domenica 22 febbraio 2015

Un bel tacer non fu mai detto: di Facebook, populismi e minchioni vari

É un po’ che non scrivo sul Morgana, a parte le recensioni. Le ultime volte sono venuto qui per fare dei bilanci, per cercare di capire io stesso dove mi trovavo. Oggi torno per cercare di capire dove ci troviamo un po’ tutti.
Oggi, in piena fase digestiva post-pranzo domenicale, decido di farmi del male, e invece di drogarmi vado su Facebook. Lì, in uno dei tanti gruppi dedicati ai ragazzi italiani qui in Australia, tal Pasquale pone il seguente dilemmo etico: la settimana scorsa ho scritto che giravo senza assicurazione e, in caso di incidente, l’avrei fatta e cambiato la data, e tutti mi hanno dato dell’imbroglione, del classico italiano furbetto, ma io ora ho scoperto che molti di quelli che mi davano del coglione probabilmente lavorano in nero, quindi ho ragione io.
Mi rendo conto che non è la cosa peggiore che si legge ultimamente sui social. Anch’io ho letto tante e tali di quelle nefandezze che mi hanno fatto bollire il sangue, e qualche volta ho partecipato anch’io alle discussioni. In fondo, un po’ di sano dibattito fa sempre bene, come il litigio fa bene alla coppia che poi scopa allegramente e non ci pensa più.
In questo post, però, e nei commenti che ne sono seguiti (che come sempre si sono polarizzati in estremamente favorevoli ed estremamente contrari), ci ho visto un po’ un riflesso di noi, di quello che siamo come popolo italiano, e anche di quello che siamo in generale adesso, nel 2015. Facebook è solo un (potentissimo) medium, che amplifica e dà voce a chi prima non ce l’aveva, e probabilmente era un bene che non l’avesse.
Da capirci: io non sono di quelli che ce l’ha con Facebook, lo uso sia personalmente che per lavoro, lo trovo utile dal momento che vivo lontano da casa, eccetera eccetera. Facebook è una tavola pronta, con i piatti decisi da qualcun altro, ma sta a noi poi sederci e mangiarli, se ci va. O magare cominciare a tirarceli addosso, versare il vino sulla tovaglia, macchiare di sugo ogni cosa.
Ci sono tante cose che non capisco dell’uso che facciamo di Facebook. Non capisco perchè la gente debba scriversi cose private in pubblico, o perchè debba scrivere status che sono insulti velati a qualcun altro che non è nominato (ma chiamarlo, no?). Non riesco a capacitarmi nemmeno dell’impatto che ha avuto sul nostro concetto di identità, su come influisce sulla formazione di essa, specie nei ragazzi più giovani. Siamo più preoccupati di venire bene nelle foto, di metterne una dove siamo fighi nel profilo, di far sapere a tutti dove mangiamo, dove andiamo in vacanza, cosa guardiamo, cosa ascoltiamo. Una volta ci incazzavamo col vicino che lasciava tv e stereo a palla: adesso, attraverso il monitor, dobbiamo sentire il rumore di tutti. E ci aggiungiamo anche il nostro, beninteso.
Ci sarebbe troppo da dire e scrivere su Facebook, su come ha (irrimediabilmente?) cambiato il modo che abbiamo di interagire, perfino di come intendiamo le nostre relazioni (chi ha rotto con qualcuno che era suo/a amico/a su Facebook, sa bene di cosa parlo). Ma il caso di oggi è quello di Pasquale, che in quattro parole fa vacillare la mia fiducia nel concetto della democrazia.
Andy Warhol parlava dei famosi 15 minuti di popolarità che spettavano ad ognuno; oggi, con Facebook, siamo tutti costantemente le star del nostro reality.
