lunedì 24 dicembre 2012

Caro Babbo Natale...

Caro Babbo Natale,
ho tanti buoni propositi per l'anno nuovo.
Il desiderio di condivisione in questi ultimi mesi è cresciuto a dismisura. Vorrei alzarmi la mattina e fare il caffè anche e soprattuto per lui. Vorrei tornare a casa la sera dal lavoro e vedere il film che vuole vedere lui, dopo una rapida carrellata di canali, vorrei controllare che le sue piante in balcone stiano bene e sentire odore di buono, dopo aver sistemato la cucina.
Ma per fare questo, al di là di qualsiasi problema logistico, dovrò contribuire alle spese che dal prossimo mese aumenteranno dell'1% per l'aumento dell'IVA.
Per provvedere ai consumi e alle spese di manutezione della casa, oltre che alle spese del vitto, dovrò contare sul mio stipendio. Ed è qui, caro Babbo Natale, che vorrei mi ascoltassi e comprendessi ciò che intendo dire.
Del mio stipendio non dovrò tener conto del 28,72%, perchè andranno in mano agli strozzini (ovvero alla Gestione Separata dell'INPS). Dovrò mettere da parte anche il 5% di ciò che rimane per l'aliquota IRPEF (e ringraziamo il cielo che sono nel regime dei superminimi!), ovvero circa il 3,5% dello stipendio. La cifra netta che sarà propriamente spendibile sarà ulteriormente ridotta di circa il 10% a causa delle spese del carburante che dovrò acquistare per poter raggiungere il luogo di lavoro. Non ti parlo delle spese di manutezione dell'auto, che, a differenza della tua splendida ed economicissima slitta, comportano ogni anno il pagamento di bollo, assicurazione, acquisto olio più eventuali pezzi di ricambio.
Una cifra pari a circa il 7% dello stipendio se ne andrà semplicemente per pranzare sul luogo di lavoro.
Riassumendo, la somma di tutte queste spese (28,72%+3,50+10%+7%=49,22%) dimezzerà sostanzialmente le mie entrate.
Caro Babbo Natale, scusami se parlo in percentuali ma, senza dirti quanto incasso ogni mese, vorrei che sapessi che il 50% di quello che ottengo dal lavoro se ne va per il lavoro. E di anno in anno, questa cifra sarà destinata ad aumentare almeno dell'1% annuo, a causa dell'aumento dei contributi previdenziali obbligatori da versare alla Gestione Separata dell'INPS.
Per questo, carissimo, ti scrivo: per chiederti di rendere questi semplici cittadini italiani un po' più liberi.
In alternativa, se proprio non ce la dovessi fare, fa che almeno questo desiderio collettivo si tramuti in un migliore cambiamento a livello personale.
Vorrei ottenere la residenza, volendo, in un altro Paese caldo, per non dover versare i contributi a vuoto, già sapendo che di tutti questi soldi non rivedrò neanche un centesimo, per pagare l'IVA sui prodotti a una cifra ragionevole e risparmiare sulle spese dei trasporti. Vuoi un esempio? Eventualmente l'Ecuador (dove l'IVA si paga solo al 12%).
Grazie.

Tua fedelissima Clelia

domenica 16 dicembre 2012

Le domeniche mattina uccidono piu' uomini delle bombe, ma non sempre


Oggi è una di quelle mattine, e visto quanto sono rare, mi va di schiaffarvelo qui.
Una di quelle mattine buone, in cui ti svegli di buonumore o quasi. Non so voi, ma io con le mattine non ci sono mai andato troppo d’accordo. Il momento di alzarmi dal letto è sempre stato traumatizzante.
Un tempo non ero per niente quello che in inglese viene definito “morning person”. La mia convivenza con Mauro a Roma andava bene anche perchè lui sapeva bene che, per le prime 3 ore dal mio risveglio, non mi avrebbe dovuto rivolgere la parola. Non so di preciso perchè. Sarà stata la delusione di lasciare quel posticino che mi ero ritagliato per tutta la notte, fatto di sogni ed erezioni improvvise, e adesso non mi andava di lasciarlo. Sarà che, per un insonne come me, svegliarsi prima di mezzogiorno è sempre una sconfitta. Sarà che sentivo sulla mia testa gli scherzi degli dei, sentivo il mondo bussare con appuntamenti scadenze e cose da fare, sentivo la vicina cantare mentre io avevo le palle girate.
Qualsiasi cosa fosse, svegliarsi era un atto pieno di quotidiano orrore. Dal momento che ero felicemente disoccupato, ritardavo quel momento il più possibile –appendici erotiche o semplicemente cazzeggianti per posticipare il ritorno nel mondo di qua.
Ero sicuro che troppe mattine storte ti potessero fregare più delle notti sbagliate. Quei risvegli con quel sapore in bocca, la testa che gira, la confusione, il ricordo delle stronzate fatte. Preoccupazioni e scadenze che ti sbocciano nella mente ancora annebbiata dal sonno come fiori neri e grigi. Accendevi la televisione e le brutte notizie bussavano alla tua porta. Le bollette aspettavano sul tavolo. La stanza doveva essere pulita da un po’. Niente, l’unica speranza era allungare una mano verso le parti basse e provare a sognare un altro po’.

Adesso non sono più così incazzato da sveglio, anche se il mondo continua a prendermi alla sprovvista. Da insonne, poi, non c’è mai un’ora giusta per svegliarti –ti sembra sempre sia rimasto qualcosa in sospeso. Ti sembra un’altra delle tue cose lasciate a metà. Nel caso ti fossi dimenticato, in quel pugno di ore notturne, chi sei.
Apro gli occhi, trovo i libri sul comodino come compagni di sbronze che la mattina dopo sono confusi e pieni di strani ricordi. Trovo lei che dorme, e la luce che entra storta dalla finestra, ospite invadente. La mente subito piena di cose da fare, orari, senza neanche lasciarmi il tempo di pensare che, in qualche strano modo, sono ancora vivo, sono in Australia, sono qui che posso lamentarmi delle mattine storte e proprio per questo sono fortunato, cazzo se lo sono. Ma sentirsi fortunati la mattina non è per tutti.

Stamattina è stato diverso, e la cosa bella è che lo è stata senza un motivo ben preciso.
Ho dormito fino a mezzogiorno, che per un insonne è come uscire controvoglia di sabato sera e tornare a casa con la ragazza più bella della festa. Mi sono rigirato sul letto, stupito dell’essere vivo e lì. Ho acceso il cellulare e ho trovato messaggi di amici, alcuni dall’altra parte del mondo –un messaggio molto bello dalla Svizzera, che mi fa sorridere. Sorridere la mattina appena svegli non è per tutti.
Pipì, caffè. Fuori la giornata era calda ma così così, e almeno non dovevo sentirmi in colpa per aver saltato tutta la mattina. Non avevo doposbronza gloriosi, non avevo troppi conti in sospeso, non avevo scadenze. Non avevo catene in più di quelle che mi metto da solo.

Allora prendo il caffè, accendo il computer e vengo qui, alla mia solita finestra sul giardino. Guardo fuori, pensando a tutto e a niente. L’anima, qualunque cosa sia, non mi sembra del tutto persa in questo momento. Conosco della gente mica male. Ho 33 anni, e nel senso buono. Ho qualcosa di buono da cucinare, ho la solita erezione che mi dà il buongiorno, ho la calma tipica dei folli. Ho una mattina di quelle che potresti leggere “Big Sur” di Kerouac su un prato tutto d’un fiato e poi lavarlo via con qualcosa di John Fante e farci una bella risata sopra.
Ho qualcosa da dire, allora scrivo una poesia veloce e poi vengo qui per dirvi queste due stronzate. Non so qual’era il punto di tutto questo discorso, o quanto ve ne sia fregato. Le vostre mattine non saranno così complicate, lo so.
Ma era per farvi sapere che, adesso come adesso, sto bene, che sto sorridendo mentre ascolto della musica che ci sta. Che vi penso, e che mi penso.
Il titolo di una poesia di Bukowski era “Le domeniche mattina uccidono più uomini delle bombe”. Il che a volte è vero.
Ma a volte no.
Buongiorno a tutti.


domenica 9 dicembre 2012

Indian Ocean


In aereo abbiamo inseguito il tramonto per ore, arraffando tutti i raggi di sole possibili contemporaneamente alle birre offerte da hostess con divise come piagiami fuorimoda.
Il sole ha finito per cedere proprio quando ci stavamo avvicinando a Perth dopo 4 ore di volo. Il panorama era costellato di foreste precise e ben delimitate come pezzi di Tetris, e dalle famose miniere. Tutto sembra apparire all’improvviso nella vastità di questa terra della quale non si vede mai la fine, e perfino l’oceano sembra diventare un tutt’uno con le infinite lande desolate dell’interno, percorse solo da strade sterrate incredibilmente lunghe che sembrano state create dalla terra stessa, come se nessun uomo abbia mai potuto mettere piede su quel suolo.

Prime impressioni: Perth sembra pulita, piena di colori per il Natale, un po’ europea nello stile. Una minuscola Manhattan degli antipodi, dove si costruisce giorno e notte, coppie eleganti fanno il giro dei locali e una luna grassa se ne sta appollaiata tra grattacieli e case coloniali.

Il sole sembra metterci una vita, a Perth (anzi, precisamente a Scarborough, località di mare appena fuori dalla città), prima di inabissarsi nell’Oceano Indiano. Come se non volesse cedere alla notte, o come a voler illuminare ogni singolo angolo di questo panorama tranquillo fatto di gente al mare, auto che girano in tondo senza fretta, locali anni ’80 (flipper inclusi) e qualche bicicletta.
Questo paesino sembra dire: sì, lo sappiamo che siamo un posto turistico ma non ce ne frega niente, fate quello che dovete fare. Lo vedi nel tramonto sul mare, spacciato per una novità strabiliante, l’evento che manderà in orgasmo centinaia di macchinette fotografiche tutte uguali (e anche le foto saranno tutte uguali) –ma per la gente di qui è abitudine, come le stelle la notte che non le guardi mai, tanto lo sai già che sono lì.

