giovedì 30 dicembre 2010

I ricci, le parole, tutto il resto

Metà settembre, caldo. Quello che notavi subito, negli uffici, era la gente che si muoveva a due all’ora. C’era un ritmo tranquillo, da bonaccia, rilassato, molto siciliano. Si chiacchierava, si prendeva il caffè, si fumava nonostante i divieti. Impiegati indaffaratissimi che camminavano con un foglio in mano, e per portarlo a destinazione si fermavano cento volte.
Il caldo appiccicoso faceva il resto. Io e l’altro tirocinante che era con me in biblioteca, rischiavamo di addormentarci. Si sentivano le mosche, il traffico fuori. Non era così che ci eravamo dipinti la vita dentro un Opg –o manicomio criminale, se avete visto troppi film.
Entrò il nostro “capo”, camminando piano piano anche lui, ci strinse la mano, parlò un poco di cose vaghe, lontane, pigre anch’esse, e poi se ne tornò ai suoi mille e uno impegni.
Eravamo ormai con la testa che ci cascava e la bavetta al lato della bocca, quando la porta si aprì all’improvviso ed entrò una matassa di capelli ricci, con sotto una ragazza alta, scura. Si tolse gli occhiali da sole, si presentò come Magda, la nostra coordinatrice, e cominciò a parlare. Parlò e parlò e, dio mio, parlò. Ci scuotemmo dal nostro torpore per cercare di cogliere almeno un decimo di quello che diceva. Le sue parole riempirono la biblioteca, così come i suoi ricci folli. Ad un tratto disse che sarebbe andata al mare e sparì. Io e l’altro ci sedemmo, un po’ storditi. Sembrava che avessimo ascoltato Magda per ore. Guardammo l’orologio, e scoprimmo che erano passati solo pochi minuti.
Finalmente qualcuno ancora vivo, pensai.

Magda ci convinse, quel pomeriggio stesso, a fare il nostro primo gruppo. Mi ritrovai ad entrare in un posto completamente nuovo, un ospedale con le sbarre, una prigione con gli infermieri. Mi sedetti accanto al mio primo ricoverato, e realizzai qualcosa che avevo cominciato a sospettare già quando studiavo, e poi sempre più mentre raccoglievo mango o servivo pizze: quella cazzo di facoltà non mi aveva insegnato niente. Ero uno psicologo, ma solo sulla carta. Avrei dovuto ascoltare mia madre e fare l’ingegnere, anche se avevo 3 in matematica. Mi ripetevo che la psicologia mi piaceva, che era la mia strada, ma in fondo che ne sapevo? Solo nomi, teorie, tecnicismi, autoreferenzialità.
Mi guardai intorno. Negli occhi dell’altro tirocinante trovai il mio stesso spaesamento. Allora guardai Magda. Se ne stava seduta al suo solito modo, le mani sempre impegnate a far qualcosa, il corpo plastico, rilassato, come se si trovasse in piazzetta. Anche la sua faccia era distesa. In mezzo, quel sorrisetto che i ricoverati conoscevano bene. Quel sorrisetto che sapeva smontare tutto in un secondo.
La guardai, e mi sentii subito a mio agio. Tutti, pensai, si sentivano così, in quel momento. Così mi girai verso il ricoverato e, invece di fargli domande freudiane sui suoi sogni e sui rapporti con sua madre, gli dissi semplicemente, Ciao, come va?
E funzionò.

In quest’anno ho dimenticato tutto quello che sapevo della psicologia (in ogni caso non molto), e ho imparato qualcos’altro. Non so se era paragonabile alla psicologia, ma m’interessava infinitamente di più.
Magda aveva un rapporto con i ricoverati che pochi professionisti potevano vantare. Sapeva farli ridere, sapeva accontentarli nel limite, sapeva soprattutto farli sentire umani. Non li chiamava mai “poverini”, non vedeva in loro delle vittime della società, non cercava di salvarli: proprio per questo, era una delle pochissime a trattarli con la dignità che meritavano. Il suo principio era la responsabilizzazione: era l’unico modo per farli tornare persone e non materiale di scarto, come ci suggeriva la gente fuori dall’Opg. Sapeva fare imbarazzare uomini grandi e grossi, scherzare fino a farli ridere col naso, e rimetterli al loro posto con una sola parola. Era una dura che ammetteva pochissimi sgarri dai ricoverati, e ancora meno da noi tirocinanti. Avevamo furiose discussioni, qualche volta liti. Lei stava lì da 4 anni, noi eravamo i pivellini di passaggio, eppure ne sapevamo di più, conoscevamo quel posto già dopo una settimana. Lei ci faceva fare, con l’aria di chi ne aveva visti tanti come noi, e sapeva che fine facevano quelli così. Poi, quando sbattevamo contro quel muro fatto di ignoranza, di regolamenti assurdi, di cinismo, di crudeltà aperta, di ottusità, era da lei che tornavamo sempre, e lei, come una mamma che la sa lunga (o meglio, una zia), ci risparmiava la parte del “te l’avevo detto”, e ci preparava alla prossima batosta. Sapeva che non avremmo mollato. Lei non l’ha mai fatto.

Di questo lungo anno ho mille ricordi, che farli stare tutti dentro il Morgana davvero non si può. Tra tutti, c’erano i nostri lunghissimi discorsi in quella biblioteca polverosa, discorsi sulla vita e il futuro, l’amore finito e quello da far cominciare, mentre il pomeriggio diventava sera, gli uffici chiudevano e restavamo solo noi e quelli che chiamano pazzi –e ormai non riuscivamo più a distinguere tra chi fosse cosa.
Dopo 4 anni diceva che niente ormai la poteva toccare. Non le ho mai creduto. Solo pochi giorni fa, nel parlare della morte di uno dei ragazzi lì dentro, aveva gli occhi pieni di lacrime.
Lì dentro era quella che faceva di più, e senza niente in cambio. Proprio per questo, sono riusciti a farla salire su una macchina diretta verso l’altra casa, in Svizzera. Nessun problema: lei va incontro ad una possibilità per ricominciare, e questa isoletta pigra e stupida ha perso una volta di più.
Quanto a noi, i “suoi” ragazzi, fa molto strano. Anche quando avevamo finito il nostro servizio all’Opg, lei era un riferimento –almeno per alcuni di noi, quelli che non si sono dimenticati. Per questo, da due giorni ci sentiamo un po’ più soli, in questo lavoro che già ti mette a dura prova. Come se dopo tutte quelle parole, ora fosse crollato un gran silenzio, che non sappiamo come riempire.
Quel tuo sorrisetto di traverso, sfottente, non mi perdonerebbe mai per questo post stucchevole. Ma tanto non ti vedo, quindi me ne frego.
E’ stato un onore. Buona vita e grazie di tutto, mate.
Metti quegli orecchini, e andrà tutto bene...

martedì 28 dicembre 2010

Il Grande Problema

Mentre aspettiamo
che arrivi il momento
in cui carriere, posti visitati,
donne scopate, soldi accumulati,
elezioni e ristrutturazioni
e partecipazioni ad eventi
sportivi
non conteranno più niente
dobbiamo farci vedere occupati
a risolvere il
Grande Problema

Ognuno lo fa a modo suo
il mio prevede una
discreta quantità di
fughe in bottiglia, giornate di
sole con mete vaghe, sessioni
d’amore ovunque capiti, lievi
malinconie, folli risate
qualche viaggetto
qualche serata decente
e un po’ di tempo
con una penna in
mano

Per attuarsi, il mio metodo
necessita di tempi
ragionevolmente lunghi
(finchè reggono
fegato & anima)
e si basa sulla coscienza
dell’impossibilità di risolvere
il Grande Problema
qualunque esso sia

Questo mi dà tempo e modo
di godermela almeno un po’
rinunciando a tutto
aspirando ad ogni cosa
e ridendo, ogni tanto, della
faccia seria che mi viene
mentre mi mostro occupatissimo
nelle mie soluzioni
inutili.