Non nasce dal niente, un’idea del genere. Decenni di tv e talk show, di pubblicità e reality, ci hanno convinto sempre più che eravamo speciali, che eravamo unici, che il mondo aspettava solo di scoprire noi, di sentire quello che avevamo da dire. Sarebbe successo, era solo questione di tempo. Ogni volta che sullo schermo scimmiottavano la vita vera, ci sentivamo bene perchè credevamo che parlassero di noi. I reality degli ultimi 15 anni ci hanno convinto, definitivamente, che per diventare famosi non era importante saper fare qualcosa, o conoscere qualcosa. Magari era meglio avere una bella presenza, ma nemmeno quella contava troppo. Lavoravi un po’ sul “personaggio” (che frase terribile) e il gioco era fatto. Oscuri minchioni finivano sulle copertine delle riviste, o in tv intervistati da brillanti minchioni, e questo ci ha fatto convinvere che, se c’è l’ha fatta lui/lei, allora può farcela chiunque!
Facebook è nato in mezzo a tutto questo e, come detto prima, in quanto medium, era essenzialmente neutro. Siamo stati noi che ce ne siamo appropriati e, in un gioco di feedback circolare, lo abbiamo portato alle estreme conseguenze. Il pubblico televisivo si è trasformato in amici e followers, e davanti a questo nuovo audience ogni giorno ci esibiamo come delle celebrità navigate. Se una volta c’era il bar sotto casa, o il pub, o il campo di calcetto come luoghi dove potessimo esercitare le nostre capacità sottovalutate di leader politici, strateghi, economisti, allenatori di nazionali e grandi acchiapponi, adesso non dobbiamo nemmeno uscire di casa. Basta accendere il computer, scrivere la propria cazzata (possibilmente in CAPS LOCK) e rendere tutto il mondo partecipe dei nostri fini ragionamenti in materia di immigrazione, religione, censura, riforme, politica locale e così via. Per capire fino a che punto la minchiata è minchiata, basterà aspettare qualche secondo per vedere gli inevitabili commenti di approvazione (qui il CAPS LOCK dipende dall’età di chi scrive). Insieme ai complimenti fatti a questi piccoli geni della folla (complimenti che non faranno che rinforzare la segreta convinzione di avere un talento sprecato e una testa che fuma da quanto pensa), arriverà anche l’immancabile voce contraria, che verrà presto tempestata di insulti e ululati (sempre personali, mai sulla questione di cui si sta discutendo) finchè il tutto non finisce in una caciara di 90 commenti dove si comincia a parlare delle ultime tendenze nel campo degli spritz e si finisce col difendere Mussolini che in fondo ha prosciugato paludi e reso le nostre città più sicure.
In mezzo a tutto questo, c’è per caso qualcuno che si sorprende ancora per il seguito entusiasta che hanno un Salvini o un Adinolfi?
E tutto questo, ovviamente, tralasciando completamente la questione del COME queste meravigliose perle di saggezza vengono enunciate. Lasciando stare generazioni cresciute in tempi lontani, e che si approcciano come possono alla tecnologia, sinceramente non credevo che così tanti giovani (e un po’ meno giovani) sconoscessero la lingua italiana fino a questo punto. E non è solo questione di abbreviativi e sigle fastidiose, ma è proprio una mancanza delle basi. Una volta sospettavamo il fallimento della scuola in tal senso: oggi Facebook ce lo conferma. Diventare un nazi grammar in quei casi è fin troppo facile e pure troppo odioso, specie per piccole distrazioni. Ma ho letto delle cose per le quali le mie pupille chiedono ancora vendetta. Un paio di volte non ce l’ho fatta e ho dovuto suggerire al tizio di inserire un paio di virgole, anche a caso, tanto l’effetto non sarebbe potuto peggiorare in ogni caso. Piccola parentesi paradossale: nei gruppi di italiani all’estero si fa un gran vociare e schiamazzare sui Veri Italiani, su quelli che restano attaccati alla Madre Patria (uno ha scritto davvero così, giuro) e che si rifiutano di riconoscere alcunchè a quei burini ignoranti che li ospitano nel loro Paese. Poi leggi i post di questi Veri Italiani e ti accorgi che magari ameranno tante cose della loro Madre Patria, ma tra queste SICURAMENTE non rientra la lingua.
