opera oscura così, dal niente, ma se avete letto fin qui, sapete già che al Morgana non circola gente tanto normale.
Comunque sia, pensavo al buon N. Mi è venuto in mente quell’episodio che raccontano sempre tutte le sue biografie, e lo fanno sempre quasi con un sorrisetto indulgente tra le righe. A 45 anni suonati, Nietzsche si trovava a Torino, per la precisione in una carrozza che lo portava da qualche parte a qualche altra parte. Per i filosofi questo avrà avuto un certo significato, si capisce. Per i vetturini, un po’ meno. Per il cavallo, meno ancora. Proprio il cavallo sembrava capirci meno di tutti, e non voleva andare quel giorno. Il vetturino allora ha cominciato a frustarlo, e a farlo ancora, finchè non è comparso il sangue. Allora il buon N. è tornato dai suoi pensieri filosofici, è sceso dalla carrozza e, piangendo, si è messo ad abbracciare il cavallo.
Tutti parlano di quest’episodio come dell’inizio della follia che ha poi portato Nietzsche alla tomba (anche se molti sussurrano che sia stata la sifilide a portarsi via il buon N., così poco pratico delle donne e così tanto amante dell’ironia e del paradosso). Io mi chiedo –follia, perché? Cosa c’era di così PAZZO in quello che ha fatto Federico? La gente l’ha chiamato matto, ma perché? Perché ha visto qualcuno debole, indifeso, trattato in quel modo, e si è sentito prendere di pena?
Il gesto potrà essere stato di quelli plateali, ma cosa c’è di SBAGLIATO in quello che lo ha spinto a farlo?
Il pazzo, nell’immaginario comune, quando non è qualcuno da prendere in giro, è sempre una figur pericolosa. Non è nemmeno una persona, come se fosse posseduto. Eppure Nietzsche non stava facendo male a nessuno. Tanta gente getta merda su merda su questa umanità ottusa, con la sola maschera del ruolo della divisa della missione del bene comune, e diventano eroi, ce li ritroviamo nei ritratti invecchiati, nei libri di storia, nei telegiornali col loro sorrisino malato, gli occhi spiritati, la testa che ronza atrocità oscure. E il pazzo era Nietzsche.
Come lui, tanti, naturalmente. Bastava che facessero qualcosa di diverso, che rompessero le righe, che non stessero in completo silenzio in metropolitana, che si vestissero in maniera stravagante alla cena del venerdì, per ritrovarsi bollati. A volte la stessa pazzia poteva essere vista come buona o cattiva, dipendeva dai punti di vista, o dal momento, o da chi decideva cosa. Van Gogh in vita era qualcuno da chiudere in un manicomio grigio e buttare via la chiave, ma dopo morto sappiamo che quella pazzia aiutava il suo estro creativo. Hitler era geniale finchè aveva sotto il suo piede mezzo mondo, mentre adesso a malapena è visto come un mentecatto che si scopava il cane lupo e faceva delle cose a 3 con Benito.
Basta chiederlo a Loro. Loro sanno tutto. Kurt Cobain era depresso. Bukowski era alcolizzato. Jim Morrison c’aveva gli indiani dentro. Baudelaire, solo troppo assenzio. Kerouac vedeva Buddah dappertutto. Kafka era un minorato mentale.
Parole, definizioni. Senza essere mai entrati in una clinica, senza aver mai visto un manuale, senza aver mai guardato da un vetro, Loro sanno tutto. Lo sanno, lo dicono alla gente, la gente ci crede.
Finisce così che semplicemente chi è diverso dal suo tempo, è pazzo. Genio o idiota, basta un gesto in più, una parola di troppo, e da lì non si scappa. Un tot di tristezza è accettata, ma non troppa. Troppa tristezza è antisociale. Togli quella musica deprimente. Tirati su. Sorridi, cazzo.
Ma non troppo.
Passeggiando, infatti, ho notato un’altra cosa. se vedi per strada qualcuno che piange, non ti sconvolgi più. Ormai ne vediamo così tanti nei tg, nei reality (che ormai sono la stessa cosa), da Maria DeFilippi, dappertutto, sui giornali, mercificati e venduti e ci vediamo dopo la pubblicità!, che ormai non ci badiamo più. Un povero barbone, una povera vecchia. Ci dispiace, ma con la coda del cervello. A questo mondo le cose brutte, si sa, capitano. Oggi a te, domani a me, magari. Così tiriamo dritto. Al massimo il tizio avrà avuto una brutta giornata.
Ma ridere? Quella è un’altra faccenda. Ridere è ASSOLUTAMENTE VIETATO. Non si può. Ridi da solo? Sei pazzo. Completamente, irrimediabilmente pazzo. Al massimo puoi sorridere, come se stai ricordando qualcosa di buffo, ma non per troppo tempo, però –bada bene che Loro stanno cronometrando. Non si vede mai nessuno ridere per strada. Uno che piange da solo, va ancora bene. è ben accetto. Lo compatisci. Uno che ride per strada da solo è pazzo. Non si scappa.
Non è contemplato che qualcuno sia felice a tal punto, o di buon umore, o qualsiasi motivo. O fai la loro stessa faccia, o sei matto da rinchiudere.
Provate. Provate a ridere in mezzo alla strada. Vi sentirete gli occhi addosso, e tutti diranno la stessa cosa –sei un/a fottuto/a di testa.
Occhio quindi a quello che fate. Loro vi osservano, vi giudicano, e sanno tutto. Non avete bisogno di psicologi, psichiatri, dottori, infermieri, portantini. Loro bastano e avanzano.
Attenti.
E la prossima volta che vedete un cavallo battuto a sangue per strada, lasciatelo lì e tirate dritto. Potete magari farvi scendere una lacrimuccia, ma una che sia una, mi raccomando. Non vorrete certo passare per pazzi, no?