martedì 31 agosto 2010

Ritorno alla Civiltà

Ritorno alla civiltà e porto con me uno zaino colmo di
emozioni, sorrisi, lacrime, fuochi, stelle, alberi e volti amici.
Gioia e tristezza si fondono.
E' sempre difficile lasciare un “Piccolo angolo di Paradiso”
che ci appartiene, in cui ti senti protetto,
dove puoi ricevere l'abbraccio anche di una persona che conosci da pochi giorni.
Difficile comprendere per chi non è dentro,
per chi crede che tutti quelli con un fazzoletto al collo
siano solo “Stupidi Bambini” un po' troppo cresciuti.
Io spero solo di potermi ancora commuovere di fronte a questo Spettacolo
e di riportare a casa un bagaglio sempre più pesante.

mercoledì 25 agosto 2010

LAVORO?

Non è un appello. Se fosse un appello, la risposta sarebbe "ASSENTE".

Stai lì a spulciare siti, a sfogliare giornali e riviste. Quella poca esperienza che hai fatto vale poco o niente, se non hai fortuna. Le conoscenze, quelle hai dato per buono che non ce l'hai. E in fondo è meglio, così non hai il dilemma morale di usarle, in caso di bisogno.
Resisti, per fortuna gli occhi si affaticano lentamente. E poi l'importante è che non crolli lo spirito. Quello è l'unico, che ti tiene in piedi.
Cosa vuoi, in fondo, tu dalla vita? Vuoi un lavoro onesto che ti dia da vivere. Niente di più. Del resto con l'ambizione ci hai già fatto i conti da tempo. Una vita garantita al minimo è per te il massimo, nella remota e costosa speranza della lotteria. Non sai quanti ci stanno sguazzando felici. Bastardi. Ma tu non hai tempo né forze per una vendetta. Ti accontenti di una vita tranquilla, il che significa che sei prosciugato sino all'ultima goccia. E anche su questo, non sai quanti ci sguazzano.
Aspetti, e intanto ti barcameni tra numerosi progetti. Prima, invece, avevi solo dei sogni.
Hai fiducia, però. Sei sicuro che ce la farai, che la pazienza premierà il tuo talento. Sei sicuro, perché in fondo è giusto e probabile. Ma poi diventa "non improbabile", e poi...
Lo temi. Hai paura che possa anche non andare così. Cosa farai? Non ne hai la più pallida idea. Magari ti ammazzi, o forse ti inventi qualcosa. Però datti una mossa, fallo prima che sia troppo tardi. Potresti essere uno di quelli che LAVORO non lo trovano nemmeno su wikipedia.
Certo, hai gli amici. Ma ti daranno da vivere? E con che faccia glielo chiederai? Con la tua, sfigurata dall'umiliazione. Una faccia che forse manterrà un aspetto decente, ma che non riuscirai più a guardare allo specchio. La notte sognerai di averne un'altra, di faccia.

Lavoro? Futuro? Felicità? Famiglia?
Non è un appello. Se lo fosse, le risposte potrebbero essere "ASSENTE".

sabato 21 agosto 2010

Chissà cos'altro succederà

Quando hai solo alcuni momenti per fare qualcosa, non è detto che quei momenti siano giusti. Però devi farteli bastare, o almeno non starti a lamentare se scegli di lasciarli andare.
Le nuvole vanno e vengono. Se vogliono far piovere, devono anche darsi una mossa.Anche perché prima o poi arriva il vento e le caccia via.

È uno strano purgatorio, quello in cui mi trovo come risultato delle mie scelte e dell'incasinarsi continuo della vita. Non saprei chiamarlo diversamente, il periodo che sto passando. Però so cheè arrivato alla fine. Domani si chiude.
"Levare le tende", è un termineche suona un po' come una beffa per chi sognava di piantarla e levarla sul serio, una tenda. Sarà per un'altra volta. Questa non doveva piovere per forza. L'importante è aver avuto tempo per me, di aver fatto almeno un centesimo delle tante - troppe - cose che avevo in mente. Non è sempre possibile agire a comando, per fortuna.
Quando per la prima volta ho incontrato di nuovo le parole, ci siamo guardati con sospetto. Ero ancora io? Erano ancora loro? Non ci fidavamo, non ci piacevamo come l'ultima volta. Perciò all'inizio ci siamo evitati, siamo rimasti lontani. Ma poi i giorni sono cominciati a passare, e allora non potevamo più aspettare. Ci siamo forzati, ci siamo parlati. Ci siamo insultati e ce le siamo date di santa ragione. Poi ci siamo riabbracciati. Chissà cos'altro succederà.

Tra qualche giorno tornerò ad avere internet fisso a portata di mano. Oggi però è ancora un'occasione unica, quindi non voglio sprecarla.
Tanto più che ci sono date su cui sono in ritardo.