Un mio amico mi scriveva ieri, chiedendosi perchè la gente si ostina a scrivere sui social network palesando la propria ignoranza. Gli ho risposto che il punto (e il problema) è che, per loro, quella non è ignoranza. Il dubbio non li sfiora nemmeno, e non si parla solo di grammatica (per quanto, per un ragazzo oggi, sia sempre meno giustificabile una carenza del genere). Un altro amico diceva che Facebook ha aperto le gabbie, e tutti sono ora liberi di sbraitare e imbrattare. Ognuno è diventato tuttologo, esperto in qualunque materia e, per qualche motivo, si sente non solo in diritto, ma addirittura quasi FORZATO a dire la propria sul fatto del giorno. Alcuni precisano all’inizio: mi sento di dover dire la mia su *inserire tema del giorno a caso*. Vorresti chiedergli: ma perchè, in nome di Dio, PERCHE’?
Perchè su Facebook vale ancora di più l’adagio secondo il quale un bel tacer non fu mai detto. A forza di vedere minchioni di qualunque risma esprimersi su omicidi eccellenti e manovre politiche, anche loro sentono di poter essere opinionisti. Chiaramente non si informano prima, al massimo leggono i titoli delle notizie commentate, o, peggio ancora, trovano link oscuri, legati a siti tipo laceppadigeppetto.it, che usano titoli palesamente falsi (o quantomeno non verificati) per attirare i gonzi –e loro, in quanto gonzi, ci cascano con tutte le scarpe. Tutto, pur di convalidare le loro teorie (folli, ristrette, miopi) sul mondo. Che si parli di Charlie Hebdo o dei tifosi olandesi a Roma o di Jobs Act, loro hanno pronti i loro status pieni di luoghi comuni, benaltrismo, banalità, moralismo da due soldi e feroce populismo.
Perchè allora proprio Pasquale? Perchè il suo post e non mille altri? Ho amici che si fanno un fegato così dopo 5 minuti su Fb, che magari al post di Pasquale non avrebbero alzato un ciglio. Io lo ritengo importante per due motivi.
Uno: perchè ci fa capire che avevamo una grande possibilità, e la stiamo sprecando. Una piattaforma come Facebook poteva essere usata per informarci di più, per aprire gli occhi sul mondo, capire cosa pensa uno che vive dall’altra parte del mondo, confrontarci, perfino aggirare i media tradizionali e poco affidabili e provare a fare informazione del basso. Potevamo usarla per abbattere stereotipi e razzismi, per darci davvero una mano, per far circolare informazioni e dare aiuto. Potevamo utilizzarlo per far ripartire l’arte da una nuova prospettiva, non più schiacciata da marketing e costi. Potevamo usarla per crescere.
L’abbiamo usata per l’esatto opposto.
Due: perchè fa capire che ormai scriviamo senza più pensare, quindi senza più dare PESO ALLE PAROLE. E invece le parole ce l’hanno un peso, e neanche da poco. Non è una questiona sintattica, ma concettuale: rifletto su una cosa prima di comunicarla al mondo intero. I pensieri estemporanei vanno bene, come dicevamo prima, al bar sotto casa o con gli amici del calcetto, ma se scrivo su un gruppo, rivolgendomi anche a potenziali sconosciuti, dovrei pensare bene sia sul come impostare e articolare il mio pensiero, sia sulla sua stessa opportunità. Mica uno deve fare una tesi ogni volta che vuole scrivere una cazzata su Facebook: ma pensarci prima, quello sì. Non è questione di censura, puoi scrivere qualunque boiata, ma se tutti cominciamo a scrivere la prima cosa che ci passa per la mente, vuol dire che abbassiamo il livello sempre più. Riflettere prima vuol dire anche prendersi la responsabilità di quello che scriviamo, e prendere coscienza delle nostre mancanze. Se non so una cosa, mi informo, la studio, e solo DOPO dico la mia. Noioso, vero? Eppure forse può permetterci di crescere, di imparare, e di non usare questo social come orinatoio.