E il mare, questo mare così blu, così falsamente calmo che ti inganna fino a pochi metri dalla riva –una distesa pacifica quasi verde, sotto la quale si agitano squali e altri mostri della nostra infanzia.
L’orizzonte, soprattutto, ti confonde e crea spaesamento –più che a Sydney, perchè lì l’immagine ha (quasi sempre) un limite, una costa, una rientranza, qualcosa.
Dalla mia stanza d’albergo affacciata sul mare vedo l’isola di Rottnest, che mi dà un inatteso punto di riferimento. L’isola è qualcosa che posso capire, è nel mio DNA –ma quelle vastità che si aprono dietro l’isola?
Andando sempre dritto non incontreresti niente per migliaia di chilometri –MIGLIAIA- supereresti perfino l’India senza mai nemmeno vederla (a dispetto del nome dell’oceano) e le prime coste che vedresti sarebbero quelle africane.
L’Africa –e in mezzo il niente.
Quel “mare aperto” di cui hai sempre sentito, e che fatichi ad immaginare –come se, sotto, in quegli abissi, si nascondessero piovre giganti e oscurità alla Jules Verne. Come se, sopra, pirati e correnti potessero decidere ancora della tua vita come secoli fa.
Questo oceano che mi fa subito pensare allo scrittore Joseph Conrad, che intingeva il suo pennino nell’acqua di mare –“Cuore di tenebra”, ma soprattutto “La linea d’ombra”. Conrad che aveva dovuto viaggiare e sentire queste acque, avvertirne fascini e pericoli, dolcezza e omicidi, per poi riportarle sulla carta e ricordare a noi come il mare ha, per i problemi degli uomini, una sola soluzione, e definitiva.
Questo oceano che ti spoglia, e ti lascia nudo e vivo, solido e confuso come isole nella corrente.

martedì 27 novembre 2012

Smisurata Preghiera




Ho sempre trovato struggente (sì, oggi è uno di quei post lì) il finale strumentale della “Smisurata preghiera” di Fabrizio De Andrè.
Tutta la canzone lo è, e il testo è uno dei più riusciti di Faber (e che mi ha costretto a leggere tutta la trilogia di Alvaro Mutis su Maqroll il Gabbiere, che qua e là, con rispetto a Fabrizio, concilia parecchio il sonno).
La frase “Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione” è da tatuare sull’anima di tutti noi, poveri figli di un mondo che, per capirlo, dobbiamo attraversarlo da cima a fondo con valigie e ricordi e pensieri strappati al sole e alle tempeste.
E quell’invocazione ad un dio –quale che sia- un dio che De Andrè ha sempre negato e sempre cercato, specie dopo l’esperienza del sequestro in Sardegna.
Un dio dal quale De Andrè ritorna alla fine della sua vita, e che non era per niente quello dal quale era partito, che gli avevano insegnato –un dio frutto della sua ricerca, dei suoi errori, delle sue bevute e delle sue puttane, dei pianti e delle risate, e proprio per questo un dio infinitamente più umano.
Un dio interessante come quello che Dostoevskij aveva scoperto davanti al plotone d’esecuzione, o come quello di Van Gogh nel suo campo di grano.
Un dio che qualcuno, distrattamente, potrebbe finire per chiamare amore.

Finito il testo (intorno al quarto minuto), parlano gli strumenti –dapprima concitati, a riprendere i motivi della parte cantata, per poi diradarsi via via come nebbia davanti ad un sole visto per l’ultima volta.
Provate ad ascoltare. Non e' come se la vostra anima scivolasse dolcemente lungo il fiume, in una sera di maggio?
Non so se è suggestione dovuta al fatto che questa è l’ultima parte dell’ultimo pezzo dell’ultimo album di De Andrè, ma questa canzone mi è sempre sembrata diversa dalle altre. Come se in qualche modo Fabrizio sapesse, e avesse voluto dire tutto in questi 7 minuti.
Le cornamuse lasciano il passo a toni lievi e maestosi, archi che consolano dopo tanto soffrire, alcune pause che possiamo solo provare a riempire con quello che abbiamo.
Questa è la parte che parla della fine di tutti gli uomini –di quegli uomini per i quali, nella prima parte, Fabrizio chiedeva grazia e riscatto “dopo tanto sbandare”, con il Cielo in eterno debito con loro. Quella fine che ci rende tutti uguali, e così umani proprio nel momento in cui cessiamo di esserlo.
Mi fa pensare anche alla sua fine, personalissima, come se la sentisse vicina e volesse farsi due conti.
Archi e armoniche parlano di un uomo che sta lasciando andare via la vita, quella vita che aveva amato così tanto, ma non sembra triste nè spaventato. Mi sembra quasi di vederlo lì, seduto ad un caffè col bicchiere sempre accanto, la sigaretta accesa, mi sembra di vederlo lì che fissa la gente passare, i marciapiedi di Genova, di Parigi e di tutte le strade del mondo, e pensare: dopotutto, non è andata male.
É finita, ma e' stato bello esserci.
Lo vedo lì a fumare, a ripensare a facce, amori e notti sbagliate. Lo vedo lì a fumare quella sigaretta che lo metterà nei guai, e lui lì ad andare fino in fondo.
Lo vedo cercare di capire cos’è questa morte di cui tutti parlano, cosa vuol dire non esserci più, chiudere il libro e rimetterlo sullo scaffale.
La musica si fa dolcissima, emozionante come un violinista di strada che suona solo con l’anima. Sa di certi tramonti sul mare, di una ragazza incontrata per caso, parla di cene con amici, di bevute con compagni di sbronza, parla di visi di bambini. Lui sempre lì, a fumare quella sigaretta e a guardare con nostalgia tutto quello che dovrà lasciare.
E forse morire è nient’altro che questo: dover lasciare un posto che hai amato, che per te e solo per te ha voluto dire qualcosa, e non tornarci mai più.

Magari è per questo che noi poveri viaggiatori impariamo dai nostri viaggi e sperimentiamo e cresciamo, ma nel frattempo cediamo delle parti di noi ad ogni addio.
Ma in quel momento, lì seduto con la sua sigaretta, tutto questo non importa più. Le esperienze, i chilometri, le delusioni e le sorprese, diventano tutte foto da farsi passare davanti con un sorrisino del tipo, ma guarda tu, quanto tempo.

La musica si fa malinconica e riempie il cuore. C’era un solo modo di onorare quella vita ed era viverla, e quello era stato fatto.
Adesso era ora di spegnere la sigaretta, vuotare il bicchiere e pagare il conto.
La musica va in dissolvenza, poi finisce.
Buon viaggio.



venerdì 23 novembre 2012

Trovarsi a metà strada

Ci hanno insegnato a camminare per permetterci di muoverci, di andare dove vogliamo.
Un passo alla volta, possiamo arrivare ovunque.
Allora perché non possiamo raggiungere certe persone?
Perché ci è precluso questo viaggio, forse l'unico che vorremmo veramente compiere?
La verità è che spesso noi uomini ci dimentichiamo come si fa a camminare, per quanto possa essere semplice.

Basterebbe mettere avanti un piede, poi l'altro e continuare così, fino a raggiungere la meta, rallentando se il terreno è scosceso, muovendoci più in fretta e con sicurezza se il sentiero è piano, aiutandoci con le braccia a mantenere l'equilibrio se necessario. Così facendo, potremmo andare veramente ovunque.
Ma la verità è che siamo diventati troppo pigri per farlo.

Appesantiti da vestiti invernali che ci proteggono dal freddo anche quando è estate e si muore di caldo, rinunciamo a spostarci.
Spaventati da un terreno insidioso, preferiamo rimanere immobili ad aspettare.
Oppure, convinti dell'inutilità del viaggio, preferiamo non provare neanche a fare i bagagli.
E rimaniamo fermi, in attesa, convinti magari che sarà l'altra persona a raggiungerci.

Potrebbe anche accadere, ma la verità è che a volte il viaggio è lungo, troppo lungo per essere fatto per intero. Cosa accade dunque? Dopo giorni, settimane, mesi passati in viaggio, chi cercava di raggiungerci rinuncia e si ferma: si arrende perchè ha bisogno di riposo. Se sperava di riuscire ad arrivare fino a noi, ecco che si arrende, conscio dei suoi limiti.
Tuttavia, non rinuncia all'idea di vederci arrivare da dietro l'angolo.
Non sa però che noi siamo fermi e che dunque non svolteremo mai quell'angolo. Lui ha viaggiato per niente, ma di chi è la colpa? La colpa è nostra, che siamo rimasti fermi ad aspettare.

Non si può aspettare per sempre, bisogna agire. Se tutti ci impegnassimo per avanzar, un passo dopo l'altro, gli uni verso gli altri, allora sarebbe tutto più facile: ci incontreremmo a metà strada e tutti i problemi si risolverebbero.
Basterebbe aver la buona volontà di provare capire il punto di vista altrui e cambieremmo il mondo

Noi uomini dobbiamo ricominciare a venirci incontro, a metà strada; forse in questo modo avremo una vita migliore. La felicità, sicuramente, ci apparirebbe meno lontana.

lunedì 19 novembre 2012

La maggioranza ha sempre ragione



L’altro giorno mi è capitato sott’occhio questa pubblicità del tipo –comprate la rivista “Y”, perchè 9 milioni di australiani non possono essersi sbagliati.
Ma manco per il cazzo, dico io. Nove milioni di australiani possono sbagliarsi eccome, e non per la nazionalità. É il numero, quello che mi fa incazzare, e che mi fa paura.
Sarà che sono per le minoranze perchè nella mia vita, per un motivo o per un altro, mi sono spesso trovato a farne parte. Sarà che i Grandi Gruppi mi sono sempre sembrati delle Grandi Truffe. Sarà che le statistiche mi annoiano, senza dirmi niente. Se qualcuno dice che c’è un 90% della popolazione a cui piace mangiare merda fritta, io continuo a pensare che c’è un 10% a cui la merda fritta proprio non piace.

Ma le statistiche servono a questo: coprire le piccole realtà con quelle grandi, distruggere la varietà a favore della popolarità. La percentuale più bassa cancellata dal tutti-fanno-così (ma tutti chi? I più furbi, i più bravi, i più coglioni?). Guardate, mi sta persino più simpatica quella parte di “non so/non risponde”. Preferisco il loro dubbio minoritario alle certezze granitiche della maggioranza.

La maggioranza... quante cose buone abbiamo buttato nel cesso per colpa della maggioranza? Quante volte ci siamo visti etichettare e guardare storti perchè non ne facevamo parte? Quante volte, perfino, ci siamo fatti cambiare il destino da questo gruppetto che si faceva forte dei numeri?
Eh no, miei cari: 9 milioni di Australiani possono avere torto come chiunque altro. Possono essere stati i 9 milioni più coglioni –ma anche se così non fosse, non importa. Non me ne importa niente di cosa fanno quei 9 milioni, di cosa comprano, di cosa mangiano. Non analizzo consumi, non faccio ricerche.

Eppure mi ricordo di quando milioni di tedeschi hanno scelto un tizio coi baffetti, quando milioni di italiani hanno scelto il pelato (e in tempi più recenti, il nano). Eccovela, la vostra maggioranza. Guardate quei filmati d’epoca: vi pare che quei tizi parlassero a delle piazze vuote?
Voi mi direte: la propaganda, la manipolazione, l’isteria di gruppo. Ma allora che senso ha parlare di maggioranza?
A me questa parola fa paura –e non solo per queste reminescenze storiche. Non mi piace questo dividere sempre, tirando una linea sulla sabbia, tra quanti siamo noi e quanti siete voi.
Non accetto questa finta normalità i cui standard sono decisi da questa maggioranza –di modo che tutto quello che non rientra è “anormale” solo perchè “meno diffuso”.

Esempio stupido: non possiedo una tv da ormai quasi 4 anni. La cosa è cominciata per caso, e adesso sto molto meglio senza. Non lo faccio per snobismo, e anzi ero un tele-dipendente di prima forza. Ma ora non mi va più.
Eppure, ogni volta che lo dico, vedo intorno a me facce sgranate e sguardi perplessi più che se avessi detto che nel tempo libero vado in giro a spiare coppiette. Ma come, non ce l’hai??? E come mai??? Ma non puoi permettertela???
Non si concepisce che uno non ce l’abbia perchè non la vuole. Questo perchè la maggioranza ce l’ha e ne fa grande uso.
É una mia scelta, che non dipende da niente se non da me. Se mi andasse, la comprerei. Ma non la comprerei mai perchè è la cosa giusta da fare. Le cose giuste sono giuste solo per chi l’ha deciso –ed io non voglio averci niente a che fare. Nelle cose sbagliate ci sguazzo da sempre, per le prediche e le statistiche è un po’ tardi.