Cara ragazza, ti faccio i miei migliori e più sinceri auguri. Magari non te ne frega un cazzo e magari ti farò solo rodere il culo, ma forse ogni tanto questo blog lo spizzi, e forse non ti dispiacerà troppo. Continua a scrivere, mi raccomando, che hai la fortuna di saperlo fare. Eburneati di parole sui fogli, sul blog (ancora complimenti) e persino sulle mattonelle della cucina. Dacci dentro come sai. Io faccio il tifo per te.

A tutti gli altri, tanti, a presto.
Ho da ripartire, da ridere, da giocare a calcetto, da bere, da chiedere scusa. Non appena la mia nuvola arriva sopra la vostra testa, lo farò. Nel frattempo soffio più forte che posso verso di voi. Magari arrivo anche prima.

lunedì 9 agosto 2010

Hank e John




Ieri mi stavo riprendendo da un massiccio doposbronza post-compleanno e mi sono trovato a leggere questa bellissima storia.
Hank è un ragazzo che beve, non ha un lavoro, nessuno scopo nella vita a parte scrivere. Passa le giornate alla biblioteca pubblica insieme agli altri barboni, a leggere per non badare alla fame. Lì, fra pagine e pagine che non gli dicono niente, gli capita tra le mani un libro di cui non aveva mai sentito parlare, di un autore completamente sconosciuto. Il libro si chiamava “Chiedi alla polvere”, lo scrittore John Fante. Quel libro, per il giovane Hank, fu come “trovare l’oro nella discarica”. Qualcosa che (parole sue) ti aiuta ad arrivare sano e salvo fino a sera.

Più di 30 anni –e molte sbronze- dopo, Hank è diventato Charles Bukowski, scrittore abbastanza conosciuto in America e amato visceralmente in Europa. Trovandosi a parlare con il suo editore, questi gli chiede chi è mai questo Fante che Buk ogni tanto cita nei suoi libri. È forse un nome che ti sei inventato tu?
No no, risponde Buk, è tutto vero. Vai a controllare nella biblioteca pubblica di L.A., se non mi credi.
L’editore controlla, scova “Chiedi alla polvere” e gli piace così tanto che decide di ripubblicarlo insieme ai vecchi libri di Fante.

John non aveva avuto molta fortuna con la scrittura. Il suo “Chiedi alla polvere” aveva venduto poco più di 600 copie. Così gli era sembrato un enorme colpo di fortuna essere assunto da una major di Hollywood come sceneggiatore. Aveva cominciato comprando macchine, nuove mazze da golf, una villa, e aveva finito per restarsene in un ufficio a bere e a vedere quello che scriveva fatto a pezzi da perfetti imbecilli. Aveva messo da parte la scrittura per 30 anni, e ora questa affiorava per pungerlo e riempirlo di amarezza. Non bastava, a John, la villa che aveva comprato con quei soldi che aveva guadagnato vendendo il culo, perchè ora non poteva più godersela. Si era beccato il diabete, per ironia la stessa malattia di cui era morto il padre che odiava e di cui aveva scritto così tanto.

Quando l’editore aveva contattato John, lui era già cieco e gli erano state amputate buona parte delle gambe. Entrava e usciva dall’ospedale. Il mondo non sapeva chi fosse, i film a cui aveva partecipato era scomparsi nell’ombra e lui se ne restava lì, con la moglie ad accudirlo.
L’intervento di Bukowski cambiò tutto. I libri vennero ripubblicati ed ebbero un grande successo. I critici si chiesero come avevano fatto ad ignorare qualcosa del genere per 30 anni (i critici arrivano sempre un pochino dopo, anche se piace loro pensare di esserci arrivati molto prima degli altri). Questo diede un nuovo motivo alle giornate tutte uguali di John. La gente lo stava scoprendo, seppure in clamoroso ritardo. le cose stavano tornando al loro posto. Stava addirittura dettando un nuovo romanzo alla moglie, dal suo letto d’ospedale.
Adesso era il momento dei ringraziamenti.