Vabbè, ho detto la mia fessata della domenica. Spero domani di non essere messo sotto da un Pasquale senza assicurazione. E sapete qual è la cosa più ironica?
Che probabilmente avete letto questo post perchè l’avete visto su Facebook.
Vado a controllarmi le notifiche.
Pace e amore,
Zango


P.S. non dimenticate di seguirci anche sulla Yellow House!

domenica 15 febbraio 2015

"Madre notte", Kurt Vonnegut

Io avevo sperato di essere soltanto ridicolo, ma viviamo in un mondo in cui essere ridicoli non e' facile; ci sono troppi esseri umani che non vogliono ridere, che non riescono a pensare; vogliono soltanto credere, arrabbiarsi, odiare. Troppa gente aveva voluto credere in me.
Dite quel che volete del sublime miracolo di una fede senza dubbi, ma io continuero' a ritenerla una cosa assolutamente spaventosa e vile.


Passare da un libro come “Il grande Gatsby” in cui si fatica a finire quelle poche pagine, ad un altro (tra l’altro più lungo di 50 pagine) che ho divorato in due pomeriggi, è tonificante come una bella risata alla fine di una giornata cupa e confusa, e reinstaura un po’ di fiducia nella letteratura. Tenetevi i vostri mostri sacri, io mi faccio una birra.
E si ride davvero nel libro di Kurt Vonnegut, “Madre Notte” (Feltrinelli editore), ma sono risate amarissime, come spesso nella sua produzione. Di lui avevo già letto quello che è definito il suo capolavoro, “Mattatoio n.5”, e l’avevo apprezzato al punto da scrivere una delle prime recensione del Morgana (la trovate qui).
Adesso ho questo “Madre notte” tra le mani, e vi dico subito che è un gran bel cazzo di libro, da comprare subito e leggere al volo.
Il libro narra la storia di Howard W. Campbell, che all’inizio della storia si trova in carcere in Israele perchè ritenuto una spia nazista. In attesa del processo, Campbell lavora alle sue memorie, andando avanti e indietro nei propri ricordi. Parla della sua attività da commediografo stipendiato da Goebbels nella Germania bellica, e anche della sua vita da auto-recluso in un appartamentino squallido di New York.
Vonnegut torna col suo stile inconfondibile, pieno di ironia e così-va-la-vita, per raccontare una storia spinosa, difficile, dove nessuno è quel che sembra. Lo stesso Vonnegut, all’inizio del libro, dice che la morale di questa storia è che noi siamo quel che facciamo finta di essere, quindi dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere.
Da un lato, quindi, abbiamo una storia che riguarda il rapporto con la propria identità (vera o inventata), le scelte che facciamo e le (talvolta estreme) conseguenze alle quali ci portano. Leggendo, viene spontaneo chiedersi: cos’avrei fatto io, nei panni di Howard Campbell?
Dall’altro lato, Vonnegut torna sul tema della guerra che ha già trattato altrove e che ha vissuto in prima persona (si trovava a Dresda durante il famoso bombardamento del 1945), e lo fa col suo tono leggero, quasi da commedia, che però risulta doppiamente spietato, e non risparmia nessuno. In “Madre notte”, Vonnegut ne ha per tutti: per i tedeschi e per gli americani, per chi ha sete di vendetta, per chi non riesce ad ammettere l’orrore nel quale ha fatto cadere il mondo, per i movimenti neonazisti, per i revisionisti, per chi lo adula e per chi lo disprezza, per i vincitori e per i vinti. In uno dei passaggi del libro, Howard Campbell riporta una sua poesia in tedesco, nella quale immagina la Storia come un compressore che passa per strada e mette sotto tutti, specie quelli che sembrano giacere per strada inerti, aspettando il loro destino. Vonnegut non condanna direttamente, ma porta all’estremo e ridicolizza tutti gli attori di questa tragica farsa, come quando il protagonista incontra in cella Eichmann, l’ideatore di Auschwitz, che gli si mostra benevolo, pacifico, quasi illuminato, che archivia banalmente il suo coinvolgimento nell’Olocausto dicendo che lui non c’entrava niente, e comincia a tempestare Campbell di domande perchè vuole diventare scrittore.
Nessuno è chi sembra all’inizio, in questa storia, e nessuno è innocente. In uno dei passaggi, Campbell si infuria contro un ufficiale americano che gli dà spietatamente la caccia da anni: Ci sono centinaia di motivi buoni per combattere, ma neanche uno per odiare senza riserve, e per credere che Dio onnipotente sia d’accordo con noi. Dov’è il male? É quella parte di ogni uomo che vuole odiare a tutti i costi, che vuole odiare e anche avere Dio dalla sua. É quella parte di ogni uomo che trova tanto attraente qualsiasi genere di brutalità. É la parte di ogni imbecille che vuole punire, avvilire, e gode a fare la guerra.
L’unico antidoto a tanto odio è, per Howard Campbell, l’amore –quello che ha perso, quello che sembra ritrovare- e che può salvare da quell’insensatezza fatta di eroi, targhe, barricate, nemici e lapidi. Il messaggio di “Madre notte” è che nessuno vince in una guerra, assolutamente nessuno, e tutti abbiamo da perdere ciò che abbiamo di più caro. Il compressore della Storia passa per tutti. É anche un invito ad uno sguardo critico sulla Storia, a non dividere tra buoni e cattivi, a non smettere mai di pensare. In questo, è anche un incredibile inno alla pace.
É un libro terribilmente attuale, che non smette di avere un valore universale, anche adesso che sembriamo aver capito tutto.
Concludo con le parole, semplici e ironiche, della prefazione di Vonnegut al libro:
C’è un’altra morale, evidente, in fondo a questo racconto, ora che ci penso: quando sei morto, sei morto.
E ancora un’altra me ne viene in mente adesso: fai all’amore quando puoi. Ti fa bene.