(Marco Zangari, 2010)

lunedì 27 dicembre 2010

Il bambino Assange e il cenone di Natale

Qualche giorno fa era il 24, tardo pomeriggio. I miei stavano preparando la solita quantità assurdamente eccessiva di cibo per la serata, le varie coppie del palazzo dove vivo stavano intensificando le liti e le urla che andavano avanti già dalla mattina (perchè a Natale siamo tutti più buoni), e anch’io mi apprestavo al solito cenone potenzialmente minaccioso di scene drammatiche, conti in sospeso e via dicendo. Mi è venuto in mente, allora, che dal mio “Non credo” avevo tenuto fuori il cenone di Natale, ma là forse la categoria sarebbe stata più “Mi sta sui coglioni”.
Questa lieta circostanza mi ha fatto pensare ad Assange. Che cazzo c’entra, direte voi, Wikileaks con quello che la mia prof di psicologia clinica definiva “la tragedia più grande di tutte”, cioè il cenone?
Forse niente, forse la mia mente cercava solo pretesti per essere ovunque ma non lì. Però Assange mi ricordava quei ragazzini che capitano ogni tanto in queste cene –sapete, quelli che con due parole sputtanano tutto e tutti. Ragazzini svegli, con le orecchie sempre pronte a captare quello che si dice in cucina e riferirlo in salotto (e viceversa), ragazzini magari stronzi, che lo fanno per tornaconto, per cattiveria, per noia, o anche solo per disinnescare quella grande bomba di cazzate che è il Natale in famiglia.

Ogni famiglia ha i suoi scheletri, le sue brutte storie, i suoi odi profondi, i suoi istinti quasi omicidi, e poi una bella facciata di stucco per far finta che tutto va bene, che i soldi ci sono, che l’amore non ha mai lasciato quella casa, che i genitori credono nei figli e viceversa. E’ un equilibrio al tempo stesso esile e massiccio, perchè anche le altre famiglie si reggono su questo funzionamento. Basta quindi un piccolo tocco, un soffio, qualcosa di imprevisto, e tutto crolla con effetto domino, trascinandosi via finzioni, recite, maschere.
Il bambino Assange (che sarebbe piaciuto un sacco a Pirandello) ha fatto questo. Non ha scoperto niente di chissà che, in fondo. Niente che non immaginassimo già, comunque. Ma un conto è immaginarlo, un altro è saperlo. Gli Usa complottavano contro l’Iran? Il Vaticano copriva i preti pedofili? Lo zio Renato è un alcolizzato che picchia la moglie? E bè? Dov’è la notizia?
La notizia è che è tutto vero. Che gli Usa, il Vaticano, lo zio Renato, non possono più negare. Che tutto quel teatrino dei pupi, quelle finzioni, sono state smontate. Ed è bastato un attimo. E’ bastato un bambino con le orecchie rizzate al momento giusto. E’ questa la vostra diplomazia, il vostro granitico, impenetrabile mondo occidentale? E’ questa la famiglia che dobbiamo onorare?
Il bambino Assange parla, con quel sorrisino, e a tavola ci sono momenti di imbarazzo. La zia Piera e la zia Giovanna, che siedono accanto e fanno gran vista di volersi così bene –ma la zia Piera sa cosa dice di lei la zia Giovanna? E la zia Giovanna sa che la zia Piera le ha fottuto quell’eredità, anni prima? E della casa in campagna, quella da dividere tra i fratelli ma di cui uno di loro già s’è impossessato, ne vogliamo parlare?
Le convenzioni, le formalità, tutto un SISTEMA che andava avanti da sempre, crolla come una scoreggia loffia.
Che fare? Si minimizza, ci si scherza sopra. Le notizie finiscono in fondo al telegiornale, vicine agli incassi del cinepanettone. Vengono ridimensionate, date a pezzetti, snaturate. La zia Piera fa una risatina isterica, chissà che dice quel bambino, eheheh, non ci cerca nemmeno di NEGARE, o di spiegare, è tutto troppo evidente (quella notizia che NON fa notizia), allora si parla della prossima portata, della prossima estate, di vacanze al mare, di ricordi, di prezzi, di calcio...
Se poi il bambino Assange proprio non vuole saperne di tacere, allora si cerca TUTTI INSIEME di stroncarlo. Ma tu, non è che a scuola non stai facendo il bravo per ora? Ma siamo proprio sicuri che poi Babbo Natale ti porterà quella bici che avevi chiesto? Perchè le bici sono solo per i BIMBI BUONI, lo sai...
Il bambino va avanti. La bici viene nascosta, forse per sempre. Le donne violentate cominciano a fioccare, ora in Svezia, domani negli Usa. La priorità ora è di isolarlo. Nessuno parla più con lui, se le circostanze costringono a rivolgergli la parola, lo si fa di malavoglia. Lo sguardo che comunque gli gettano tutti dice una cosa, universale: tu questa la paghi. Tra le finte risate che ricominciano COME SE NULLA FOSSE, con la recita che riprende vigore, tutti pensano: non finisce QUI. Più tardi, quando sarà solo nella sua cameretta, allora...
Il bambino Assange lo sente. Che avesse o meno uno scopo nascosto, subdolo, ora è tardi. Ha detto la verità troppo forte, si è FATTO SENTIRE, e ha scoperto che questo non si deve fare –non a Natale, non nel nostro Paese. Isolato, abbandonato (ma, purtroppo per lui, NON dimenticato), vede questa buffonata andare avanti –ancora più ridicola, grottesca, perchè è stata smascherata, e con questa maschera calata sulla faccia, che lasciava intravedere l’odio, il cinismo, gli interessi, fa ancora finta di essere buona, disinteressata, nobile. Si continua a sapere e ignorare. Ad accettare cose terribili in silenzio, e ad indignarsi per minuzie in pubblico.
Il bambino Assange. Mi viene da pensare che ce ne vorrebbero di più, come lui, ma poi devo lasciar perdere questi discorsi e cominciare a prepararmi. Metto il mio vestito più costoso, le scarpe più belle, il sorriso più falso.
Sono pronto per il mio Cenone di Natale.
Auguri!

giovedì 23 dicembre 2010

24 dicembre



Strade
quelle di quasi Natale
qualche idea da regalare
ore gonfie di rumore
facce vuote, tasche piene
mani fredde, congelate
che si sente bestemmiare
pure i muri
di paese

Strade
quasi un vizio stagionale
il viaviai a un confessionale
e di prezzi andati a male
le commesse, le vetrine
sempre pronte a luccicare
come fossero comete
come fosse
come fosse il tre d’aprile

Strade
un concerto da cortile
tutto giacca e niente stile
solo gente da evitare
nei contorni, nelle rime
la vigilia di Natale
tra presepi, orsoline e
una donna
una donna da chiamare

... e si aspetta mezzanotte
tra i ricordi, corde rotte
e si aspetta mezzanotte
tra i ricordi, corde rotte

(Cappello a Cilindro)

martedì 21 dicembre 2010

Non credo

Ho avuto delle discussioni ultimamente –negli anni. Così, anche se nessuno me l’ha chiesto, ecco le cose a cui NON credo:

Visto che si parlava di certe discussioni, non posso che cominciare col grande classico: non credo al vostro Dio, e nemmeno ad uno in particolare. Questo non vuol dire che non mi ponga il problema, che non ci pensi. Credo che l’uomo abbia sempre avuto bisogno di questa idea, e anche questo mi spinge a non dare il mio agnosticismo per scontato. In ogni caso, non credo che a questo Dio importi molto cosa faccio di domenica, se io e la mia ragazza scopiamo prima del matrimonio, o dove mi trovo la notte di Natale.

Questo fa aprire un altro corollario: non credo alla Chiesa, qualunque essa sia, perchè creazione dell’uomo, suscettibile a cambi culturali, storici, a varie prese per il culo, superstizioni, ingerenze terrene e lavaggi del cervello. Non credo che un tizio ingioiellato, che va in vacanza d’estate e a sciare d’inverno, abbia qualcosa a che fare con la fede. Non credo che chi rifiuta qualcun altro solo perchè omosessuale, possa venirmi a parlare di amore.

Altro corollario: non credo che il fatto che vuoi farmi ingoiare per forza il tuo Dio possa fare di me una persona di fede, o faccia di te una persona più pia, quindi dacci un taglio, ok?

Poi, più generale:

Non credo nei confini tra i Paesi: ognuno dovrebbe fare un po’ il cazzo che gli pare, fintanto che rispetta quelle regole.