Hank era molto nervoso all’idea di incontrare John. Sapeva che gli doveva tantissimo, che il suo stile era lo stesso di John, e sapeva che, in quelle giornate affamate di 30 anni prima, John Fante era stato il suo dio.
L’incontro fu molto disteso. Hank, nonostante l’aria da duro, si scioglieva in queste occasioni. John, nonostante la malattia, era sempre rimasto un figlio di puttana combattivo. Dopo i convenevoli Hank attaccò a dire come lo stile di John fosse stato per lui l’ispirazione più grande, come, per quanto provasse, non sarebbe mai riuscito lontanamente ad eguagliarlo. Poco ci mancava che gli chiedesse un autografo prima di un accesso isterico.
John sorrise. Non vedeva Hank in faccia, ma la sua voce gli piaceva. Disse alla moglie di dare vino, tanto vino a Hank. Sapeva con chi aveva a che fare. John era un uomo che aveva sbagliato vita, che si era sputtanato per poi ritrovarsi in mano rimpianti e conti da pagare, che aveva messo da parte la cosa che sapeva fare meglio, e quella che più gli dava un senso.
E adesso era lì, con uno dei più grandi scrittori del tempo che gli diceva come lui gli avesse cambiato la vita. Forse a John venne in mente che non tutto era stato perso.
Fu allora che prese la mano della ragazza di Hank e gli sussurrò, prenditi cura di lui, ne ha bisogno.
Non ci furono lacrime. John si fece un paio di bicchieri insieme a Hank, parlando di quello che era stato, di Los Angeles, di scrittori, di posti dove andare a bere. Hank chiese a John che fine avesse fatto la Camilla del libro. Era davvero scomparsa nel deserto?
Macchè. Era lesbica, alla fine, aveva ridacchiato John.
Poi John dovette andare a letto. Da lì ad una settimana gli avrebbero amputato un altra porzione di gambe. La mattina dopo però si sarebbe svegliato e avrebbe continuato a dettare a sua moglie “Sogni di Bunker Hill”, uno dei suoi libri più divertenti.
John era un uomo molto coraggioso.
Hank salutò e andò via con la sua ragazza. In macchina non parlarono. Hank aprì una bottiglia di vino e cominciò a sorseggiare, piano. Pensava.

John Fante morì qualche tempo dopo. Gli avevano amputato completamente le gambe, e per pagare le amputazioni aveva dovuto vendere la stessa casa che aveva comprato facendo un lavoro che non voleva. Così va la vita.
Hank andò al funerale. Gli avevano chiesto di tenere un discorso, ma disse che sarebbe scoppiato a piangere –lui, il duro Chinaski. Così il discorso lo fece qualcun altro. Lui tornò a casa e scrisse la storia che vi ho appena raccontato. L’aveva intitolata “Incontro il Maestro”. Il racconto finiva così: “Avevo incontrato il mio idolo. Capita a pochissimi”.
E’ proprio vero.

venerdì 6 agosto 2010

Un'idea di letteratura

"... Daremo fondo alla nostra epoca. Dopo di noi non più libri, almeno per una generazione. (...) Ci metteremo dentro quanto basta per dare agli scrittori di domani trame, drammi, poesie, miti, scienze. Il mondo si potrà nutrire del nostro libro per mille anni a venire. E' un'opera colossalmente pretenziosa. Solo a pensarci quasi ci annienta.
Per cento anni e più il mondo, il nostro mondo è stato in agonia. E non un uomo, in questi ultimi cento anni, è stato abbastanza pazzo per mettere una bomba nel buco del culo del creato e di farlo saltare per aria. Il mondo marcisce, muore poco a poco. Ma ci vuole il coup de grace, ci vuole, per farlo andare in pezzi. Nessuno di noi è intatto, eppure abbiamo in noi tutti i continenti e i mari che stanno tra i continenti e gli uccelli dell'aria. Noi dobbiamo sopprimerla, l'evoluzione di questo mondo che è morto ma che non è ancora stato sepolto. Noi nuotiamo alla superficie del tempo e ogni altra cosa è annegata, sta annegando, annegherà. Sarà un fatto enorme, il libro. Vi saranno oceani di spazio in cui muoversi, deambulare, cantare, ballare, arrampicarsi, nuotare, far salti mortali, gemere, violentare, assassinare. Una cattedrale, una cattedrale vera e propria, alla cui edificazione contribuiranno tutti quelli che han perduto la propria identità. Ci saranno messe per i poveri morti, preghiere, confessioni, inni, lamenti funebri e chiacchiere, una specie di criminale sventataggine; ci saranno rosoni e gronde scolpite e accoliti e altri a reggere il cordone del carro funebre. Si potrà entrare coi cavalli al galoppo per le navate. Si potrà battere la testa contro i muri: non cedono. Pregare nella lingua preferitaq, accovacciarsi sugli scalini e dormire. Durerà mille anni almeno questa cattedrale, e non ci saranno repliche perchè i costruttori saranno morti e la formula anche. Faremo stampare cartoline, organizzeremo giri turistici. Costruiremo una città intorno alla cattedrale, creeremo una libera comunità.
Non occorre il genio: il genio è morto. Ci occorrono mani forti, spiriti disposti a piantarla con i fantasmi e a mettere su carne..."