Ma insomma, tutto questo sfogo pre-cena era solo per dire questo: non fidatevi di quei 9 milioni di Australiani (o Italiani, o Eschimesi, o quello che è).
Magari “Y” è un giornale bellissimo. Compratelo, se vi va.
Se non vi piace, sapete con chi (o meglio, quanti) prendervela.


lunedì 12 novembre 2012

Oxford Street nights


Il bar è pieno di
baffi cosce e stivali
palme ammuffite, porno d’epoca
bicchieri grandi con dentro
rose
mentre il barista
dissimula la sua aria
da spacciatore di sogni
e tutti vanno e
vengono dal bagno
come se stessero
condividendo un
segreto
l’uomo dei cocktail non
dorme da troppe notti
il buttafuori è gentile
& vicino alla fine
tutti lontani da casa
tutti uniti in un unico
discorso che finisce in
rissa e
monosorso

Fuori intanto
macchine colorate, rumorose, vuote
rombano nella notte
i poliziotti perquisiscono
le ragazze più carine
e mangiano dove capita
barboni senza denti
chiedono spiccioli & tregue
gruppi di ragazzi attraversano
la strada
senza mai guardare
in nessuna direzione
prostitute basse con
parrucche colorate e
visti scaduti
attendono annoiate che
scatti il verde e
poi il rosso
e il verde ancora
pirati & travestiti, turisti &
spacciatori
tutti a scrutarsi le stelle
in fondo all’ombelico
negozi di liquori spuntano
ad ogni angolo
come un’ultima sfavillante
occasione di felicità
bordelli & ristoranti cinesi
riempiono i marciapiedi
dove camminiamo dolenti, santi
& peccatori, profeti &
cani
vino giocolieri & fate
tassisti fumano nell’ombra
fra una corsa e l’altra
prendiamo fiato
prendiamo pillole e coraggio
e continuiamo
prima che sia
troppo
presto.



Marco Zangari © 2012

domenica 4 novembre 2012

Contro tutte le avversità


sabato 3 novembre 2012

Viaggiatore solitario a Sydney

Premetto subito che il titolo kerouachiano serve per l’effetto drammatico: in realtà non stavo viaggiando, nè tantomeno sono solitario (anzi, come scrivevo in un altro post, uno dei miei problemi al momento è proprio l’opposto: troppo tempo con gli altri, troppo poco con me stesso).
Oggi però, per una serie di cause, mi sono trovato in centro a Sydney, con tutto il sabato davanti a me e niente da fare, e così ho deciso di farmi un giretto manintasca, a vedere un po’ cosa mi ero perso.
In centro vado, e anche spesso (considerando che vivo ad una quarantina di minuti di treno da lì, e che sono un pigro militante), ma quasi sempre di sera. La città di giorno è strana, e di sabato ancora di più. Sai che metà degli ubriaconi è a casa a smaltire il venerdì sera, e l’altra metà si prepara ad un sabato sera di fuoco. Nel mezzo ci siamo noi, ovvero io e un migliaio di turisti che riempiono marciapiedi e incroci con traiettorie vaghe e poco importanti.
Nel centro di Sydney il sabato, in fondo, non c’é un cazzo da fare. Una volta svuotati uffici e banche, la città appare per quello che è: un enorme, rumoroso luna-park montato ad uso e consumo di turisti, backpackers e sbevazzoni del fine-settimana. Centinaia di pub, sale gioco, bistrot, ristoranti, tavole calde, fast food, negozi di souvenir, mentre l’occhio fatica a trovare mostre, musei, punti di incontro. Si beve, si mangia, si fa shopping. Due o tre librerie, tutte dall’aria da multinazionale, con in vetrina sempre i libri sbagliati. Il cielo nuvoloso, atipico per questa primavera australiana, aumenta solo il senso di uggia.

Ma non mi dispiace starmene qui a passeggiare da solo. Non ho molto tempo per i miei pensieri, ed è prezioso approfittare di ogni momento del genere. Magari scopri che non ne hai così tanti, o di così importanti, ma forse ci sono quei due o tre che vanno portati a spasso di tanto in tanto a prendere aria, a tornare in vita.
Viaggiare da solo non mi è mai dispiaciuto. All’inizio ti senti un po’ coglione, ma poi passa e te la godi tutta, anzi, forse te la godi anche di più. Non fraintendetemi: è bello viaggiare e condividere con qualcuno tutto il nuovo che si vede, che si assapora. In molti casi, riesce a farti persino apprezzare qualcosa che, da solo, avresti completamente ignorato e dimenticato.
Ma il viaggio da solo ha un altro gusto, quando è scelto. Ti permette di concentrarti su dettagli minimi, che sono poi quelli che davvero costituiscono il viaggio. Ti costringe ad aprire gli occhi e a vedere e sentire cose che normalmente non vedi e non senti. Ti dà il tempo, come dicevamo, di riprendere quei due o tre pensieri e vedere che effetto fanno in un altro contesto. Ti fa riflettere, da lontano, su cose che ti riguardano da vicino. Ti apre anche agli incontri, che spesso non faresti se fossi con qualcun altro.
Da solo ho fatto qualche breve viaggio, niente di epico, ma nel bene e nel male, mi sono goduto ogni secondo, anche quelle sfumature malinconiche, quasi romantiche (o patetiche) che certi viaggi portavano con sè, specie se comportavano degli addii.
E quando ero in quei treni fetidi che non arrivavano mai, o in quei bus alle 2 del mattino in una città sconosciuta, ripensavo a Kerouac, a lui e ai suoi chilometri e ai suoi due o tre pensieri che doveva per forza portare in giro sotto questo vasto cielo. Lo vedevo fissare fuori dal finestrino del treno o del bus, mentre magari le frasi si componevano già nella sua testa, i sensi all’erta, la notte che non lasciava scampo.
Il viaggiatore solitario, questa figura tragica che ho sempre amato, e che alla maggior parte delle persone sembrava solo uno sfigato che è rimasto di fuori.
Immerso in questi grandi pensieri (Kerouac, addirittura, di sabato mattina, amici miei!), mi ero quasi dimenticato che, uno, non stavo affatto viaggiando ma facendo un giretto svagato in centro, e due, mi trovavo immerso fino al collo nell’elemento che più mi fa paura al mondo, cioè la gente (e la gente della mattina del weekend, che è come dire “bonus extra”). Ho cominciato allora a guardare le facce. Come al solito, non c’era granchè da guardare.
Come sempre qui a Sydney, la stragrande maggioranza erano asiatici: di tutte le taglie, dimensioni, dialetti e tinta dei capelli. Venivano poi i turisti americani con occhiali da sole anche senza sole, i backpackers europei sempre spaesati con la mappa in mano e un paio di chili di piercing, i ragazzi australiani che, col freddo o col caldo, sono vestiti sempre allo stesso modo: jeans strizzatissimi e a vita ultra-bassa e maglietta larga ma aderente sui bicipiti (e talvolta sulla pance di birra). Le ragazze sfilano bellissime come sempre, anche se le più belle si stanno conservando per la serata. Le più belle in passerella, stamattina, sono le turiste dell’Est Europa. Pochi italiani, per fortuna, e un numero di coppie altissimo, che fa sentire qualsiasi viaggiatore solitario il terzo che regge il moccolo.

Non sapendo cosa fare, giro per i due o tre locali che frequento sempre quando sono in centro, trovandoli chiusi. Decido allora, spinto dal vento, di infilarmi in un Oporto di una parallela a George Street, la strada principale del centro. L’Oporto è un fast food come il MacDonald, ma a base di pollo e dall’aria leggermente meno tossica. Entro, ordino, mi siedo ad uno dei tavoli. Il locale è quasi deserto, eccezion fatta per tre uomini seduti in tre separè, uno dopo l’altro, lungo lo stesso divano. Io mi siedo al quarto. Sembriamo i concorrenti di un telequiz, dove le domande sono poco importanti e il pubblico è tutto andato via.
Un ragazzino con la divisa del locale, che sembra non avere più di 11 anni, mi porta la mia ordinazione. Mangio, leggendo il libro che mi sono portato dietro. Mangiare è l’unica cosa che mi dà fastidio fare da solo quando viaggio (a parte quando devi pisciare e hai mille bagagli dietro e non sai mai come fare). Non perchè ami mangiare con altri (come saprete già, sono un po’ strano), ma solo perchè non mi va di mangiare fissando altri che fanno la stessa cosa. Se potessi avere un tavolo davanti ad un muro, sarebbe perfetto. O davanti ad una vetrata. Ma nella maggior parte dei casi ti ficcano davanti ad un altro viaggiatore solitario che ti rimanda indietro la tua stessa faccia stanca, e allora l’appetito passa in un attimo.
Il fast food va bene, scegli il tavolo, ci stai poco a mangiare e nessuno fa storie se te ne stai lì con un libro sul tavolo. Mia madre odiava quando lo facevo, ma ora lei si trova a 15.000 km da qui, quindi penso di poterlo fare.

Una volta finito, passeggio ancora un po’. Camminando per quelle strade mi torna in mente di quando lo facevo anni fa, quando ero anch’io un backpacker e giravo per le strade affamato e distratto. Periodi in cui lavavi i piatti e scaricavi casse, o magari non lavoravi per niente, in pancia solo noddles istantanei, in tasca nemmeno i soldi per mettere insieme una birra. Periodi in cui la mia famiglia mi diceva –ma che cazzo stai facendo-, i miei amici mi dicevano –ma che cazzo stai facendo-, e neanch’io sapevo bene cosa cazzo stessi facendo.
Neanche adesso, che sono passati anni, lo so bene. So solo che in tasca ho i soldi per una birra, e allora decido di fermarmi ad un locale che conosco, sempre su George Street. Ordino una birra bianca d’importazione (le birre australiane sono fra le peggiori di tutto il globo terracqueo) e mi siedo fuori, nel vicoletto con pretese (frustratissime, direi) di aria europea. Non c’é nessuno fuori, e di questo sono felicissimo, Nemmeno l’insulsa musichetta dance del locale arriva fin qui. Apro la borsa e tiro fuori di nuovo il libro che sto leggendo, una raccolta di articoli di Pier Vittorio Tondelli (di cui abbiamo già parlato qui nel Morgana)sugli anni Ottanta, intitolato “Un weekend post-moderno”.
Mentre leggo e sorseggio la birra, inciampo in un capitolo che s’intitola proprio “Viaggiatore solitario”. Il capitolo inizia così: “Quando si viaggia soli ci si sente ridicoli e disarmati”. Eccoci. Butto giù un sorso generoso e continuo a leggere. Il brano continua così: “ (...) Voglio che la mia solitudine sia rispettata. Se sono solo, non per questo sono un uomo a metà. Non per questo ho bisogno di petulanti eserciti della salvezza che vengano a disturbarmi. Non sono sposato, non credo all’istituzione familiare, sono debole come tutti, e fragile ed emotivo. Ma so stare solo
Continuo a leggere, e mi sento meno solo.

Finisco capitolo e birra, mi alzo e mando un bacio a Sydney, a questa città che non ce la fa ad essere crudele con i viaggiatori solitari nemmeno quando la pancia prude per la fame, nemmeno quando vorrebbe piovere ma non sa perchè. Mando un bacio all’umanità che ne calpesta i marciapiedi augurando loro ogni bene, ma io, per oggi, ho fatto il pieno. Mi dirigo verso la stazione, soddisfatto. Ho portato in giro i miei due o tre pensieri, e ne ho un paio di nuovi. Il cielo minaccia freddo senza arrivare ai fatti. Il treno arranca lungo i binari sporchi di piscio.
Non potrebbe andare meglio.

giovedì 1 novembre 2012

Message in a bottle


martedì 30 ottobre 2012

Vivo abbastanza

Ciao, come stai?