Non credo nella musica alta: se piace a te, non vuol dire che debba piacere anche a me –quindi per favore, abbassa quel cazzo di stereo...

Non credo nel volontariato e nella beneficenza, non perchè non servano, ma anzi, proprio perchè non ne basta mai. Il fatto che funzioni e persone FONDAMENTALI siano completamente affidate alla possibilità di trovare persone di buon cuore, che lo fanno GRATIS (mentre paghiamo un portaborse di un politico 4.000-6.000 euro al mese, per dirne una), è assurdo. In un sistema che funziona, non ci sarebbe bisogno di volontari o donazioni.

Non credo nei soldi. Ne capisco il valore, so cosa vuol dire avere la scadenza dell’affitto e niente in tasca, ma non ci credo. Non credo che, quando ne ho, sono una persona migliore –ma ovviamente quello che mi vende le birre la pensa diversamente...

Non credo che il sesso sia tutto, ma penso che, senza, non si vada da nessuna parte. E’ una parte, e importantissima. L’amore senza sesso è un morto che cammina. L’amore senza BUON sesso, comincia già a puzzare.

Corollario: non credo a tutti i giochini mentali che si accompagnano al sesso. So che veniamo da un’educazione cattolica, che al nostro senso di colpa ci teniamo troppo, eccetera eccetera, però fanciulli, il sesso è sesso, punto (e in questo si include il fare l’amore, ovviamente, che è la versione extra-deluxe del sesso). Se lasciate la cosa così, semplice semplice, avrete una notte da ricordare davanti. Se però cominciate a metterci in mezzo la vergogna, l’imbarazzo, la morale, i genitori, i vicini, i preti, i futuri figli e nipoti, e cosa diranno, e cosa succede, e patapim e patapam, allora è meglio se vi siete pure noleggiati un dvd, per passare la serata.

Il sesso è un momento di divino. E’ una risata. E’ divertente, cazzo. Dovrebbe esserlo. Non credete?

Corollario: non credo a chi inorridisce davanti alla masturbazione –di fronte alla sola parola, MASTURBAZIONE. Se siete così e vi piace il sesso, vuol dire che vi trovate meglio in presenza di altri che di voi stessi. Non è una cosa molto carina, non vi pare?

Corollario: non credo esista cosa più bella del corpo femminile. Ma questo sono io.

Corollario: non credo sia vero che le dimensioni non contano. Insomma, se ce l’hai proprio piccolo, mi spiace per te amico, ma meglio che ti dai ai tulipani. Stessa storia per i precoci, ma per loro ci sono ancora speranze. Non mollate, amici miei!

Non credo nella morale, di NESSUN tipo. La stessa parola, non mi dice niente. Cos’è morale, ora? Cosa lo era 10 anni fa? E cinque minuti fa? Non fatemi ridere. Anzi, fatemi ridere, perchè ora che ci penso...

Non credo a chi non ride MAI. Questo non vuol dire che sia un fan di quelli che girano con un sorriso imbecille piantato in faccia tutto il giorno. Però uno che non sorride MAI, a meno che non abbia buone ragioni, mi puzza.

Però è anche vero che non credo a quelli che vogliono che si RIDA tutto il tempo. La tristezza, l’incazzatura, nei loro limiti, arricchiscono. Chi ne ha paura è solo la persona dai finti sorrisi, che, se ci fate caso, finiscono sempre un po’ storti e stonati. Chissà come mai...

Non credo nelle cose accettate, credute, amate od odiate a prescindere, senza averle MAI messe in discussione. Questo va dal voler bene a mamma e papà al votare per la stessa faccia, a fare un certo tipo di lavoro. Se ogni tanto non ti guardi allo specchio e non ti fai qualche domanda marzulliana (dandoti magari qualche risposta nuova), quello lì che vedi resterà sempre uno sconosciuto.

Non credo in Fiorello, perchè lui, come altri, è responsabile di aver portato avanti una cultura vecchia. Come quando ascolti qualcuno dei NUOVISSIMI gruppi emergenti in classifica, o NUOVISSIMI cantanti, e ti viene da pensare, ma io questo l’ho GIA’ sentito da qualche parte...

Non credo nella musica di Vasco Rossi, o di Ligabue. Non credo che tutti abbiano tante cose da dire. Alcuni ne hanno un tot, dopodichè è finita. Loro hanno finito da un pezzo.

Non credo che Baricco sia un bravo scrittore, non credo che gli scrittori che studiamo a scuola sapessero tenere in mano una penna, non credo che il Nobel dica qualcosa di rivoluzionario. Ah, quasi dimenticavo:

Non credo nell’arte. Ma questo voi lo sapete già.

Non credo a quelli che non si fanno mai una birra. Non credo ai giovani, così come ce li vogliono vendere. Non credo potrei mai avere qualcosa da dire ad un berlusconiano.

Non credo nella bontà per forza.

Non credo che questo sia il migliore dei mondi possibili, anzi non credo nemmeno che questo sia un buon mondo. Anche se, ogni tanto, ha le sue serate buone.

Non credo che questo Paese meritasse gente come Falcone e Borsellino.

Non credo nella filosofia del BENEOMALE: beneomale ce l’abbiamo fatta anche quest’anno, beneomale abbiamo un lavoro, beneomale ci sposeremo. Un’approssimazione dopo l’altra, un accontentarsi e farsela passare per cosa incredibile. Avete mai pensato che la vita può essere meglio di così?

Non credo a Paradisi o Inferni, non credo al Bene o al Male.

Non credo nella gente, intesa come massa. Non mi piace, non mi ci trovo a mio agio. Le masse sono quelle che si macchiano dei crimini più violenti, e tutti possono uscirne con la faccia pulita.

Non credo nei libri di Storia. A malapena mi fido di quelli di Geografia.

Non credo che chi legge tanto sia più intelligente, o che uno che scopa parecchio abbia risolto tutti i problemi (anche se sicuramente se la spassa).

Non credo alla celebrità. Non credo al telegiornale, o alle facce che vedo in televisione. Non credo a chi parla difficile, e nemmeno a chi la vuole fare troppo semplice.

Non credo ci sia stato qualcuno più grande di De Andrè.

Non credo al politicamente corretto. Non credo che siamo tutti uguali. Non credo a chi ci vuole tutti nello stesso modo, vestiti uguali, con gli stessi modi di agire e reagire. Non credo ad un mondo come un carcere.

Non credo nella giustizia, anche se ci spero, ogni tanto. Non credo a chi parla di dolore e non si è mai trovato sul baratro. Non credo che una persona che ha passato le cose più terribili ne esca sempre rafforzata, o anche solo una persona migliore.

Non credo agli E-book, alle feste programmate, ai corsi universitari, a chi è pronto sempre a rompere il cazzo agli altri e non si fa mai un serio esamino di coscienza.

Non credo che un lavoro mi definisca come persona: definisce solo il mio bisogno di pagare l’affitto in un mondo dove i posti a sedere erano tutti occupati.

Corollario: non credo che la mia macchina dica qualcosa sulle dimensioni del mio pene. Anche perchè ho una macchina molto piccola, quindi...

Non credo che spostarsi risolva tutti i problemi, ma spesso ti fa capire come poterlo fare. Non credo che puoi dire di sapere davvero com’è, se non dai un’occhiata profonda a quello che c’è là oltre l’orizzonte.

Non credo che il sole scacci tutti i guai, ma meglio della pioggia è.

Non credo che a qualcuno importi un cazzo di questa mia lista. Non credo che mi risponderete, anche solo per mandarmi a quel paese, ma mi piacerebbe lo faceste. Non credo che capiate quanto mi faccia godere scrivere queste stronzate.

Non credo sia giusto continuare (nonostante potrei farlo per ore), quindi mi fermerò qui. Credo.

domenica 19 dicembre 2010

Volevo dirti che...

Di solito funziona che uno agisce, e che se poi l'altro non approva/non capisce allora chiede spiegazioni. Non sempre le ottiene. Non sempre, quando le ottiene, ne è soddisfatto.

Ora il fatto è che tu mi piaci. E che ho desiderio di passare tempo con te, costruire qualcosa -un sistema,un meccanismo qualunque- che mi dia la garanzia (anche illusoria, per carità) di poter stare più spesso con te. Detta così è la cosa più semplice e bella del mondo. E non dovrebbe mai essere diversa da com'è detta così.