Henry Miller, "Tropico del Cancro", 1935

mercoledì 4 agosto 2010

Isola



Durante i miei giorni sull’Isola ho scritto alcune poesie, e poi ho pensato una cosa: che in fondo non si smette mai di scrivere poesie. La poesia è meno eterea di quel che sembra. Vive dentro di te, o meglio, tu vivi attraverso la poesia. Pensandoci bene, non esiste altro modo di vivere.
Non ho mai smesso, e forse le uniche volte che mi sono fermato è stato proprio quando mi sono avvicinato alla forma-poesia, sapete, parole in fila, in versi, in paragrafi, quella struttura che per quanto vivace e moderna è sempre troppo poco per contenere tutta l’immensa vita, tutto quel mondo lontando dal mondo, tutta quella follia quella risata quel sesso all’aperto che una poesia di solito contiene. Ho scritto poesie proprio quando non ne stavo scrivendo nessuna. E continuo a pensare che sono le mie migliori.

Sull’Isola ho pensato che, in passato, ho scritto poesie per diversi motivi: per mettere su carta le parole che mi giravano dentro, per conquistare le ragazze, per darmi un tono, perchè mi andava, perchè una poesia era quello che mi veniva in mente in quel momento e nient’altro, perchè sarebbe stato carino quando qualcuno ti chiedeva che stavi facendo e tu dicevi stavo scrivendo una poesia e quello di solito faceva oh, perchè l’immagine romantica del poeta decadente-senza soldi-innamorato non corrisposto-sensibile e solitario ti ha sempre attirato, perchè scrivere poesie ti rendeva diverso da quella massa fuori dalla porta, perchè scrivere poesie ti aiutava a capire quello che ti stava succedendo, perchè cercavi quel giro di parole da guardare e dire eh però. Negli anni ho accumulato poesie tristi, allegre, eccitate, rabbiose, poesie che camminavano e sussurravano ed altre che correvano e urlavano.
Posso vantarmi di non aver mai scritto poesie d’amore, ma quella è una cosa mia.
Poi le poesie mi hanno abbandonato, o io ho abbandonato loro, non ricordo. Mi venivano a trovare all’alba, vestite di tutto punto fino all’ultimo verso, o al contrario nude, con vagine dal pelo folto e con in mano una parola, un concetto, un’immagine. Mi gridavano nelle orecchie nelle notti insonni, tra le lenzuola stropicciate, ma quando aprivo gli occhi, come uno scherzo che non si stancavano di farmi, non c’erano più.
L’altro giorno ne ho scritte un paio. Non mi sono sforzato, non ho assunto pose, non ho pensato a chi avrebbe letto. Non stavo cercando di salvarmi o di ficcarmi più in fondo nel mio Inferno. Stavo solo scrivendo una poesia, e quella poesia ero io.
Era tutto quello che mi serviva.

Sull’Isola ho pensato che, come con le poesie, in fondo non si smette mai del tutto di fare un sacco di cose. Non solo gli errori, che quelli lo sappiamo che ci siamo cascati, ci caschiamo e ci cascheremo sempre perchè così ci piace. Perchè così esaudiamo le nostre perversioni, ritroviamo la nostra identità, ci diciamo la verità che un secondo dopo abbiamo già seppellito.
No, non si smette di fare un sacco di cose. Di ridere, per esempio. Andando avanti si diventa più seri, i guai si sommano ad altri guai, ma la risata forse non è persa. È come scrivere poesie senza scriverle: ti resta dentro, ma c’è. Anche amore, o quello che chiamiamo tale, non si esaurisce dopo le prime dieci sveltine. L’amore da canzone alle due del mattino, l’amore da lettera, l’amore da quel dolore che fa male al petto, l’amore totale e annullante non finisce ai sedici anni, non resta confinato nelle prime settimane di una storia. L’amore c’è proprio quando non ci stavamo pensando. Solo che non ce ne rendiamo conto perchè siamo distratti. Abbiamo troppe cose a cui pensare, troppi casini, troppe facce, troppi appuntamenti. E quando capita un momento di silenzio, lo riempiamo subito con tv, telefoni, con computer, con la radio, col bere, con tutto quello che ci può evitare di trovarci davanti a noi stessi, a vederci nudi con disprezzo ma, come diceva qualcuno, senza magari perdere la tenerezza. Perchè accarezzarci l’anima con le dita, ogni tanto, può far bene. Capire che forse non ci siamo persi tutte quelle cose per strada, sono solo nascoste sotto strati di rumori e pagine di calendario. Che non siamo davvero diventati tutto quello che detestavamo. Che siamo ancora quelle persone che ci piace pensare, ogni tanto, di essere ancora.
Fatevi un giro sull’Isola, se potete, e sennò createvela. Sssh. Spegnete tutto. Nessuna cazzata new age: sentitevi e basta. Siate onesti. Ci troverete un sacco di merda, come lavarsi i denti la prima volta dopo vent’anni. Ma forse, dopo, il sorriso sarà più pulito, sempre ammesso che ne troviate uno.
Buona Isola.