Consigliato a:
chiunque; chi ama una scrittura leggera, ironica, che tratta di temi seri; gli appassionati di storia, sia minuscola che maiuscola.

giovedì 5 febbraio 2015

"Il grande Gatsby", Francis Scott Fitzgerald

Gatsby credeva nella luce verde, nel futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia davanti a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa – domani saremo più veloci, stenderemo le braccia più in là.


Sapevo che sarebbe arrivato, in queste recensioni che mi auto-infliggo (e infliggo un po’ anche a voi), il momento del libro che non mi è proprio andato giù, e senza volerlo fare apposta, è capitato con uno dei più famosi e amati di sempre.
Ci avevo già provato in passato a leggere “Il grande Gatsby” (Gingko Edizioni). In tanti mi avevano fatto una testa così, dicendo quanto era bello e quanto mi sarebbe piaciuto. Non avevo mai letto niente di Fitzgerald, così, una volta arrivato in Australia, decisi di provare a leggerlo in lingua originale. In fondo erano solo 150 paginette, che problema poteva dare?
Non riuscii ad andare oltre la terza pagina. Pensai che il mio inglese non era ancora abbastanza buono (nonostante già leggessi altri libri in quella lingua) e lasciai perdere.
Ci riprovai due anni fa con il film. Vado al cinema due o tre volte l’anno, e decisi di concedere a Fitzgerald questo enorme onore (passando anche sopra la presenza di Di Caprio). Attirato dall’offerta coca ghiacciata più popcorn giganti a 7 dollari, dimenticai il semplice fatto che libro e film non sono mai la stessa cosa. Per la prima volta in vita mia, mi addormentai al cinema.