Mi piace fare le cose semplici, con le persone con cui desidero stare. I complotti, i giochi d'astuzia sofisticati preferisco vederli al cinema mentre mangio pop corn e accarezzo la coscia di una ragazza.
Il resto, la vita, quella con TE, lo voglio semplice.
Quindi non farò come si fa di solito. Resisterò alla tentazione di agire (di reagire) e ti darò le spiegazioni direttamente, in anteprima speciale. Finché ho le parole, le userò per prevenire gesti che poi magari non potrei spiegarti.

Volevo dirti che sono FRAGILE. Che il fatto che io parli di più, che rida di più, che sappia essere malizioso con la metà del tuo impaccio, non vuol dire niente. Io ho paura, tanta. E ho un'enormità di dubbi che mi assillano alla porta. Il citofono è un rumore continuo. Dal balcone li guardo in fila al portone del palazzo. Spio dall'occhiolino delle scale la loro massa pressata contro la mia ultima barriera. Li guardo in faccia. Molti li conosco uno a uno per nome.
Li tengo fuori e ci parlo. Dico loro di darmi tempo, di darmelo per pensare e per vivere. Ogni tanto, specie quando sono solo, ne faccio entrare qualcuno e lo faccio sedere al tavolo con me. Ci raccontiamo di noi davanti a una bottiglia di rosso.
Sono FRAGILE, è questo è il significato e l'ultimo senso di questa email.
Non dico che tu pensi il contrario o che non l'abbia mai pensato. Dico solo che forse non te l'ho mai detto così.

La mia sola forza è l'entusiasmo. È la voglia di fare. Nei bisogni così come per i desideri. E tu sei decisamente tra i secondi, il più forte di tutti.
Anche io ho le giornate "un po' così", in cui mi perdo il presente per un motivo o per l'altro. Magari perché mi manca troppo il passato o il futuro. Magari perché non c'è il sole, o magari perché è un po' che non scopo.
Sono i miei momenti, e Dio solo sa quanto è bello lasciarsi sedurre dall'essere improduttivo e/o distruttivo. Ma ho imparato che le persone che voglio vicino subiscono gli stessi eventi. E non per loro, ma in primis per me -che le vorrei sempre al meglio quando le cerco- MI IMPEGNO per resistere. Per pensare positivo, per vivere con entusiasmo. Costa un po' più di fatica e attenzione, ma rende la vita infinitamente più piena. I "momenti così" ti danno un'affascinante malinconia che però riempie solo un vuoto, specie se non ti porta mai verso l'esterno.

Ti voglio bene, sono innamorato di te. Ma ho paura di tutto.
Parlami, avvicinati. Stringimi e dimmi che ci sei anche tu.


Edo

mercoledì 15 dicembre 2010

Gentile Sig. XXX

Gentile Sig. XXX,
le scrivo questa email dopo aver ricevuto una telefonata di mio zio che mi ha dato il suo indirizzo. Mi ha detto che lei magari può trovarmi un lavoro.
Devo confessare che, nonostante la crisi di cui si sente parlare e nonostante quello che ho imparato nella mia tragica esperienza come giovane disoccupato in cerca, credo che lei possa trovarmi un'occupazione. Magari non c'è, ma chissà che allora non la tiri fuori dal suo cilindro come fosse un gioco di prestigio. Sono sicuro che un numero del genere è nelle sue corde. E questo mi fa anche un po' paura.
Ad essere sincero non mi sento affatto felice per questa cosa. Per questa lettera che le sto scrivendo, intendo. Mi sento imbarazzato, abbastanza a disagio. Mentre le scrivo, penso che forse non dovrei mandargliela questa lettera. Forse dovrei mandargliene una diversa, una di quelle che magari è abituato a ricevere. Una di quelle dove si saluta con calore una persona che non si conosce affatto, dove si cita l'influente persona in comune e dove si descrive brevemente le proprie caratteristiche, inonando il tutto con l'aggiunta di enormi qualità personali e l'orgoglio di essere un candidato imperdibile per qualunque azienda.

Già, ma quale orgoglio?

Mi viene in mente, Sig. XXX, che se in fondo io devo ricorrere a lei forse il lavoro non me lo sono meritato. Per qualcuno potrebbe essere un ragionamento stupido, e lei forse penserà che sono un grandissimo idiota. Be' guardi, non sarò io a dire di no.
Ma alcune considerazioni mi portano a riflettere.

Ho messo annunci sul web, ho stampato volantini, ho chiesto agli amici, ma lei non c'entra nulla con tutto questo. Lei è entrato nella mia vita come un fulmine a ciel sereno, come un regalo di Natale che però non era nella mia lista di richieste. E non è che ci siamo imbattuti casualmente per strada, il nostro incontro non è frutto nemmeno della sorte. Il nostro incontro, non se ne abbia perché lei appunto non c'entra niente con tutto questo, NON HA NULLA A CHE VEDERE CON ME.
Certo è che di un lavoro io ne ho bisogno, e lei rappresenta una potenziale risorsa.  Ecco perché mi genera una non indifferente lotta interiore. Dovrei cogliere l'attimo, dare un calcio alle palle all'orgoglio, annientare quel senso di decenza che mi appartiene. Fatto questo, io sarei a sua completa disposizione. Eppure non le nascondo che ho qualche difficoltà, a farlo. Non mi riesce facile leccare il culo a qualcuno, figuriamoci a uno sconosciuto come lei.
Già, perché io non la conosco. Io non so proprio un bel niente di lei. Non so cosa fa la domenica dopo pranzo o per quale squadra tifa, non so che faccia abbia, se sia un cinquantenne calvo e rugoso con l'alito cattivo o se invece è un sessantenne strafigo che non dimostra più di quarant'anni. Ma lei, sig. XXX, ce l'ha dei figli? E che lavoro fanno? Gliel'ha trovato lei nell'azienda di famiglia? No, non ci trovo nulla di male. Cazzo, sono i suoi figli! E se vogliono lavorare nell'azienda di famiglia buon per loro.
Ma il punto è proprio questo: io non sono suo figlio. Io non la conosco. Non conosco il suo aspetto, il suo carattere, le sue imprese, E lei non conosce me. Forse non ha nemmeno sentito mai parlare di me. Forse mio zio mi ha dato i suoi contatti ma non l'ha ancora avvertita. Funziona così, tra managerZ...
Non sono stato nemmeno io a cercarla. Nemmeno indirettamente. Non ho chiesto a mio zio di aiutarmi. Non gli ho detto niente, a mio zio. E benché la mia situazione non sia top secret agli occhi della mia famiglia, non mi sono rivolto a nessuno dei miei parenti.

Qui forse è il caso di darle una spiegazione veloce.
Se cerco lavoro è solo perché voglio andare via da qui. Non dico "per diventare autosufficiente", io voglio un lavoro e dei soldi per "poter andare via e non guardarmi più indietro se non quando lo vorrò io". Non so se è chiaro. E allora immagini che il lavoro, l'anello mancante tra la mia realtà disagiata e la realizzazione del primo di una lunga serie di sogni, me lo trovi qualcuno che fa parte di persone con cui non vorrei più avere a che fare. Bella roba, eh?
Magari lei potrebbe. Magari lei pensa di consigliarmi di fare buon viso a cattivo gioco, di prendere e mettere in banca che qualcosa torna utile comunque.
No, non ci siamo capiti. Io non ne sono capace. Credo che nella vita di ognuno ci siano cose che si possono tralasciare e cose che devono essere nette, perché hanno a che fare coi bisogni primari. E quello di andarmene da qui, di chiudere e -al limite- riaprire alle mie condizioni, è il più primario dei bisogni. Viene assieme alla fame e alla sete, all'impellenza di svuotarmi l'intestino o la vescica.