É un po’ che non ci sentiamo, e oggi mi va di raccontarti di come sta andando –anche se non l’hai chiesto, anche se hai le tue cose a cui badare.
Non ci sono grosse novità. Lavoro, casa, qualche guaio nel fine settimana. Non so in quali grandi avventure potrebbe ficcarsi un 33enne con i capelli già bianchi e il fegato che ne ha viste un po’, ma tutto sommato non mi lamento. É un equilibrio squilibrato, che mi sta bene.
Non imparo molto, e forse è questo il guaio. Ho ripreso a leggere, ma quello che leggo non mi basta. Forse sono i libri che sto leggendo, nessuno scrittore che accenda luci nel buio, che ti dia una strizzata ai coglioni. E allora i coglioni sonnecchiano, in questo ciclo veglia-sonno, con orari precisi e in fin dei conti nemmeno troppo stressanti.

Sono nella terra del “take it easy”, della rilassatezza come Stile di Vita, eppure non riesco a lasciarmi andare. Magari la prendo già “easy” di mio, e quando tutti fanno allo stesso modo allora, per spirito di contraddizione, devo scazzare in qualche modo. Sono nervoso in questi giorni. Magari una scopata sistema tutto, magari è la Luna in Toro, magari sono gli spaghetti di soia di ieri sera. Magari è lo scrivere.
Però nonostante tutto, quello non va troppo male. Ogni tanto scrivo qualche poesia, quando torno dal lavoro e mi metto nudo con una penna in mano. Ogni tanto torno in un certo Hotel Morgana. E poi ho cominciato una cosa ma non voglio parlartene ancora, perchè ho paura che diventi uno dei miei tanti progetti lasciati a metà.

La mancanza di organizzazione –altrimenti detta fancazzismo- mi fotte, insieme a questo Tempo del cazzo. Il Tempo. Non mi sembra vero che sono già passati due mesi e mezzo dalla mia partenza dall’Italia. Due mesi e mezzo, cazzo. Ma ci crederesti? Ma com’è che i giorni vanno via così veloci? É una cosa buona, secondo te? Così stringiamo le chiappe, ci scordiamo di tutto e puntiamo dritti verso un periodo in cui avremo prostate come pompelmi e tanto tempo per parlare di quando non avevamo mai tempo?
Questo è il trucchetto col quale ci mandano avanti. Domani, ti dici, sempre domani, o anche dopodomani –e intanto i venti diventano trenta e i trenta quaranta, e prima che te ne possa accorgere sei diventato tuo padre. Ora capisco perchè le rockstar schiattavano a 27 anni.

Tempo a parte, mi manchi, amico e amica. In questi giorni senza ore, in queste ore senza minuti non ascolto molto la mia anima, ma mi sembra di stare mettendo da parte ricordi storielle racconti per te, per tutti gli altri, e allora forse non è tutto sprecato. Ogni tanto mi faccio qualche risata come si deve. Passo troppo tempo insieme ad altra gente, e troppo poco da solo con me stesso. Mi chiedo poche cose, mi faccio sempre meno domande. Ma è così che funziona, come una vecchia auto che non ti chiedi più il perchè e il percome di quello strano cigolìo, fintanto che cammina e ti porta dove devi andare.
Per il resto, l’estate si fa annunciare ogni giorno sempre di più da cieli azzurri da ubriacare l’occhio e da quegli odori che solo questa stagione porta con sè. Ogni tanto mi fermo a riflettere su questi odori, sul quanto sono diversi da quelli della mia estate siciliana, così come lo erano dalle estati romane che passavo tra un esame e l’altro. Piccoli flash nostalgici, che spesso mi fanno apprezzare ancora di più quello che vedo –perchè, anche quando hai le palle girate come me in questo momento, c’è sempre una forma di bellezza intorno, e se ne puoi godere, allora sei vivo abbastanza.

Sì, sono vivo abbastanza: senza troppe notti in compagnia della mia anima, senza grandi progetti se non quello di vedere cosa succede più in là, in questa storia che preannuncia ancora nuovi personaggi e colpi di scena. Ma vivo abbastanza da capire che sono ancora qui combattivo, incazzato e incazzoso, innamorato e pieno di sogni come il primo adolescente che passa. Ho appunti di lavoro e fogli pieni di poesie. Ho una finestra aperta con il giardino ormai in penombra. Ho una birra in frigo e qualcosa da raccontarti per quando ci rivedremo. Ho i miei ricordi che mi tengono sveglio e mi fanno compagnia e mi fanno sorridere. Ho le mie manie, le mie illusioni, le mie guerre che non finiranno mai. Ho da scrivere, da pensare, da fare l’amore. Ho da mangiare e poi restare a guardare. Ho questa indole da vendinuvole che mi è capitata, e non potrei sentirmi più fortunato -quando le parole si mettono in fila e arrivano alla fine del rigo e semplicemente strabordano in quello sotto. Ho dei libri che ti strizzano ancora i coglioni dopo anni e anni. Ho dei bei quadri cazzuti alle pareti. Ho amici vecchi e nuovi, e tutti loro hanno qualcosa di speciale. Ho voglia di non fermarmi e di parlarti di me, di tanto in tanto.
So che non me l’hai chiesto, ma mi ha fatto piacere.

Ma adesso dimmi, amico e amica: a te come va?

domenica 14 ottobre 2012

La pipì alla fiera delle vanità

In conclusione è andata bene, amico mio. In conclusione.
Ma lascia che ti racconti come è iniziata, questa cosa faticosissima, che mi ha costretto ad affrontare briganti sogghignanti di fuori e spadaccini incappucciati di dentro.

Non volevo farlo. Questo è semplice. Forse una piccola parte di me agognava l'idea del successo finale, ma tutte le altre non avrebbero mai scelto liberamente di muovere il primo passo in quella direzione. Non volevo.

L'idea di salire sul palco e parlare davanti a tutte quelle persone di un qualcosa da "grandi" mi metteva agitazione. In fondo a me i grandi non sono mai piaciuti. Sono prepotenti, empi, e soprattutto ipocriti. Del resto, spesso diventano grandi solo per arrogars il diritto di "essere grandi abbastanza per comportarsi come bambini". A questo punto, dico io, tanto vale restare bambini, dirlo chiaro e tondo e mettersi a cercare la strada per l'idola che non c'è.

Comunque alla fine l'ho fatto. Ci sono andato. Ho messo la sveglia che fuori ancora era notte, ho fatto pipì, mi sono lavato e ho mangiato un paio di biscotti cercando di fare ogni cosa come se fosse una giornata qualunque. Ma dopo le mutande e i calzini, ho dovuto fare i conti con la camicia e il vestito. So che hai ben presente la scena di "Into the wild" in cui Chris vede riflessa nello specchio l'immagine del suo io parallelo, o comunque di se stesso in un possibile futuro. Giacca e cravatta, sorriso impeccabile, a fare cin cin con altri uomini come lui. La prima volta che ho provato una sensazione del genere, è stata il primo giorno da agente immobiliare, un paio d'anni fa, quando alle nove di sera ho visto la mia immagine riflessa sul vetro appannato del 310.
Quella mattina, mentre fuori era ancora buio, ho avvertito ancora quella scomoda sensazione. Quel sentirsi non un attore qualunque, che può smettere di recitare e tornare a fare il se stesso di sempre, bensì un attore convinto, trasformatosi nello stesso personaggio per colpa di un incantesimo di cui ha smarrito la formula di annullamento.

Sul taxi, diverse parti di me hanno sperato di arrivare in ritardo e di perdere il volo. In aereo, le stesse hanno addirittura incrociato le dita affinché un qualunque problema mi impedisse di prendere parte all'evento. Inutile dirti che tra le altre parti, ce n'era una che guardava le restanti e pensava tra sé "ma perché tutta questa messinscena?".

Sul taxi, verso il luogo dell'evento, tutte le parti della mia anima e del mio corpo erano invece riunite e alleate tra loro, concentrate al massimo al fine di ordinare alla vescica di contenere la pipì ancora un istante, ancora uno solo, fino al primo bagno lurido di un bar di Milano di fronte l'ingresso per la fiera. Poi l'ho fatta. E da lì in seguito è stata tutta un'altra storia.

Il posto più futurista e digitale del mondo non era altro che l'evoluzione di un mercato rionale, in cui le pescivendole sapevano di chanel numerò 5, ed erano giovani, sexy e volevano venderti pubblicità online al posto della trota salmonata. Avevano gambe affusolate, calze, tacchi alti, e parevano tutte stra-convinte del loro ruolo. Le guardavo e pensavo che se ne avessi fermata una per parlare, non sarebbe stata capace di raccontarmi quale tocco personale aggiunge all'insalata mista.

Pazienza. Io ormai ci ero, ed ero diverso. O forse ero illuso di esserlo, al pari di tutti gli altri pinguini e le altre sexy pescivendole e fruttarole che erano lì.

Sorrisi e strette di mano. Conoscere gente da aggiungere su Linkedin. Rubare dei gadget. Impressionare. Valutare le agenzie in base ai colori dello stand, al numero di persone impiegate per gestirlo, a quello di gadget presenti, alla lunghezza delle gambe delle ragazze che ci lavorano.

Poi lo speech. Inutile che ti dica quante volte l'ho provato. Ogni volta andava bene, ma ogni volta aggiungevo qualcosa e toglievo qualcos'altro. Puoi mettermi anche giacca e cravatta ogni giorno della mia vita, ma non puoi mettermi la stessa espressione sul volto.
Quando è stato il momento della bella, mi sono accorto che non avrei avuto il tempo per cui avevo provato. I minuti erano agli sgoccioli, e l'ultima persona (la collega che avrebbe dovuto parlare dopo di me) non avrebbe avuto nemmeno modo di salire sul piedistallo.
Non dico che le cose stessero andando proprio a puttane, ma diciamo che era una notte un po' annoiata, la strada tirava e c'erano 50 euro nel portafogli...

Serviva un cambio di strategia. Un cambio in corsa.
Così al momento giusto sono salito sul piedistallo e ho cominciato:
"Salve a tutti mi chiamo Edoardo Sorani e in Ad Maiora mi occupo di PR Online. Sarò breve per lasciare spazio anche alla mia collega. Per qualunque domanda o chiarimento, però, resto a vostra disposizione fuori dell'aula al termine dell'esposizione".

Certe volte, prima di decidere quale attore vuoi essere, devi prima scegliere quale spettacolo fare.
Certe volte il massimo è che le cose vadano bene e che vadano come avevi previsto.
Altre volte, invece, le cose non vanno come avevi previsto, ma se vanno bene lo stesso allora hai spaccato di brutto.


lunedì 8 ottobre 2012

Diaz, Freud e noi


Non possiedo una tv e vado al cinema due volte l’anno, ma ogni tanto guardo qualche film che ne vale la pena. Ieri mi è successo con “Diaz – Non pulite questo sangue”.

