venerdì 19 settembre 2008

Il rock non è morto, solo un po' orbo





L’altra sera ero qui a casa mia con Mauro. Erano le sette di sera e stavamo bevendo VB. Lui suonava, io ascoltavo. La musica andava e la birra scendeva, come sempre. Fuori era buio e io indossavo occhiali da sole. Qualche giorno prima avevo spaccato i miei, e in attesa dovevo girare per casa come fossi Ray Charles. Non vedevo un cazzo, ma ascoltavo e cantavo. Mauro faceva i pezzi che sapeva. A un certo punto si gira verso di me e dice “Adesso prova tu”.
“Io?” dico, indicandomi come se ci fosse qualcun altro lì.
“Dai, almeno prova” dice lui, e mi passa la chitarra, con quel gesto intimo e sozzo che è come voler prestare la propria ragazza al migliore amico.
Prendo la chitarra in mano e la guardo anche se non la vedo bene. Non ho il coraggio di dirgli che qualche giorno prima, di nascosto, avevo preso in mano la chitarra e avevo provato a strimpellare la mia solita “Leggero” di Ligabue. Per me suonare “Leggero” è come quando da piccolo facevi 2 per 2 sulla calcolatrice per vedere se funzionava. Quella volta non ha funzionato. La canzone è solo 4 accordi, e io non ricordavo nemmeno come cazzo si facesse il Do –e se non ti ricordi come cazzo si fa un Do, allora bello mio meglio che ti dai alla cucina o al giardinaggio.
Adesso ho di nuovo la chitarra in mano. Non suono ormai da più di un anno, da quando sono partito per Oz. Sono sicuro che non ce la farò nemmeno stavolta.
Però la birra è scesa bene, l’atmosfera è buona, il compare è qui e l’Australia è lì. Perchè no?
Attacco.
Do. Lo trovo subito. Viene fuori anche bene, senza quei boeinggg di rinculo di quando cominci a suonare per la prima volta.
Sol. Questo viene proprio spontaneo, dopo il Do. Voglio dire, hai fatto un Do, sarai certo capace di fare anche un cazzo di Sol, no?
Mi minore. Questo è facile. Ma già so cosa mi aspetta dopo, e comincio a temerlo.
Fa. Eccoci. Lo sapevo che non poteva durare. Di ricordarlo, lo ricordo sul momento –come quelle parole di una canzone che non senti da anni ma che è sempre lì, in qualche angolo dimenticato della tua testa. Il farlo, però, è diverso. C’è un barrè di mezzo, e a me il barrè mi veniva mica tanto bene anche prima di smettere.
Allungo il mio indice, ci metto la forza giusta, nè troppa nè poca, e provo. Va.
È andato. il primo giro è andato.
Il secondo va ancora più liscio. Al terzo smetto anche di guardare le corde e mi concentro sulle parole. Poco a poco, parole e musica escono tutte assieme, passando dalle stesse zone. Vibrano, in questa stanza di birra e sole. Mi lascio andare completamente alla canzone, e in quel momento anzi IO sono la canzone. Ci sono io, ci sono i miei ricordi, ci sono tutte le cose che ci metto dentro. Ogni tanto un accordo salta, ovviamente, e c’è qualche pausa di troppo, ma per il resto va tutto bene. Mi nascondo dietro gli occhiali da sole per non far vedere che sono quasi commosso. A chi suona –per sfizio come per vocazione- capitano momenti così. Sono illuminazioni breve, sono passeggiate tra le stelle e sesso con le nuvole. Non sei neanche più lì. Diventi una persona di carne e note.
Finisco il pezzo. Io e Mauro ci guardiamo, lo sguardo complice di chi sa che razza di puttana difficile sia la chitarra, e anche che meravigliosa geisha sia se la sai prendere dal verso giusto.
Sono in silenzio. Guardo la chitarra. Come ho fatto, 12 mesi senza?
“Un’altra?” dice Mauro.
“Un’altra” dico io. Sfoglio il canzoniere che si è portato dietro dall’Italia, e attacco. Ligabue, ancora. So fare quasi solo Ligabue. Non sono esattamente tipo da falò di Ferragosto, ma per una decina di minuti puoi anche fermarti a sentirmi. A me, quei 10 minuti bastano e avanzano.
Le canzoni scivolano. In un paio ho un sussulto strano. È come tornare indietro, e ritrovare qualcosa che amavi immensamente, e che non sai neanche perchè hai lasciato perdere. Ricordo tutto, perfino accordi come il Si minore 7. È come se non avessi mai smesso –e probabilmente è proprio così.
Penso alla mia Pam, la mia prima chitarra, che ha fatto una brutta fine, e le dedico “Non dovete badare al cantante”.
Nel mezzo della canzone sento bussare alla porta. Eccolo lì. Il coretto degli italiani ha rotto le palle al condominio australiano. Vado ad aprire, non realizzando che sono in occhiali da sole, di sera, con l’alito che sa di birra e ancora la birra in mano.
“Yes?” dico, mentre Mauro si nasconde per non scoppiare a ridere.
Lei resta un po’ interdetta, all’inizio. È solo rock’n’roll, baby, non avere paura. Alla fine ritrova le parole. Voleva chiedermi se il giorno dopo potevo spostare il motorino perchè deve fare un trasloco.
Mh-mh, dico. La saluto e torno in postazione. Verso un altro po’ di VB per me e un altro per il compare. Sfoglio il canzoniere, ne ritrovo un’altra delle mie. Schiarisco la voce con un po’ di birra. Mi sistemo gli occhiali da sole. Prendo in mano il plettro.
Ricomincio a scoparmi le nuvole.


1 commenti:

Anonimo ha detto...

...mi piace troppo leggere le tue parole... immaginarti li a cantare con il compare di sempre a ricordare giornate buttate via ed altre piene...
"..leggero..."
..un´amico una chitarra una birra e mille ricordi possono dare tanto...
non smettere mai...