Insomma Sig. XXX, io questa email non volevo nemmeno mandargliela; che senso ha avuto scriverla? Forse gliene scriverò una versione più "sobria", o più "falsa", faccia lei che in questo caso è lo stesso. Le scriverò un'email dove a parlare non sarò io, e le parlerò di un'altra persona ancora. Un tipo che è la migliore risorsa del mondo, solo che il mondo ancora non lo sa.
Magari da quell'email arriverà un'occupazione, e crederemo di essere tutti felici. Magari, chissà, saremo felici davvero. Magari ci incontreremo per un colloquio informale in un bistrot a Milano, con la scusa di un aperitivo. Magari mi piacerà moltissimo e diventeremo grandi amici. Potrei addirittura pensare di sposare una sua figliuola, se ce l'ha, e -perché no- entrare anch'io nell'azienda di famiglia. Potrebbe nascere di tutto, dall'email sobria che comincerò a scriverle non appena avrò finito di scrivere questa.

martedì 14 dicembre 2010

14 dicembre 2010

Mi ero ripromesso di non parlare più di Lei, qui nel Morgana. Non ne valeva la pena. Oggi però ci sono cascato ancora. Eviterò almeno di nominarla, e userò la terza persona non per formalità o rispetto, ma solo per mantenere le distanze.
Ci tenevo a sottolineare subito una cosa: io non ce l’ho con Lei. Non provo odio nei Suoi confronti, non la giudico migliore dei suoi predecessori, e sono certo che in futuro vedremo ancora dei bei campioni. Non penso che Lei sia la causa di tutti i mali, che tutte le cose che non vanno in questo Terzo Mondo travestito da Ricca Signora sia da addebitare a Lei. Non ho mai pensato che quelli che si spacciavano per Suoi avversari fossero il Bene, e lei solo il Male. Non credo, soprattutto, che una volta che Lei non sarà più sulla scena politica, i problemi magicamente spariranno.
Sarebbe facile, consolatorio, ma è proprio questo il gioco della politica. Parlare di ideologie, di schieramenti, di idee, ormai non fa neanche più ridere. Non metto in mezzo i concetti di amore e odio, come spesso ha amato fare Lei. La faccenda è stata già banalizzata, volgarizzata, sputazzata abbastanza, per quanto mi riguarda.
Non La odio, io. Se qualcosa del genere lo provo, è solo nei confronti della Sua Italia. Lei non è lì per caso, lo sappiamo. Lei si meritava questo Paese, e questo Paese si meritava Lei. Vi siete amati per 16 anni, probabilmente lo farete ancora, in un rapporto perverso fatto di corna, bugie e urla, di quelli dove la Vittima entra nella parte e torna, torna, torna sempre.
L’Italia si meritava uno come Lei, perchè Lei era tutto quello che questo Paese voleva. Non è stato un caso. Non m’importano i motivi per cui lei è sceso in politica –anche perchè non credo esista nessuno più che lo fa per qualche ideale lontano dal conto corrente. Lei è stata la persona giusta al momento giusto. C’era voglia di nuovo, ma che fosse nuovo solo all’apparenza. Agli Italiani, Lei lo sa bene, piace vedere sempre la stessa cosa, sia in tv che nella vita. Non amano le sorprese, forse perchè, sotto quell’aria da sole, mandolino e grandi sorrisi, sono dei pessimisti che si aspettano sempre qualche temporale.
Lei è arrivato e ha saputo interpretare il ruolo dell’Italiano per Eccellenza: in un paese di furbetti, Lei è stato il più furbetto; in un paese sempre più arrogante, cafone, devoto alla fica, ai soldi facili, incurante degli altri, trafficone, maleducato, ottuso, caciarone, ignorante e strafottente, Lei li ha bruciati tutti. Era giusto che stesse lì. La Sua Italia, però, non è la mia. Non è quella che mi è mancata mentre ero dall’altra parte del mondo, non è quella di cui mi parlava la gente emigrata, non è quella dei miei nonni; ma è quella che ogni volta mi accoglie all’aereoporto con spinte, gente che salta la coda, personale sgarbato, stronzi che urlano stronzate al telefonino; è quella che parcheggia in seconda fila bloccandomi la macchina e poi vuole anche ragione; è quello che salta il turno e non si gira nemmeno a guardare; è quello che getta la sua merda dal finestrino, tanto ci sarà qualcuno a raccogliere. E’ l’Italia che evade, quella raccomandata, quella che prega e poi fotte il prossimo, che guarda Vespa e chi s’è visto s’è visto, che ha più fondi per le auto blu che per la cultura. E’ un Paese che non si stupisce più di niente, che gli fanno le cose peggiori, lo prendono a calci in culo, lo sfottono davanti, e lui niente, impassibile, invecchiato, stanco, abituato a tutto. Un Paese che un giorno caccia via a colpi di monetine uno come Lei, e anni dopo gli dedica una via a Milano. Dove le bombe esplodono e le domande restano sempre senza risposta.
E una risposta non si può trovare se non la si cerca nemmeno più, non Le pare? E’ questo quello che Lei ha fatto a quest’Italia. Ha suonato il Suo flauto, l’ha addormentata, e mentre dormiva ha fatto quello che doveva fare. Ci stiamo ancora riprendendo (ma sarà poi vero?) dai danni causati dall’ultimo dittatore che abbiamo avuto, più di 60 anni fa. Quanti anni ci metteremo a riprenderci dai danni che sta causando Lei a questa Italia? E non parlo della monnezza, dei tagli, dei miracoli mai avvenuti. Intendo i danni CULTURALI, ficcati ben dentro la mente della gente. Per quanto ancora, dopo di Lei, continueremo a fare i furbetti, i vecchi porconi, gli arrivisti, gli arroganti? Quelli che vogliono tutto e subito, che se ne fottono, basta che hanno una particina nel Grande Fratello? Quelli che non sanno fare niente e vogliono diventare famosi proprio per questo? Quelli che appaiono e basta?Quando torneremo ad essere Italiani Brava Gente (semmai lo siamo stati?).
Oggi ha vinto quest’Italia. Anche il metodo utilizzato per vincere, sono sicuro che non ha fatto scandalizzare troppo i suoi molteplici elettori.
Eppure c’è anche un’altra Italia. Non rumorosa, o forse solo numerosa come la sua, ma c’è. E’ l’Italia che sale sui tetti, che protesta, che cerca di far sentire civilmente la sua voce. E’ l’Italia che ha spento la televisione, che non segue la sua squadra, che non legge i suoi giornali, che non compra le sue pentole. E’ l’Italia che non La odia. E’ l’Italia che non la vede nè come un eroe nè come un mostro, ma solo come uno dei tanti (che colpo terribile al Suo ego!). E’ l’Italia che avete cercato di strangolare, di etichettare, di zittire, ma che riesce sempre a farsi sentire.
I libri di Storia che scriverete saranno pieni dei vostri trionfi. Questa Italia, quella sana, quella che ancora è viva, non ci sarà, perchè non sopporterebbe l’idea di trovarsi nella stessa pagina con uno come Lei. Ma basta cambiare pagina, per cambiare tutto.
Capita, qualche volta.
Distinti saluti.

giovedì 9 dicembre 2010

musica?

http://www.myspace.com/themasturbones

RINASCITA???

Sono davvero felice, cazzo. Sono così felice che potrei farmi una sett....ehm due giorni in crociera coi miei.
Perché? Perché questo Morgana ogni tanto si riprende. Perché arriva una folata d'aria fresca, o perché qualcuno di "quelli che leggono nell'ombra" a un certo punto esce da quella tana e interviene e dice la sua.
Questo è il senso di una comunità. Non vi piace "comunità"? Neanche a me. Continuiamo a parlare di Hotel, allora. Mi piace che non ci siano solo sfoghi singoli dalle proprie stanze, grida che ti svegliano nel cuore della notte. Mi piace che ogni tanto ci si ritrovi un po' nella hall, a discutere. A parlare di quelle grida, o anche solo a dirsi "Hai sentito quel coglione che urlava, l'altra notte?".
In fondo stare in un albergo dovrebbe essere proprio questo. Parlare ascoltare discutere, magari al bancone un po' sbronzi, senza mai prendersi troppo sul serio. Non facciamo finta di niente: siamo un albergo, non un condominio.
Un abbraccio a tutti.
Edoardo.