Premetto che, all’epoca dei fatti, non stavo seguendo il G8 da vicino. Ero distratto dai miei cazzi personali, che, prosaicamente, hanno sempre la meglio su tutto il resto. Però avevo sentito di Giuliani, dell’aggressione alla Diaz, ed in questi 11 anni ho seguito le vicende giudiziarie per quanto la scarsissima rilevanza sulla stampa me lo permettesse.
Il film non aggiunge molto a quello che già si sa, e che altri documentari passati in tv (quando ancora ne avevo una) hanno già mostrato.
Eppure ha l’impatto di un pugno nello stomaco. La telecamera segue diverse storie, racconta senza giudicare troppo, e poi viene investita anch’essa dalla raffica di manganellate di quel 21 luglio 2001.
La potenza di “Diaz” è questa: che, a prescindere dal proprio credo politico, dalle proprie opinioni su quei giorni, sui black block, sui no-global, sugli scontri, su zone rosse e via dicendo, ti trascina dentro quelle quattro mura, in una scuola buia con le pareti che piano piano si tingono di rosso neanche fosse un horror, e ti lascia lì inerme. Ti fa sentire come devono essersi sentiti quei ragazzi, col buio e le urla che crescevano e questa mandria accecata che colpiva tutto e tutti e cominciava a venire verso di te.
No, non dev’essere stata una passeggiata essere stati in quella scuola, quella notte.
Il film ti porta al di là del bollettino da guerra del giorno dopo, dei feriti e contusi (ma feriti quanto? contusi come?), in un panico crescente dove una parte della tua mente ripete che quello è successo realmente, e un’altra parte si rifiuta di crederlo. Si rifiuta di pensare che nel Duemila possa essere successa una cosa del genere.

Molti tirano fuori la storia del poliziotto buono e quello cattivo. Io ho avuto le mie esperienze, specie quando prestavo servizio in un altro territorio senza regole. Diciamo che ne ho incontrati più di un tipo che dell’altro. Anzi, quasi sempre di un solo tipo.
Ma queste distinzioni non m’importano. Come diceva De Andrè, bisogna star attenti a non diventare tanto coglioni da non capire più che non esistono, in fondo, dei poteri buoni. Il potere è (perdonate il bisticcio) sempre una sopraffazione in potenza. Presuppone che qualcuno stia sopra e qualcun altro sotto.
Il potere, una volta che c’è, ha connotazioni divine, sembra che sia esistito da sempre e che c’é perchè ci deve essere, e tutti devono accettarlo. La nostra democrazia si basa sull’esile assunto che chi riceve il potere DAL popolo, poi lo amministrerà PER il popolo.
Certo, come no.
Sono pero' perfettamente d’accordo sul fatto che quelli siano i tutori dell’ordine.
Bisogna poi capire di quale ordine si sta parlando.

Ma qui entra in gioco anche un altro valore del film, non coscientemente ricercato, ma legato invece alla vicenda in sè. Un discorso più inconscio, psicologico, quasi primordiale.
Vedendo il film, si capisce cosa accade qualora le convenzioni e le regole che ci siamo dati non sono più validi, e l’istinto è lasciato a briglie sciolte. Non più incanalato, non più legato alla necessità di trovare una giustificazione, viene fuori in tutta la sua potenza devastatrice. No, l’uomo non è un animale, per fortuna. Ma l’uomo è ANCHE un animale, e al momento giusto questa parte, sepolta sotto strati di superficiale civilizzazione, viene fuori, cieca e sorda, pronta solo ad auto-soddisfarsi.
Sparisce il rispetto, il senso dell’altro, l’etica, l’altruismo, sparisce tutto. Lo spregio per la vita umana del “nemico” contrapposta al farsi forza l’un l’altro, quel violento noi contro di voi, dove noi siamo quelli con la divisa e voi no, e questo in qualche modo ci rende diversi, ci mette sopra - ti fa capire come un fenomeno imcomprensibile della nostra storia recente come l’Olocausto, in fondo, non è poi così incomprensibile. Faceva leva sulla stessa parte inconscia, quella che aspetta sempre nell’ombra, la parte assassina che perfino le persone più miti portano con sè. Ed è questa la parte più sconvolgente: quelle persone che hanno fatto irruzione nella scuola non erano spietati serial-killer, nè torturatori di professione. Erano persone qualunque, che fanno la spesa, pagano le rate del mutuo e tifano per qualche squadra del cazzo. Si sono nascosti dietro la divisa per dare sfogo a quella parte che, solitamente, di solito tengono a bada come tutti noi.
In una scena del film, uno degli agenti discute divertito al telefono con la moglie del prossimo concerto di Ricky Martin –poco prima di dare vita a quella che lui stesso poi definì “macelleria messicana”. L’eclissi della ragione che si è abbattuta su quella sera è solo una mezza verità. Non erano ubriachi, non erano incoscienti: sapevano cosa stavano facendo, e la loro metà oscura, come la definiva Stephen King, stava dicendo loro come farlo.

Il tutto mi ricorda un esperimento di psicologia sociale degli anni Sessanta, dove si voleva studiare l’interazione di alcune persone con ruoli diversi, assegnati a caso. Un gruppo di volontari venne diviso in guardie e prigionieri, che dovevano recitare per pochi giorni, studiati dalle telecamere. Una specie di Grande Fratello, insomma.
L’esperimento venne sospeso prima del previsto. Si era visto che i finti prigionieri, calati nella parte, mostravano segni di depressione e abbattimento, mentre i finti poliziotti avevano cominciato ad essere violenti e vessatori nei confronti dei prigionieri. Ed era solo un gioco.

L’Es profetizzato da Freud si muoveva libero nei corridoi della Diaz, manganellando ragazzi con le braccia alzate, giornalisti, gente che non c’entrava nulla con niente, accanendosi, gridando, quasi ululando. Si parlerà di vendetta, ma quella non basta. Niente di quello che è successo là dentro può avere alcuna giustificazione logica.
In questo senso, è ancora più giusta l’indignazione per il fatto che, dopo 11 anni, i veri mandanti di quello schifo non siano stati ancora identificati e puniti. Loro erano fuori da quelle mura, erano quelli “a mente fredda”, e anzi sapevano bene cosa stavano andando a sguinzagliare dentro la scuola. Sono loro che, in tutta coscienza, lucidi, hanno premuto il famoso pulsante rosso. Sono loro che sono venuti la mattina dopo a spiegarci cos’era successo a telegiornali riunificati, a mostrare le finte prove, a insabbiare, a depistare, a mentire. Sono loro che continuano per la loro strada, impuniti, cambiando leggi e falsificando testimonianze. Sono loro che hanno fatto carriera, mentre i ragazzi della Diaz continuano a fare incubi.
Sono loro, che ci hanno governato con quel famoso potere sceso dal cielo.
Sono loro, che quella sera di luglio hanno scatenato il loro piccolo esercito contro un gruppo di ragazzi coi rasta, un’orda famelica che dimostrava che noi ammiriamo così tanto gli eroi perchè, forse, la vera natura dell’uomo, tolta la scorza, è quella del vigliacco.

No, non siamo tutti come quei poliziotti della Diaz, nè noi nè gli altri in divisa. Ma quella scuola è stata uno schermo su cui è stato proiettato tutto l’odio di cui l’uomo, in fondo a sè, è capace. Come la mettiamo allora con la parabola ottimista dell’uomo buono, dell’uomo che, anche nelle avversità, mantiene valori e affetti? Siamo davvero, come sosteneva il buon Sigmund, bloccati tra uno spirito primitivo, fatto solo di istinto, e un ideale che non potremo mai raggiungere? Cosa porta l’uomo a soccombere a quella parte di sè atavica e senza freni, e al contempo, cosa porta l’uomo a NON cedervi, qualora se ne presentasse l’occasione?
Cos’è che ci permette di guadagnarci quella U maiuscola davanti alla parola “uomo”?

Il discorso è lungo e complesso, religioni filosofie e psicologie ci si sono dedicati con risultati diversi. Questo film toglie un po’ di risposte di mezzo, lasciandoti solo in mezzo a troppe domande. Ti sfila di sotto le certezze sul nostro vivere civile, sulle nostre regole, sulla giustizia e anche sulla Giustizia. Toglie i vestiti a molte idee che avevamo e le lascia lì nude, in piedi contro un muro come quei ragazzi di Bolzaneto.

Perchè allora un persona dovrebbe pure pagare per assistere a tutto questo, per uscirne turbata com’è successo a me e alla mia amica, che ha pianto di vergogna per mezzo film?
Perchè sì, rispondo io. Perchè è importante e, come si suol dire, ci riguarda tutti. Perchè il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Perchè le certezze sono possibili sono dopo miliardi di dubbi, e anche allora sono solo di passaggio.
Perchè non bisogna dimenticare mai quello che siamo, e non dimenticandolo, possiamo lottare per essere persone migliori.
Perchè l’innocenza non è qualcosa che si perde, ma qualcosa che si può solo guadagnare –ma richiede tempo e sforzo.
Perchè uscire turbati dalla sala è segno che qualcosa pulsa ancora in voi, che non vi hanno tramortito l’anima, che siete ancora vivi. Ed è sempre bene controllare, di tanto in tanto.
Perchè l’animale non ha ancora vinto sull’uomo, ma per evitare che succeda bisogna stare sempre in guardia, bisogna riflettere e star male, bisogna portare avanti la propria personale rivoluzione, e non aver paura di ricominciare.
Perchè non deve vincere quell’Italia lì, quell’inconscio lì, quella gente lì.
Perchè essere uomini è un mestiere difficile, come diceva Hemingway, e solo pochi ci riescono.

Per tutti questi motivi, non perdete questo film.
E pensate, perdio pensate, non smettete mai di pensare.




martedì 2 ottobre 2012

Due matrimoni e un funerale


Ci eravamo incontrati all’interno del municipio, pareti di cristallo, aiuole fuori, macchinetta che distribuisce i numeri come dal salumiere, “stiamo sposando la coppia numero… sette”. La nostra coppia ancora non si vedeva, in ritardo come sempre. Dopo strette di mano e parole di circostanza, ci trovammo tutti a guardare fuori dalle pareti di cristallo, ma non c’era niente da vedere. Ci trovavamo a Parramatta, suburra dal nome ameno (e solo quello) a ovest di Sydney. Ricordai che qualche anno prima io e Mauro avevamo lavorato una sera proprio lì, a scaricare casse per uno stronzo e portarle alle macchine dei clienti e sudare nel freddo della sera. Adesso almeno la temperatura era più gradevole.
Nisha e Leon arrivarono più tardi, un po’ trafelati, sicuramente nervosi. Era il loro primo matrimonio, e questa non era solo una battuta: due mesi dopo la puntata all’allegro municipio di Parramatta, ci saremmo tutti ritrovati in India per le nozze vere e proprie, tre giorni di canti, balli e grandi bevute. Nel frattempo, ci accontentavamo di stare pigiati in una stanzetta soleggiata del municipio, su anonime panche di legno, in una stanza che sembrava stuccata da poco, agghiaccianti decorazioni ai muri ed una terribile musichetta in filodiffusione, che sembrava il sottofondo di un pessimo porno dei Settanta.
La celebrante –una donna filippina con occhiali spessi e un senso dell’umorismo stantìo- arrivò poco dopo, chiese allo sposo se voleva sfruttare quell’ultima occasione per darsela a gambe, chiese alla sposa se si rendeva conto che stava dando un bacio d’addio al suo nubilato, dopodichè cominciò a recitare tutto il pippone australiano di leggi, obblighi e doveri. Curioso, ma lì dentro di australiani ce n’erano ben pochi. Mentre la celebrante andava avanti con battute che –poco ma sicuro- rifilava ad ogni coppia, pensavo a quale forza invisibile aveva portato tutte quelle persone, arrivate dai quattro angoli della Terra, ad essere proprio lì in quel momento, per quel matrimonio. Cosa aveva portato me, italiano, a dover fare, tra qualche mese, il testimone d’anello di un ragazzo indiano, nel torrido inverno di Bombay? Forse la stessa trama nascosta che aveva portato loro due, provenienti da regioni, famiglie, caste così diverse, ad unirsi in matrimonio in un caldo pomeriggio di primavera in Australia.
Strinsi la mano della mia ragazza australiana pensando a questa forza oscura, alle coincidenze, al caso e a quel che di buono ogni tanto ne veniva.