Con queste premesse, vi chiederete per quale assurdo motivo abbia mai deciso di provare nuovamente a leggerlo.
Un po’ perchè sono cocciuto, un po’ perchè non ho smesso di incontrare gente che mi diceva quanto era bello e importante quel libro. Tanto, mi sono detto, c’è da imparare da tutti i libri, anche da quelli brutti (sarei tentato di dire: soprattutto).
Così ci ho riprovato, stavolta in italiano, e ho capito che almeno il mio inglese non era ridotto così male: semplicemente, Fitgerald utilizza un linguaggio così ricercato, ricco, denso, che è difficile uscirne vivi anche nella propria madrelingua.
Mi trovo abbastanza d’accordo con la recensione famosa fatta da Mencken (scopritore, tra l’altro, di John Fante), e cioè che la trama del libro è molto semplice, quasi elementare: una storia d’amore rimandata, nascosta per tanti anni, che torna alla luce solo per andare incontro alla tragedia. Di sicuro, mi sono detto, questo libro non poteva essere così bello & così importante per l’intreccio.
I personaggi, allora: c’è un narratore, Nick, con il quale sfido chiunque ad identificarsi. Tutti gli altri sono caricature un po’ pompate (come fatto notare anche da Mencken), stereotipate, dal riccone sportivo arrogante alla timida fanciulla indecisa che non sa per chi palpita il proprio cuore, fino a Gatsby, l’anima di tutta la storia come si desume dal titolo. Gatsby incarna quella nuova classe di pre-yuppie di inizio secolo di cui Gatsby intende parlare, nati poveri ma disposti a tutto, anche all’illecito, pur di salire velocemente la scala sociale. Qui Gatsby ci viene presentato come un tipico self-made man, uno che ce l’ha fatta, che è venuto dal nulla e che adesso ha tutto, pur non avendo niente (sentimentalmente parlando). Indubbiamente, Gatsby è il personaggio più riuscito del libro, e quello che fa procedere la storia verso il suo (inevitabile) finale, e Fitgerald riesce ad umanizzarlo quanto basta per strapparlo a forza dallo sfondo fatto di feste, eccessi e vacuità, e presentarcelo come un uomo infelice che non possiede l’unica cosa che vorrebbe veramente. Tutti gli altri personaggi mi hanno, di volta in volta, suscitato noia o rabbia da frustazione (“fa qualcosa, per l’amore del cielo!”).
Forse questo libro sarà bello & importante per il suo contenuto storico (come capitava in Fitzgerlad), per come affronta gli enormi cambiamenti culturali, sociali, economici dell’America del suo tempo. E sicuramente il suo libro ha fatto un po’ da apripista, gettando luce su un nuovo mondo che stava nascendo. A volte si trasforma un po’ in qualcosa del tipo “anche i ricchi piangono”, nonostante lui sia bravo a non calcare troppo la mano. Resta il fatto che un tema simile è stato trattato in maniera infinitamente superiore (seppure in un contesto e in un’epoca molto diversi) da Hemingway in Avere e non avere.
La prosa, allora, dev’essere quella per cui se ne parla così tanto. E la prosa, effettivamente, è notevole. Come notava ancora Mencken, non esiste una pagina uguale all’altra nel “Grande Gatsby”. C’è una ricerca, un lavoro sulla parola, che sfiorano il maniacale. Non c’è paragrafo che non si faccia carico di un pugno di metafore delicate e sublimi. Sembra di entrare in una di quelle chiese barocche, così piene di decorazioni e rilievi e minuscoli dettagli da farti girare la testa. Laddove però Mencken elogiava questa prosa, a me non è piaciuta granchè. O meglio: riconosco lo sforzo, e mi rendo bene conto che qui Fitgerald ha creato una di quelle cose che a vederla la gente fa Oooh, mirabile davvero. Però io nelle chiese, barocche o meno, dopo un po’ mi sento sempre un po’ a disagio e ho bisogno di uscire per prendere un po’ d’aria. Esattamente la sensazione che ho avuto alla fine di questo libro. Facevo fatica a proseguire, perchè era come se tutto il tempo l’autore mi tirasse per la manica a dirmi, Hai visto quanto sono bravo?
Forse non è una coincidenza che, molte delle persone che mi hanno fatto una testa così per questo libro, l’avessero letto quando erano molto giovani. Effettivamente è quel tipo di scrittura che ti cattura subito all’amo, se sei giovane e inesperto, e con una tendenza particolare al bello. A 35 anni forse diventi più pragmatico: il bello va bene per antipasto, ma mica ci riempiremo lo stomaco con questo?
Sono sicuro che questa recensione troverà molti in disaccordo. Nessun problema: se volete trovare me, invece, cercatemi fuori, che sono uscito a prendere un po’ d’aria.

Consigliato a:
chi ha voglia di un classico breve; chi ha ancora l’età e il tempo per libri graziosi; chi vuole sapere chi cavolo era questo Gatsby senza doversi sorbire due ore di Di Caprio e hip hop