In risposta ad un post: Parlando di Arte durante una difficile Digestione, in un Giorno particolare

Mi siedo, ancora in fase di digestione, e cerco quel che ho da dire. Apro i canali dalla testa alle dita, senza che nè l’una nè le altre ne sappiano niente.
Riguardo il post di Edoardo ( http://hotelmorgana.blogspot.com/2010/10/un-prodotto-di-qualita-e-la-migliore.html), mi trovo d’accordo sul fatto che la sciatteria di un prodotto di questo tipo è inaccettabile. O dai il massimo sempre, bello, o meglio che il culo non lo muovi da casa. E sicuramente, non mi devi far pagare per le tue stronzate.
Sul book-on-demand, non ho molto da dire. Se pensi di aver scritto qualcosa che il mondo DEVE leggere, e sai già che di pubblicazione vera non se ne parla, allora perchè no? Ma quello è un problema tuo –così come lo sono i tuoi quattro figli, il tuo SUV e la tua passione per la musica house. Finchè io non devo averci niente a che fare, ne sono ben felice.
Sull’e-book (non citato nel post) ho un’altra idea che però non vado ad esporre perchè sono, come detto, ancora in digestione.
Per quanto riguarda il commento di Ex-tension –ebbene sì, io sono quell’amico lì, quello che corregge e ricorregge quel libro. Mi fa piacere quello che dici. Sì, ho la sensazione che lo sto migliorando, ma forse mi piace solo pensarlo. Peggiorarlo è difficile, ma sempre possibile.
E poi parli di arte, dell’artista. Però c’è un problema. Parli dell’artista che si è rinchiuso nel suo eremo, che non comunica, che non deve spiegare, e poi sei tu il primo ad usare un linguaggio sofisticato, elevato. Per carità, io sono un purista (e un rompipalle) della lingua italiana, che amo fino alla perversione –ma qui non parliamo di SAPERE, ma di COMUNICARE.
Ed ecco il punto: l’arte come COMUNICAZIONE. Non è tutto qui, ma è in questo che io ne vedo il valore ultimo. L’arte, in sè e per sè, non esiste. Non vuol dire niente. Ciò che è arte da una parte, è merda (e a ragion veduta) dall’altra. L’arte che non RIESCE a comunicare, è morta. L’artista che sa tutto, tranne come comunicare la sua arte, è spacciato.
Poi su questa comunicazione se ne può parlare. Qualcuno ha detto che non si può non comunicare, e mi trovo d’accordo, ma con l’arte entriamo in un’altro campo, ci sono in ballo troppe cose, abbiamo tirato troppi fili, teso troppe trappole, inventato troppi termini, troppe scuole, troppe definizioni, abbiamo ingrassato troppi critici, e quello che ci troviamo davanti è un’arte che non riesce più a dire niente.
Noi stessi non siamo più abituati ad avere davanti un’opera d’arte che sappia comunicare qualcosa: ecco perchè per vedere uno spettacolo ci affidiamo alle recensioni, per vedere un quadro leggiamo la guida. Non c’è immediatezza del messaggio, non c’è spontaneità. La pubblicità ti dice che la merda è buona da mangiare, e tu il giorno dopo ne compri un etto e mezzo e te la fai al forno.
Se poi continuiamo a dare merda alla gente e loro si abituano e se la fanno piacere, possiamo poi fargliene una colpa?
Un mio amico pittore non sarà d’accordo, ma l’arte, per me, non è tutta uguale. Puoi sapere utilizzare le parole, i colori, lo scalpello, e questo fa di te un buon artigiano, ma NON un artista. Non stai dicendo niente, per quanto lo stai facendo in modo tecnicamente ineccepibile.
In questo non sono d’accordo con te, Ex-tension: l’artista NON deve spiegare. Più tempo, anzi, se ne sta lì nel suo eremo, e meglio è per tutti, sia per la sua arte che per chi ne usufruisce. Lui non deve agli altri niente di più che la sua opera. Parlare di arte può essere divertente, fino ad un certo punto, ma chi fa arte deve limitarsi a questo: ci penseranno gli altri, ad istituire accademie e Coppe del Nonno.
L’artista ha detto tutto quel che doveva con la sua opera, punto. Non deve rettificare, spiegare, non deve aggiungere, non deve fornire un contesto. Quando i colori sono asciutti, quando il file Word è salvato, allora da lì in poi sarà il pubblico a decidere se e come prendere quell’opera. Credo alla COMUNICAZIONE più ancora che all’immortalità. Un artista che sa dire qualcosa è, IN POTENZA, un rivoluzionario, uno che fa saltare Poteri e Mondi con un verso. Non vedete che forza, che energia, che vita c’è in tutto questo?
Poi magari quello che l’artista ha da dire è risibile, stupido, banale. A quel punto è il momento dei pomodori, dei fischi. Ci stanno, il pubblico pagante si è guadagnato anche quel diritto. Un pubblico pagante e PENSANTE, però: quanti perfetti imbecilli osanniamo perchè qualcuno ci dice che sono grandi geni? Quanta gente con le palle quadrate nasce e muore nell’ombra perchè il SISTEMA-ARTE (e non la sua arte, badate) lo ha schiacciato nell’ingranaggio?
Con questo libro ho cercato di dire delle cose: forse le ho dette male, forse le cose dette, in sè, non valevano molto per gli altri. Per me, valevano abbastanza da farci un libro. E così ho fatto.
Bah. Scendo dalla mia cattedra –che ci si sta scomodi- e finisco di digerire. È l’8 dicembre, un giorno strano. Balconi con luci schizoidi appaiono nelle colline buie. Rumori di feste, nessuno per strada. Penso scriverò una poesia. Ho delle cose da dire. Qualcosa resta sempre in fondo al barile. Come le dirò, poi, è un conto in sospeso tra me e questa notte di festa e buio.
Buonanotte.

lunedì 6 dicembre 2010


mercoledì 1 dicembre 2010

UN CAZZO DI LUPO DI MARE

Certe volte ci passi i giorni, senza trovare qualcosa da dire. Quello che alcune notti sembra un fiume inarrestabile e inesauribile, all'improvviso si prosciuga. E tu dagli, a cercare l'acqua nel deserto. Lo giri in lungo e in largo, sempre più frenetico, col solo risultato di far arrivare prima la sete. Ti danni l'anima dal mattino alla sera, affondando nella sabbia. Poi crolli esausto e quando il sole ti sveglia, il giorno dopo, capisci che potrebbe anche essere l'ultimo. Le riserve sono finite, e il calore ti toglie le idee. Ti guardi intorno, ma tra il nulla e i miraggi non c'è nessun posto che ti offra riparo.
Crolli di nuovo, incerto sul fatto che riaprirai gli occhi ancora una volta.

L'unico senso è resistere. Sopravvivere nei momenti peggiori. Garantirsi un futuro, magari migliore, e preservarsi in vista di esso.
Domani un fulmine può prendere il ferro della tua spina dorsale e scaldarlo di nuovo, e tu devi avere almeno la forza di battere un colpo. Da lì, scintille di vita illumineranno tutto l'intorno. Da lì, una nuvola di vapore farà tornare la pioggia.

Gocce che uniscono polvere e sabbia, terra e mare, e di colpo sei di nuovo in balia della corrente.
E ora hai i remi, hai la barca, hai la vela che sventola. Nessun orizzonte è irraggiungibile, nessun porto ti fa più troppa paura. Sei un cazzo di lupo di mare, e guardi quei fulmini con gli occhi di sfida. Sei Dio, tra le onde. Il deserto giace milioni di leghe sotto di te. E non ti manca per niente.

"La vita non ci dà mai le cose come le vogliamo. L'importante è che ce le dia".

Edoardo

martedì 30 novembre 2010

LA FINE DEL MONDO

Lascio Carpi, e qualche secondo dopo il fischio anche la luce lascia la pianura. Sono circa le 16, e qui è tutto talmente piatto che il sole non può già essere tramontato.
Sono nel regno della nebbia. Qui comanda lei. Comincia a dissolvere i contorni delle cose e a mangiarne i colori.
Io, a bordo di questo serprente di ferro, le striscio in seno senza paura ma un po' rassegnato.
In una manciata di minuti cielo e aria sono dello stesso grigio, resiste solo il verde del prato più prossimo al finestrino. Mi domando se saprà affrontare anche il freddo e l'umidità, prima di cedere alla notte.