Arrivai al cimitero di MacQuarie in ritardo. Colpa del traffico. Parcheggiai il motorino, poi andai a cercare un bagno. Mi sembrava una vita dall’ultima volta che avevo fatto pipì.
Aspettai che una donna cinese e suo figlio piccolo finissero e mi fiondai dentro. Dopo, attraversai più sollevato i vialetti del cimitero. Più sollevato fisicamente, almeno.
Non ero mai stato in un cimitero australiano, nè in un funerale. Il cimitero era ben curato, con tombe semplici e tenute in buono stato. C’erano vialetti ed indicazioni e perfino dei chioschi per comprare delle bibite o per pranzare. L’erba era tagliata, i fiori sempre freschi. Non immagineresti a cosa serve quel posto. La Morte ha tutto un altro modo di presentarsi, nei quartieri alti. Non sembra neanche Morte, solo un riposo temporaneo.
Una donna vestita di bianco –la divisa ufficiale di quella particolare agenzia funebre- mi guidò fino all’ingresso della cappella, mi fece firmare un registro e poi accomodare. La cappella era piccola, abbastanza nuova. L’interno sarebbe potuto essere confuso con quello di un villino sul mare. C’erano finestre aperte dalle quali entravano sole e sguardi di chi non aveva trovato posto all’interno. Anch’io restai in piedi, in fondo. Quella cerimonia nella cappella, già nel cimitero, era molto diversa da quelle a cui ero tristemente abituato in Italia. Mi ricordava molto quelle nel film americani, e solo allora mi resi conto di quante finte morti avevo visto nel corso della mia esistenza da spettatore.
Quella però, anche se non sembrava, era una morte vera, ed una di quelle più difficili da digerire.
Non c’erano inni religiosi, solo discorsi di chi conosceva bene la defunta. Sue, la madre della mia compagna, parlò con calore, raccontò storie e aneddoti, riuscì perfino a far sorridere teneramente alcuni nella stanza. Lei conosceva la defunta da 43 anni. Non riuscivo nemmeno a immaginare una tale quantità di tempo.
Alla fine della cerimonia la celebrante ci ringraziò e poi fece partire, per una strana ironia, “Viva la vida” dei Coldplay, la canzone preferita della morta, mentre le persone sfilavano via verso l’uscita. Mi passarono di fronte i figli piccoli in lacrime, poi la figlia più grande che sorrideva a tutti come se fosse ad una festa, come se fosse ovunque ma non al funerale della madre, e sinceramente mi si spezzava il cuore ad immaginare il momento nel quale sarebbe uscita da quello stato e avrebbe capito cos’era successo.
Uscì dalla cappella anche Sue, in lacrime, ed io le passai accanto senza dire niente. Non c’era mai niente da dire quando moriva qualcuno, e ancora di meno quando si trattava di suicidio. L’aria era già satura di tutte quelle cose che tutti avrebbero voluto dire ma non avevano detto perchè pensavano ci fosse ancora tempo, e di tempo ce n’era per tutti tranne che per la persona che aveva deciso di andarsene così.
Avevo le mie idee sul suicidio, idee che in quella mattina di sole così ferocemente bella sembravano ancora più inutili del solito, così come sembravano inutili un bel po’ di altre cose mentre la costosa cassa di mogano veniva portata da qualche altra parte e noi ce ne andavamo verso la zona rinfreschi, pieni di domande che non avrebbero mai avuto risposta.
Non mi era mai capitato, ad un funerale, di vedere in tutti, indistintamente, quell’espressione, a prescindere dal legame che avessero con la defunta –perchè una morte del genere ti spaventa e ti sgomenta, ti svuota, ti fa chiedere perchè anche se non ci parlavi da anni, ti smuove le certezze e ti lascia più nudo, più indifeso, più solo. Come quel cimitero e quella cerimonia, pensavo che certe cose succedessero solo nei film. Mi sbagliavo, ovviamente.
Ci sbagliavamo tutti in un bel po’ di cose, e nel notarlo ci sentivamo più umani.
Dopo la cerimonia il rinfresco, dove gente sconosciuta parlava e ingurgitava panini e tartine, e già l’atmosfera si rilassava ed io dovevo tornare al lavoro e montavo sul motorino perchè la vita va avanti, come si dice, e non ho mai capito se questa cosa dovrebbe sollevarci oppure farci incazzare ancora di più.

Quattro ore di viaggio in giacca e cravatta non le avevo ancora fatte, ma quel matrimonio era tutto una follia improvvisata. Non saprei come altro definire una cerimonia alla quale vengono invitati due tizi conosciuti (e per pochissimo tempo) dallo sposo 6 anni prima dall’altra parte del mondo, e che non si vedevano da allora. Ma intanto quei due tizi, cioè io e Mauro, correvamo (limiti australiani permettendo) verso sud, superando campi sconfinati e cittadine squallide e cieli blu fino a parcheggiare nel motel che avevamo prenotato a Jervisa Bay. Balzammo subito su un taxi, l’autista un barbabianca che parlava solo di football e rugby, e ci inoltrammo nel parco nazionale di Bodeeree. Il terreno si lavorò le sospensioni per una ventina di minuti tra gli alti eucalipti finchè non sbucammo verso una radura. Pagammo una cifra spropositata, scendemmo e alla fermata trovammo 3 canguri ritti sulle zampe, che ci fissavano in silenzio tra l’incuriosito e l’annoiato. Ne avevo visti molti, ma mai così da vicino. Filammo verso il luogo della cerimonia, un piccolo palchetto costruito tra gli alberi, proprio di fronte al lago. C’erano troppe poche sedie per gli ospiti, e tutti ci guardavamo strano. Non ci conoscevamo, e volevamo lasciare le cose come stavano.
Lo sposo arrivò. Io e Mauro non lo riconoscemmo, più invecchiato dei sei anni trascorsi, segnato come non ci aspettavamo. Ci sembrò di abbracciare un’altra persona, e lui era troppo nervoso per colmare quel gap tra noi. Si avviò pallido verso la celebrante e restò lì fissare il vuoto e a strofinarsi le mani. Un fastidioso vento cominciò ad alzarsi, giusto in tempo per l’arrivo delle damigelle d’onore e delle loro gonnelline gialle, così leggere nella brezza. Dopo l’arrivo della sposa, la gente restò a lungo incerta se sedersi o restare in piedi. Io e Mauro ci sedemmo e assistemmo alla mia terza cerimonia in meno di una settimana. Ecco quello che facevamo tutti: compleanni matrimoni anniversari, sempre a celebrare la vita più che a viverla e basta. Avremmo portato poi bomboniere e foto ricordo al Padreterno, per dimostrare che avevamo seguito il copione. Che fine aveva fatto la spontaneità? Forse era stata risucchiata tra una lista di nozze e il servizio fotografico in bianco e nero.
Ma questi sono pensieri del cazzo che mi vengono sempre in queste occasioni, e che comunque svanivano quando vedevo il sorriso solare della sposa, che guardava il nostro amico come solo una donna innamorata riesce a fare. Erano tutti e due innamorati, i genitori erano felici, gli amici applaudivano. Se ne sbattevano anche del vento che si stava alzando e che rendeva appena udibili le loro parole, costringendo la cerimonia ad una chiusura veloce.
Il vento, scoprimmo dopo, sarebbe stato l’ultimo dei nostri problemi. Stipati in un tendone trasparente battuto dalla tempesta, saremmo stati parcheggiati al nostro tavolo, seduti con perfetti sconosciuti, per otto ore e mezza di fila, intervallate da un’unica portata (peraltro nemmeno commestibile). In compenso, con tutto quell’alcol che ci avrebbero dato, la diffidenza della cerimonia sarebbe passata e tutti saremmo diventati amici eterni, fino ad addormentarci sul bus di ritorno coi canguri ancora piantati davanti alla fermata, a non spiegarsi perchè facessimo quello che facevamo.
Neanch’io sapevo perchè facevamo quello che facevamo. Ci avrei pensato anche il giorno dopo, sdraiato nella meravigliosa spiaggia bianca di Hyams Beach assieme a Mauro, un mare come nelle cartoline, il sole tutto per noi, i delfini che ci nuotavano davanti e la possibilità di giocare con discorsi seri e discorsi cazzoni, di permetterci pensieri profondi alternati a frescacce paurose, così come ci potevamo permettere di lamentarci di una cerimonia dove si era mangiato poco, dopo soli pochi giorni da un funerale per suicidio, perchè la vita era anche questa, la nostra sopravvivenza legata alla nostra capacità innata di andare avanti un metro alla volta, di concentrarci sulle piccole onde dell’esistenza per non restare travolti dai maremoti che ogni tanto, lo stesso, ci colpiscono. Pensare all’acqua fredda della doccia mentre esiste la fame nel mondo. Non è cinismo, se c’é sia l’uno che l’altro. Piuttosto, lo vedo come riconoscere la nostra limitatezza come esseri umani, con la ragione che non arriva a capire ed invece il cuore che arriva a sentire fin troppo, così tanto da non poterne più.
Allora in quei momenti devi pensare che tutto passa, esattamente come passerà quel sole fantastico là sopra e come sono passati problemi che sembravano infiniti. Devi pensare che, come Nisha e Leon, ci siamo trovati tutti per caso su questa Terra, ed è una gran cosa riuscire e cavarne qualcosa di positivo di tanto in tanto. Devi pensare che, come il nostro amico di 6 anni fa, invecchiare forse assume un senso se hai una donna che ti ama davvero accanto. Devi pensare che, quando sei morto, lo sei per un bel pezzo, e allora devi prendere tutto quello che capita, rinunciando a capire tutto, a spiegare tutto, a consolare, a curare.
Puoi solo dare delle pennellate che facciano capire, puoi aiutare, non mollare, puoi non smettere mai di provare. Puoi amare.

Non smettete mai di sporcarvi le mani con la vita.
Non ve ne pentirete.



lunedì 24 settembre 2012

Di felicita' e altre stronzate


Che cavolo sará mai questa famosa felicitá?
Chi segue il Morgana ricorderá che, qualche anno fa, avevamo posto la domanda agli abitanti dell’Hotel, ricevendo qualche risposta. Era un tema che m’interessava. Ci ho scritto alcune cose, anche qui sul Morgana. Ci ho scritto un racconto (che, essendomi io definito “scrittore in attesa di fama postuma”, necessita della mia dipartita per poter essere letto da tutti voi, insieme al resto della mia geniale produzione), Il racconto si intitolava “Vecchio”.
Chissá. Forse sono le domande che si fanno, appunto, le persone quando invecchiano. Da giovani non ce n’é il tempo, la vita detta i suoi ritmi, fa fare giri da montagne russe a mente e cuore, e si ragiona per estremi, cosicché depressione e felicitá si accompagnano in maniera quasi maniacale, e fortemente umana.
I vecchi, invece, di tempo per pensare ne hanno di piú, e quel tempo lo usano anche per farsi tristi bilanci, per farsi due conti in tasca e vedere com’é andata e come sta ancora andando.