Non credo che la temperatura sia molto più bassa di quando sono partito questa mattina, eppure in mezzo a questo grigio basta lo spiffero di un finestrino che non chiude bene, a farmi sentire insicuro. È qualcosa che non capisco, è un brivido che non controllo e che forse non mi appartiene nemmeno. Mi sento stanco, provato, vagamente agitato. Mi sento un po' grigio anche io.
Anch'io, come questo prato che scorre tutto uguale a sinistra, vorrei solo chiudere gli occhi e addormentarmi, per riaprirli al primo giorno di sole.

Sono 8 ore che viaggio, e non vado al bagno né bevo da questa mattina. A Modena ho mangiato un panino che in fondo nemmeno volevo, di fronte a una chiesa per me senza nome. Non è l'istinto, bensì lo spirito di sopravvivenza, che mi prende la mano e la fa frugare nello lo zaino.
Un mandarino.
Ha un colore fortissimo, un arancione così deciso e splendente che sembra il frutto di un altro pianeta. Non ha niente a che fare col grigio, col prato, col treno. Forse nemmeno con me.
Allora lo mangio. Ne faccio un solo boccone e tengo le bucce raccolte nei palmi, sotto il mio naso.
Chiudo gli occhi e non sento più freddo.
Chiudo gli occhi e sono da un'altra parte.
Chiudo gli occhi e penso a una storia che scrissi a un anno da qui.

venerdì 26 novembre 2010

L'ottavo viaggio

Fino a quel punto
avevo viaggiato solo
coi miei con la scuola
con amici
per andare da un posto
all’altro
mi ero spostato per
lavoro, perchè dovevo
fare una cosa
per vedere qualcuno
per fare il
turista
per andare in
vacanza

poi quella volta
decisi di partire
senza meta, progetti
panini o valigie
non ricordo nemmeno se
feci il biglietto
-andai per andare

lungo tutto quel tempo
non visitai nessun museo
non scattai foto
non andai in nessun posto
tipico
nè feci le cose che
andavano fatte per
forza
non controllai mai
l’orologio
non pensai mai a
casa

non mi sembrò che la gente
che incontravo
fosse migliore o peggiore
di quella che già
avevo conosciuto
non pensai al domani
non tradussi i sogni
nella mia testa
non avevo fretta
non smisi si avere pregiudizi
non smisi di essere curioso

fu l’unico vero viaggio
che feci in tutta
la mia vita

e ancora
deve
finire.

(Marco Zangari, 2009)

domenica 21 novembre 2010

...sì è sabato sera. E allora?

Non immaginerai mai da dove ti sto scrivendo.
...
Niente, eh? No, macché treno per Milano, macché Iphone. Sono a casa, in bagno. Nella vasca da bagno, per l'esattezza. Sì, proprio così. Me ne sto immerso fino al collo nell'acqua semi-bollente (Dio solo sa come ho fatto ad entrarci) e ti sto scrivendo. Sì, lo so che è sabato sera. E allora?

Preferisco starmene qui, tutto nudo allungato in un liquido che mi ustiona il 90 per cento del corpo e mi fa sudare a dismisura quel poco che avanza, la faccia.
Però mi sono attrezzato, ho il notebook a portata di mano. Per adesso va a batteria ma forse tra un po' dovrò attaccare il cavo della corrente.
Sto scrivendo, niente di più. Dopo leggerò un racconto che mi è arrivato via email e forse dopo ancora mi sparerò...un film. Naaa, cosa andavi pensando! Ok, concordo sul fatto che la descrizione della mia situazione possa far pensare alla scena di un imminente suicidio, ma ti assicuro che non ne ho la minima intenzione. Non sono in vena di gesti estremi, ho imparato a farne a meno. Certo a meno che non ritieni rischioso, secondo la tua valutazione, che io mangi un po' di cavolo cappuccio ben condito mentre faccio il bagno e scrivo. Sì, me ne sto nudo nella vasca con il pc davanti e una scodella d'acciaio con del cavolo cappuccio al mio fianco. Qualcosa in contrario? Convengo con te che non si tratti di un bello spettacolo, e che non sia tutta colpa del cavolo cappuccio, ma tant'è.
Stasera non ci sono per nessuno se non per te. E ho il cellulare e il cordless a portata di mano, ci fosse un'emergenza.
Perché solo il cavolo cappuccio? Perché ne avevo voglia, principalmente. Al discount è stato amore a prima vista, anche se in realtà ci sono andato per prendere due birre. Le birre sono un altro motivo per cui sto qui solo col cavolo. Le ho tracannate a casa di un amico guardando una partita di calcio, e per mandare giùla birra ho mangiato un chilo di patatine e una roba come dieci noci. Un paio di noci le ho rotte schiacciandole tra loro nella mano, come faceva mio nonno quando ero piccolo. Quando sono rientrato a casa mi sentivo ancora in gola una presenza mista di patatine e noci, quindi ho lavato e tagliuzzato un quarto di cavolo cappuccio. L'ho condito con un po' di peperoncino in polvere, e poi aggiunto aceto, olio e un pizzico di sale. Devo dirti che è davvero una bontà. A proposito, hai mai pensato all'enorme stronzata di mangiare verdure cotte perché "la verdura fa bene", ma poi quando la cuoci distruggi tutto il suo apporto vitaminico? A me certe cose mi lasciano senza parole. Un po' come quelli che fanno la comunione e poi augurano la morte al primo che taglia loro la strada usciti da messa. In un panorama come questo, l'immagine di me nella vasca da bagno a scrivere e mangiare un'insalata ben condita di sabato sera non è poi così allarmante, non trovi?

Ti chiedi se non avevo niente di meglio da fare? Non lo so, e onestamente non è che me ne frega granché. I telefoni sono davanti ai miei occhi, per le emergenze. Se non ci sono emergenze, adesso sto bene così. Ora te la faccio io, una domanda. Hai mai pensato a quanto è fantastico prendersi del tempo per sé?
Non voglio dire che uscire, andare a bere e a ballare, incontrare amici o farsi una scopata non possano essere considerati modi eccellenti per impiegare il tempo, anzi, beato/a te se stai facendo una di queste cose che desideri. Il punto è che io, che agisco sempre un po' affidandomi all'improvvisazione, ho scoperto per caso che questa era la migliore serata possibile. Il resto, se mi va, lo farò un'altra volta. Forse persino domani.
E poi di persone che vorrei vedere ce ne sono. Ma alcune forse non vogliono vedere me, altre non possono. Un amico sta vedendo Harry Potter al cinema, un altro è in Sicilia e dalla vasca mi resta un po' fuori mano. Un'amica non è ancora tornata dall'Argentina, mentre un'altra è oltremanica. Altri sono qui, qualcuno ha forse persino suonato il citofono, ma io sto troppo bene qui al buio. Sto così bene che a tratti posso chiudere gli occhi e immaginare di essere ovunque. Argentina, Sicilia, Inghilterra...

Perché scrivo? Che tu ci creda o no, sappi che a volte sento l'esigenza di scrivere. Hai visto che parolone? Esigenza. Per alcuni è il sesso, o vedere la Roma, per altri è il cibo o la droga. Per alcuni è leggere, o navigare senza meta. La mia invece è quella di scrivere. Sappi però che questo non fa di me nulla. Non fa di me uno scrittore né tantomeno un bravo scrittore. Di me fa solo uno che ogni tanto, mentre vive la sua vita normale, comincia a infastidirsi se non è riuscito a scrivere qualcosa.
Magari quel giorno ti svegli con la luna storta e credi di aver dormito male, di aver avuto un incubo o di aver mangiato pesante la sera prima. Te la prendi col cane, se ce l'hai, e fai un po' l'antipatico con l'amico e la ragazza. E invece tutto questo non c'entra niente. A un tratto butti giù qualcosa, anche solo due righe, e stai un po' meglio.
Chi me lo fa fare, mi dirai tu, e la risposta è che non-lo-so. È così e basta. E non è che ho una scadenza, un vero e proprio programma da portare avanti. Nessuno mi ha chiesto di farlo e non ho commissioni. Le uniche cose che mi vengono chieste, in termini di scrittura, sono le dediche dei regali di natale. Ma lì vado forte davvero. Niente male, eh?