No, non penso di essere vecchio, ma questo pensiero della felicitá mi viene ogni tanto a visitare. É un concetto etereo, vasto, difficile se non impossibile da definire. Ognuno c’ha la sua, o almeno dovrebbe.
Mi é capitato di pensare che, forse, ci sono tante persone infelici semplicemente perché si basano su un concetto sbagliato di felicitá. Come se qualche coglione avesse tirato una linea e stabilito che, di lí in poi, si é felici, ma prima no. Quell’idea di felicitá da film, quella felicitá patinata da lieto fine, le cose che girano tutte per il verso giusto, quella cosa che tanto volevamo che viene finalmente ottenuta, risate, titoli di coda, fine, pronti per stringere la mano al Padreterno e ringraziarlo.
Ci siamo fatti dare un modello per ogni cosa, anche per lo stare bene. Si é creata ormai una confusione spirituale tra ció che vogliamo e ció che crediamo di volere (o che ci hanno detto che dovremmo volere). Ogni etá ha i suoi obiettivi che si innalzano sempre piú, in modo da far sentire tutti piú o meno delle merde. Da lí in poi scatta la rassegnazione o la sfida. A pochi viene in mente che, forse, la felicitá non sta lí.

Forse la felicitá é per gli idioti, perché solo gli idioti possono permettersi di essere felici in un mondo come questo. Loro, che non vedono quello che li circonda, che il loro sguardo non va oltre le mura di casa. Loro con pensieri piccoli, tiepidi e banali, che bastano a sé stessi e dentro c’é tutto. Loro che non vogliono capire e prendono il tunnell della beata ingenuitá, che li porta dritti dritti al benessere senza troppe domande.
Magari le persone senza pensieri sono felici. Mangiano quando hanno fame, cagano quando hanno lo stimolo, scopano se devono, guardano la tv e vanno a dormire presto, senza sogni né incubi. Una vita che forse potrebbe sembrare agghiacciante, ma che sembra loro praticamente perfetta.
Di fronte agli artisti dei secoli, alle voci morte dopo essersi consumate sulle domande di noi tutti, loro sbadigliano. Di fronte ai grandi dubbi, ai perché, ai che cazzo, loro ruttano. E chissá, potrebbero avere ragione loro. Basta vedere quanto vivono a lungo.
Sul quanto vivono di questa lunga vita, é un altro discorso.

Una canzone di Vecchioni diceva “perché basta poi poco per essere felici, basta vivere come le cose che dici”. Una delle chiavi potrebbe essere questa: la fedeltá a sé stessi, la coerenza, la conoscenza di quelle pieghe della nostra anima che ci causano insonnie e cambi di umore. Il capire cosa siamo, che poi aiuta a capire anche che ci stiamo a fare tutti qui. Perché ogni volta che facciamo o diciamo (ed io ci metto pure: scriviamo) qualcosa che non ci appartiene, ci allontaniamo un po’ da questa nostra utopica felicitá.

Una delle frasette da diario che gira su Internet sostiene che la felicitá non é una meta, ma il viaggio stesso per ottenerla –che, come tutte queste frasette del cazzo, non dice niente ma suona bene. Nel viaggio sicuramente si puó scoprire di piú su noi stessi, e questo ci riporta al discorso di prima.
Ma nessuno, probabilmente nemmeno l’idiota di cui parlavamo, puó pensare di essere felice per tutta una vita. É impossibile, ma sarebbe assurdo anche se fosse possibile. Non siamo pronti ad una cosa del genere, sotto nessun punto di vista. Una felicitá completa ed eterna sarebbe aberrante, in quanto priva di ogni movimento. Non ci sarebbero stimoli, non ci sarebbe lotte, di conseguenza non ci sarebbero conquiste. Non ci sarebbe progresso, solo un ripetersi sempre uguale. Anche il piú massiccio dei sorrisi prima o poi deve scemare e spegnersi. Anche nella migliore delle giornate possono capitare degli scazzi.

Prendiamo l’amore (anche qui, lascio a voi ogni possibilitá di definizione). Quella sensazione che ti riempie finché non trabocca da tutte le parti, che ti fa sentire una scossa elettrica ai genitali. Che tutto sembra diverso dal niente che c’é di solito.
Sembra incredibile che due persone possano darsi questa sensazione l’uno con l’altra. Ma per quanto tempo? Se la danno ancora dopo 10 anni, dopo 20? Anche qui, le risposte sono aperte.
Mettete due persone nella stessa stanza. Potranno darsi un senso reciproco, riempirsi di colori e vibrazioni, oppure potranno farsi male l’un con l’altro fino a non poterne piú.
Nella maggior dei casi, le due persone in questione faranno sia l’uno che l’altro.
Con una temporaneitá del genere, dove tutto sembra contingenza, ha senso parlare di felicitá?

Se me lo dovessero chiedere (e dovessi basarmi anch’io su definizioni esterne), ripeterei quello che scrissi tempo fa: no, non sono felice. E lo sono.
O meglio. Da sempre, ho cercato di non fidarmi troppo di quello che mi dicevano sull’argomento. Ho ristretto il campo sempre di piú, finendo per identificare la felicitá con una giornata di sole che ti prende bene, con una passeggiata in riva al mare, con una festa di amici, con lei che ti guarda in quel modo da sa lei. Che novitá, direte voi, é quello che fanno tutti. Le piccole cose, di cui ho un profondo rispetto, e nelle quali ripongo la mia essenza, qualunque essa sia.
Le giornate di sole, che sono belle ma non sono tutte uguali, e di certune non ci si puó fidare troppo. Ho imparato presto ad esserne molto diffidente, a non permettermi di stare bene se prima non avessi avuto delle certezze totali. E visto che queste certezze non le potevo avere, preferivo una rassicurante quasi-felicitá (o tiepida infelicitá) piuttosto che correre il rischio. Che rischio? Di stare male perché avevo provato a stare bene. Anche io stavo prendendo la strada dell’accontentarmi.

Poi qualcosa é successa. Una persona, che mi é entrata in stanza ed ha aperto la finestra. Da quella finestra é entrato quel sole che avevo temuto per tanto tempo. É entrata aria, di cui facevo finta di non avere bisogno. Sei entrata tu ed eri tutto quello che non cercavo, e che mi era sempre mancato.

Non credo di sapere come ci si sente, a sentirsi felici, ma so che ho provato qualche cosa di simile, e la maggior parte delle volte, l’ho provato con te accanto.
Io continueró la mia lotta coi giorni di sole, coi miei fantasmi, i miei ricordi, con le mie paranoie, le mie definizioni distorte e i miei dubbi da non-idiota. Peró tu continua a far entrare luce e aria da quella finestra, per favore.
Qualsiasi cosa sia, mi sembra quasi di stare bene.
E ne sono felice.



domenica 9 settembre 2012

Le mie poesie

voglio farti sedere
versartene uno
e cominciare a leggere
a voce alta
e voglio farti capire
che le mie non sono poesie di
carta
ma vivono e respirano
usano mezzi pubblici
stappano birre
evitano di rispondere al
telefono
hanno tic e sogni
e cantano sottovoce
quando nessuno le
ascolta

le mie poesie hanno
barba lunga e jeans sdruciti
girano con occhi assonnati
e dicono troppe cose tutte insieme
fanno l’amore
hanno malditesta e manie
e quell’ombra di salvezza
in mezzo alle loro urla da
pazzo
alle due del
mattino

le mie poesie nascono in
qualche modo
e qualche volta non muoiono
ma restano li’, dietro il vetro
a vedere la pioggia cadere
il sole creare nuove forme
e tenere a bada
un intero mondo di parole
ancora tutto
da
dire.

Marco Zangari © 2012

mercoledì 5 settembre 2012

Morogoro, Tanzania

Morogoro è come un nuovo punto di partenza. Il primo è stato Dar, il secondo Zanzibar Town, ma qui sembra di essere entrati nella dimensione più selvaggia del Paese. La città si estende lunga una strada principale come ogni villaggio del posto. Dopo lungo percorrere nel fitto verde del territorio incontaminato, si apre uno spazio multicolore di banchi sulla strada. Da Morogoro si inizia il cammino verso il safari nel Mikumi Park. Dopo quattro ore di lungo viaggio in jeep, a tratti interrotto dai posti di blocco della polizia, arrivati a Morogoro, l'atmosfera cambia insieme al paesaggio. La lussureggiante vegetazione, ornata da palme e baobab, lascia il posto a una distesa secca di erba alta: la savana.
Morogoro è punto di partenza due volte; anche, infatti, quando siamo costretti a lasciare il Mikumi Park.
Lasciamo alle nostre spalle mandrie di bufali e gnu, famiglie di elefanti e antilopi, zebre e giraffe, ma soprattutto la soddisfazione di aver avvistato tre leoni nei soli due giorni che ci hanno preceduto.
Lasciamo il tepore del fuoco acceso davanti alla nostra tenda e il chiarore della luna piena nella notte, dopo ore al crepuscolo del sole in cui le ricerche del leone sono state vissute con la speranza di poterlo scorgere ancora. Maestoso, ai piedi di un albero, sotto una luce sempre più calda. Sempre più bella.
E, infine, lentamente poterci avvicinarvi.
Ripassiamo dunque per Morogoro e la gente ci fa le foto. I turisti qui non sono all'ordine del giorno. Il viaggio verso Dar diventa un lento ritorno al presente. Un ritorno alla dimensione metropolitana. La lentezza scandita dalle corse goffe delle giraffe, rallentate dal peso del loro collo, scema anche nella mia testa.
Torna l'odore di umanità alla vista delle donne intente a vendere pomodori sul ciglio della strada.
Rashid ferma la jeep per comprarne un sacco.
Loro sono pittoresche nel loro tripudio di colori e i loro pomodori sono il preambolo di un nuovo mondo, fatto di frutta e terre coltivate. Di villaggi costruiti con terra rossa e arbusti di baobab. Di piccoli, poveri centri di civiltà che dai confini della savana si estendono qua e là, fino al mare.

lunedì 3 settembre 2012

Dov'eravamo, dove siamo, dove saremo


Questa é una storia in due parti, che teoricamente non dovrebbe interessare nessuno di quelli che non mi conosce personalmente –e forse nemmeno loro. Non ne sono sicuro. Non sono nemmeno sicuro che sia una storia vera e propria.
Posso peró immaginare che la prima parte finiva con me in quella macchina che correva verso l’aereoporto in un tramonto infiammato, i finestrini abbassati e il vento che scompigliava capelli e ultimi pensieri e portava fino in cielo le note della colonna sonora di “Into the wild”. Avevo talmente tante cose per la mente che finivano per annullarsi, cosí chiusi gli occhi dietro le lenti scure e lasciai che “Rise” di Eddie Vedder mi portasse altrove, lontano anche da quel vento romano e dalle mie ultime ore in Italia per un bel pezzo.

Era il 2011, un anno pigro e feroce. Prima di quel momento, ce n’erano stati tanti altri, molti di questi pieni di dubbi, di strade chiuse, di piogge che cade e niente per ripararsi. Inverni troppo freddi, estati brevi e passeggere. Il gelo del cuore, finché un giorno il sole ci riscaldava il letto sfatto, e allora capivamo che eravamo sopravvissuti.
La primavera era qualcosa che ci gustavamo di nascosto. Erano state, per dirla alla De André, giornate furibonde, senza atti d’amore né calma di vento. Ci sfuggiva il senso di quello che stavamo –o non stavamo- facendo. Eravamo protagonisti di una storia che (ne eravamo certi) non sarebbe interessata a nessuno. Il libro di noi sarebbe rimasto sepolto insieme a centinaia e migliaia di altri esattamente uguali. Al mattino ci svegliavamo, ci strofinavamo gli occhi e toglievamo via un po’ di quella polvere secolare da libro abbandonato.
In quanto personaggi avremmo dovuto agire, fare cose, portare avanti un pensiero, impegnarci in azioni. Tutto peró veniva bloccato sul nascere. Quella cattiva stagione ci frustrava grandi atti ed eroiche cazzate, lasciandoci solo un retrogusto amaro e un malditesta da lunedí mattina.
Come storia non era molto originale. Gli ostacoli erano sempre gli stessi: il lavoro che non c’era e se c’era faceva schifo, i soldi che non c’erano, il futuro che non c’era. Nessuna differenza con le generazioni precedenti, in questo. L’unica era che non c’era piú distinzione tra risposte giuste e sbagliate. Ci avevano tolto pure quello.
Era una storia di tutti ma noi la sentivamo solo nostra, tenendoci stretto il proprio maldistomaco e dandogli nome e cognome. Intanto riempivamo le notti dei nostri discorsi, mentre ci riempivamo la gola di fumo e medie rosse.
Il risultato era che non c’erano risultati.
Per questo alcuni servivano pizze ai tavoli, altri si alzavano nel cuore della notte e persino il mio amico G.P, pittore, aveva smesso di dipingere. Avevamo tutti bisogno di un posto dove andare, ma sembrava che anche per quello servisse una raccomandazione.
Riuscivamo ancora a ridere, a sorridere, a sorprenderci –ma pagandolo sempre di piú, accumulando debiti per ogni nuova ingenuitá della quale ci concedevamo il lusso. Erano tempi di serrande abbassate e discorsi banali e niente eroi, ma noi non volevamo capirlo.
Una girandola di facce di voci di decisioni da prendere da subíre da rimandare, finché non fosse stato tardi abbastanza e l’alba non ci avesse dato tregua. Ma i problemi restavano lí, i problemi, i problemi...


La seconda parte cominciava con un aereo, e finiva allo stesso modo. Nel mezzo, c’ero io tornato in Italia, e tutti gli altri protagonisti della prima parte. In un modo o nell’altro ero riuscito a rivedere a tutti, a dividere con loro birre e pezzi di strada. A me era sembrata di averne fatta un po’, di strada, ma lo stesso i problemi non erano scomparsi. Stessa cosa valeva per gli altri.
In un film, tutto sarebbe filato liscio e ci saremmo fatti una risata in dissolvenza. Ma la vita decideva altri ritmi e fissava poste diverse, che non tutti riuscivamo a raggiungere. Molto banalmente, a volte un anno é solo 365 brutte mattine messe in fila.
Cos’era cambiato? Tutto, ma poi niente, se ci pensavi bene. Ed era questa la nostra forza. Niente era cambiato, e noi eravamo ancora lí, come se non ci fossero stati di mezzo aereoporti, voli, differenze di fuso, compleanni e lauree perse, Skype, incompresioni e scazzi e messaggi che ti fanno pisciare dal ridere mentre sei al lavoro e non dovresti.
“Ci sentiamo poco, ma quando ci sentiamo, ci sentiamo bene” dissi ad una mia amica a Roma, poco prima di ripartire ancora una volta. Lei capí, sorrise. Il mio viaggio stava nuovamente per finire, dopo che avevo guardato tutti in faccia, stando a sentire le storie di ognuno, contanto rughe e sorrisi da bambino. No, in un anno non era cambiato granché, e se capitava, piú spesso che altro le cose erano cambiate in negativo. Non avevamo l’impressione di stare andando verso un futuro radioso, non c’era stata restituita una virgola di quello che ci avevano fregato con l’inganno.
Ma riuscivamo ancora a giocarci le notti come volevamo, a fingerci ingenui ogni tanto, a farci qualche risata a gola piena, e perfino G.P. aveva ripreso a dipingere. Non gli avrebbe pagato il mutuo né risolto gli altri problemi, eppure era importante che lo facesse. Era importante tutto quello che loro facevano, e che avrebbero fatto in quel lungo anno davanti a noi.

La seconda parte finiva con me in un taxi coi finestrini abbassati, di corsa nel tramonto romano. Niente amici stavolta, né Eddie Vedder. Andavo di corsa perché mi avevano fregato, sopprimendo all’ultimo il treno per l’aereoporto. In quel Paese mi avrebbero fregato sempre con qualcosa, e sarei sempre tornato lí.
Se esiste qualche forma di amore, é questa.
Poi l’aereo, il bambino giapponese che mi si addormentava sul braccio, i controlli con gli occhi appiccicati dal sonno, le attese, i controlli alla dogana, infine il taxi verso casa.
“Che si dice in India, amico?” faceva il tassista, un etiope con occhiali da jazzista,
“Non saprei, dal momento che non ci ho mai messo piede. Sono italiano, io”
“See, vabbé, dicono tutti cosí” sorrise lui. Io non dissi niente ma chiusi gli occhi a quel sole caldo di un inverno freddo e strano. Ero tornato a casa –almeno, una delle case. Sentivo che era la fine di qualcosa, o l’inizio di un’altra –il che non per forza era legato.
Sentivo che la seconda parte finiva cosí, senza vincitori, senza morale, senza molto da insegnare. Ma restavano quelle notti piene di parole, le nostre speranze, restavano i dipinti di G.P. e quel modo che avevamo di andare avanti fottendocene di tutto, restava la voglia di continuare, di non chiedere mai permesso, di non lasciare che fossero solo due parti ma molte, molte, molte di piú.
E stavolta, per una volta, dipendeva da noi.
A tutti voi che mi mancate sempre, e siete sempre qui.
Alla prossima.

"Media rossa", Giancarlo Privitera 2011

sabato 18 agosto 2012

La nota di mezz'agosto


Quei biscotti erano cazzuti ma terrorizzati. Cercavo sempre di farli sorridere primadi mangiarli. Li giravo e rigiravo ma non ci riuscivo. E anche una volta mangiati, i loro resti ostentavano disperazione. Immagino cheè così che devono sentirsi molti uomini. Divorati da un qualche dio capriccioso che li aveva creati solo per assaporarli successivamente.
Possiamo dunque considerare il nostro corpo un comunismo perfetto, in cui ogni singolo elemento lavora per il tutto e ad usufruirne è il partito unico cervello, che coordina ed elabora l'IDEA. Alcuni uomini-biscotto ritengono che l'esser divorati da un dio-Morte significhi la Vita Eterna, una sorta di ricompensa assoluta; essi coniugano la trascendenza con l'idea del comunismo corporeo, e vedono nel Dio ingordo la realizzazione perfetta del loro esser stati. 
Siamo cibi per Dio. La nostra anima è la qualità del nostro essere cibo, e se ci plasmiamo come Dio comanda saremo a lui graditi e contribuiremo alla sua elevazione, qualunque dimensione essa riguardi. In caso contrario saremo biscotti scadenti, indegni di essere assaggiati, destinati alle pattumiere del paradiso, o magari nei cessi. Chissà se Dio evacua.
Insomma, perchè dovrebbe interessarmi essere più gustoso? Io voglio il comunismo adesso, non in Dio. 
E nel Capitalismo dell'anima spazio ai fedeli, comunisti della morte, e largo all'uomo deificato dal denaro. Tutti gli altri scelgano: il calore e la protezione del branco, o la vita selvaggia dell'intelligenza.
Ora dipende da te.

domenica 12 agosto 2012

L'attesa

sabato 11 agosto 2012

10 agosto: Un pensiero (blues estivo)

Un pensiero
alla ragazze sedute dietro
nei motorini d’estate
legate strette al loro
destino
di benzina, prodezze e
strade uguali
un pensiero ai ragazzi in posa sugli
scogli
a tuffarsi sempre
a pochi centimetri dal
futuro

Un pensiero
alle tv accese nelle
notti di afa
e nessuno a sentirle
un pensiero
alle macchine con lo
stereo a palla
ai cornetti che si
mischiano con la birra
ai sonni nei sedili dietro
la mattina
e alle albe
come fine alla
fuga

Un pensiero
ai sorpassi nelle
strade vuote
ai cassonetti pieni
uno ai cani in calore
alle ferie che non vogliono
arrivare
e quando arrivano
non bastano mai

Un pensiero
ai tramonti sul mare
alle coppie che tornano tardi la
sera
un pensiero ai nonni in canottiera
uno alle case di cittá
con le tapparelle alzate
e il sonno che
non viene

Un pensiero
ai messaggi mandati alla
persona sbagliata
quando il lido sta per
chiudere
alle chiamate senza
nessuno a rispondere
al sesso in spiaggia tra gli
ubriachi
ai balli di gruppo
alle seghe al ritorno
ai faló accesi
nelle notti nere sul
mare

Un pensiero
ai viaggi da fare
che finiscono sempre
davanti alle vetrine vuote
un pensiero
a cosa fare stasera
a cosa fare ogni sera
ai secondi che volano via
e conti da fare
dopo ferragosto

Un pensiero
ai locali giusti e a
quelli sbagliati
un pensiero
ai ragazzi che cercano di fare
colpo, agli uomini
che cercano di fare colpo
tutti in fila al bar
con l’abbronzatura
a coprire tutto

Un pensiero
alle gambe lisce delle
ragazze
a quel modo che hanno
di sorridere da sole
un pensiero
alla bellezza per forza
di questa stagione
alle chiacchiere da balcone
un pensiero
al ritmo di certe notti
alle canzoni come gli amori
che tutti provano a
dimenticare

Un pensiero
a quelli che tornano
persone da rivedere, cose da fare
la bomba del ritorno che
ticchetta
quelli che tornano
con carte d’identitá
a ricordargli chi sono
con cuori di madri in mano
a ricordargli da dove vengono

Un pensiero
ai cani nei parchi, stremati
dall’afa
ai puttanieri stremati dalla
vita
ai discorsi fatti
in coda in autostrada
alle cose sospese
in attesa di un
eterno settembre

Un pensiero
all’odore di mare
alle pisciate notturne
nelle strade vuote
un pensiero
al tutto da fare
e ad un’estate
che per tutti
deve
ancora
arrivare.

Marco Zangari © 2012




giovedì 9 agosto 2012

sicilsurfando


mercoledì 8 agosto 2012

7 agosto: 33

non c’é molto da dire
se non
che sono 33
e a 33 molte cose sono
state dette
e fatte
-o almeno, dovrebbero-
e sai che a 33
quando hai persone come
queste intorno
é qualcosa
e quando senti una certa santitá
nel loro amore
da tramonti caldi
da birre assieme
ti senti fortunato
e anche se guardi sempre
nel tuo abisso
sai che quantomeno
a 33 hai superato
Jim e gli altri
di buoni 5 anni
-nonostante le piogge
di quei 5 anni
tu puoi ancora
goderti il sole-
e a 33
non c’é altro da fare
che puntare Cristo
e
superarlo
col sole in
faccia.

Marco Zangari ©2012


lunedì 6 agosto 2012

5 agosto: Strade di citta' d'agosto


Strade di cittá d’agosto
poche auto, tutte
dirette altrove
e dentro ogni auto
una speranza di un’ora
un sogno di vino
una brezza in questa
notte immobile

Strade di cittá d’agosto
universo in sospensione
tregua sudore e sveltine di pace

Strade di cittá d’agosto
con le sue dolci bugie notturne
che perfino i barboni
sembrano passarsela bene

Strade di cittá d’agosto
ed io, vagabondo immemore
a calpestare la polvere
di questo deserto di neon,
bar vuoti
semafori spenti
ed un’ultima birra
prima di andare
via.

Marco Zangari © 2012

sabato 4 agosto 2012

life