Sai qual è la cosa difficile nella mia attuale situazione, qui nella vasca? Io non ci avrei mai pensato. È muovermi. Proprio così. Fatti i conti col sudore e coi rumori della strada, il difficile è muovermi. Intendo senza fare danni, naturalmente. La scodella col cavolo è sul piano della tazza, alla mia destra. Il blocco di appunti si regge per miracolo alle mie spalle, in bilico sul lato corto della vasca. Il notebook, che nel frattempo si è ciucciato metà batteria, invece è poggiato su una tavola di legno che è poggiata sul bordo lungo. Un vero casino. Prima a momenti facevo un patatrac per prendere un paio di forchettate di insalata. Il segreto è fare movimenti lenti. Il minimo errore comporterebbe un danno che andrebbe dalla caduta del cavolo a terra, con conseguente lavoro di pulizia con straccio & co., al tuffo del notebook nella vasca con me. Romantico, forse, ma decisamente non auspicabile. Pensa, in un attimo quello che ti sto scrivendo sparirebbe, insieme alle altre centinaia di cose già scritte che stanno ad ammuffire (informaticamente parlando) nel disco fisso. E se cadesse dopo aver attaccato la corrente per ricaricare la batteria? In un solo istante morirei io e sparirebbero molte tracce della mia esistenza.
Sono d'accordo, che brutti pensieri! Avevo anche detto che oggi non volevo nemmeno morire! Eppure nella vita c'è sempre qualcosa che non va come credevi, caro/a mio/a. Mi verrebbe da aggiungere "per fortuna", ma in questo caso la fortuna sarebbe al massimo quella degli altri.

A proposito di fortuna, tanti auguri per la tua serata, di qualunque tipo essa sia. Io me la sto già godendo.

In foto Lenny Kravitz (volevo mettere qualcosa che non c'entrasse niente con me)


PS:
Vabbe' però adesso mi sono stufato. Mi asciugo e vado a farmi un'ultima birra.

giovedì 18 novembre 2010

Ciao, maledetto ciao

Ciao piccola,

in questo momento sei di là e... in questo momento sei di là, basta questo. Basta, perchè non lo potrò dire più per un bel pezzo. Basta e avanza.

In questo momento sei di là, e siamo già alla fase dell’isteria, quella in cui ridiamo per tutto, soprattutto cose che non fanno ridere –che oggi sembrano includere praticamente tutto. È sempre così, man mano che l’ora si avvicina. Lo so, lo sai, lo sappiamo. Sentiamo l’agitazione nell’aria, e cerchiamo di pensare che sia qualcosa di positivo, quando in fondo di positivo non c’è niente, assolutamente niente.

Non è la fase dell’isteria che mi spaventa, e nemmeno quella in cui guardo fuori dal finestrino andando verso l’aereoporto, dando un addio mentale alla mia seconda casa. Non è la fase del check-in mano nella mano, ma è quella subito dopo, quando quella mano resta vuota.

Il momento in cui entri agli imbarchi è terribile. È come se tutto quel tempo ti fossi detto una bugia ininterrotta –non è vero, non può essere vero, non sta succedendo a me, questa partenza non è reale- e adesso capisci che è tutto vero, che non sta capitando a qualcun altro.

La cosa che ti fa realizzare tutto questo, in maniera istantanea e dolorosa, è la tua mancanza. Da quel momento in poi, tu non ci sei più. È questo che mi fa sentire solo, mi fa sentire straniero, mi fa sentire a metà –tutte cose che ho già provato, specie quel sentirmi sempre a mezz’aria, ma qui tutto è amplificato. Le orecchie mi risuonano delle tue parole, delle nostre risate, e intorno si crea il silenzio anche se sono circondato da gente. In quell’attimo lì mi sento intontito, perso. In quell’attimo ritrovo tutti i ricordi di questi mesi, che improvvisamente si fanno lontanissimi ma abbastanza vicini da fare male. In quell’attimo il respiro si fa difficile, e mi viene anche una vaga voglia di vomitare. In quell’attimo, tu non ci sei per la prima volta, e questa è una cosa che non riesco mai a sopportare.

Poi salgo sull’aereo, dopo essermi trascinato come un fantasma per i corridoi dell’aereoporto. Mi faccio trasportare. Non m’importa. Non è la mia vita, questa. Sono di nuovo uscito da me stesso. Mi vedo ordinare un drink, che non farà nessun effetto. Mi vedo evitare il finestrino. Mi vedo sospirare. Mi vedo immerso nei miei progetti a metà, nelle mie rincorse verso il niente, nella mia follia piena di amarezza. Mi vedo solo, come sarò per un pezzo. Mi vedo con le mani che cercano una penna per buttare fuori qualcosa, perchè tenermi tutto questo dentro vuol dire una morte al secondo. Mi vedo chiudere gli occhi, non per dormire, ma solo per non vedere.

Ed è allora che ti vedo a casa, con ancora gli occhi rossi, con le persone intorno a te che sono tornate più o meno alla loro vita, mentre noi non possiamo, mentre anche le cose più semplici si fanno per noi incredibilmente difficili, quasi impossibili, e ti vedo che stai leggendo tutto questo, e forse non ti farà stare granchè meglio, lo ammetto, ma anche il solo pensarti lì col tuo dolore fa sentire meno solo il mio dolore, saperti lì fa avere a tutto questo un senso, saperti viva fa sentire vivo anche me, saperti nel mio cuore mi fa sentire di averne uno, saperti che leggerai tutto questo e forse piangerai ma poi capirai quello che cercavo di dirti mi fa sentire come se posso ancora respirare bene, perchè quello che cerco di dirti, amore mio, è che non c’è un cazzo di problema, è che prima o poi tutti questi addii saranno solo brutti ricordi, e questo sarà solo un post su un blog che solo pochi riescono a raggiungere, e allora asciuga le lacrime, amore mio, perchè domani andrà meglio, perchè oggi è solo orrore ma anche oggi dovrà finire, e noi saremo ancora lì, in attesa di un’alba nuovo, di un nuovo anno, un nuovo giorno.

L’hostess si avvicina. È tempo di un altro drink. Facciamolo finire presto, questo oggi.

Ciao piccola.

venerdì 29 ottobre 2010

Eravamo ragazzi e ci dicevano: “Studiate, sennò non sarete nessuno nella vita”. Studiammo.

Dopo aver studiato ci dissero: “Ma non lo sapete che la laurea non serve a niente? Avreste fatto meglio a imparare un mestiere!”. Lo imparammo. Dopo averlo imparato ci dissero: “Che peccato però, tutto quello studio per finire a fare un mestiere?”. Ci convinsero e lasciammo perdere. Quando lasciammo perdere, rimanemmo senza un centesimo. Ricominciammo a sperare, disperati. Prima eravamo troppo giovani e senza esperienza. Dopo pochissimo tempo eravamo già troppo grandi, con troppa esperienza e troppi titoli. Finalmente trovammo un lavoro, a contratto, ferie non pagate, zero malattie, zero tredicesime, zero Tfr, zero sindacati, zero diritti.
Lottammo per difendere quel non lavoro. Non facemmo figli – per senso di responsabilità – e crescemmo. Così ci dissero, dall’alto dei loro lavori trovati facilmente negli anni ‘60, con uno straccio di diploma o la licenza media, quando si vinceva facile davvero: “Siete dei bamboccioni, non volete crescere e mettere su famiglia”. E intanto pagavamo le loro pensioni, mentre dicevamo per sempre addio alle nostre.
Ci riproducemmo e ci dissero: “Ma come, senza una sicurezza nè un lavoro con un contratto sicuro fate i figli? Siete degli irresponsabili”. A quel punto non potevamo mica ucciderli. Così emigrammo. Andammo altrove, alla ricerca di un angolo sicuro nel mondo, lo trovammo, ci sentimmo bene. Ci sentimmo finalmente a casa. Ma un giorno, quando meno ce lo aspettavamo, il “Sistema Italia” fallì e tutti si ritrovarono col culo per terra. Allora ci dissero: “Ma perchè non avete fatto nulla per impedirlo?”. A quel punto non potemmo che rispondere: “Andatevene affanculo! – Torto, Breve storia di una generazione


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Circola in rete da un po'. Ci sta danantamente bene. Per chi è in Argentina, in Spagna, in Australia. O per chi resta in Italia ma vive un po' sulla luna.

giovedì 28 ottobre 2010

Sometimes you can't make it on your own





Sulla Freeway non si vede niente. Colpa della pioggia. Non ha smesso un attimo, da quando siamo partiti. Un giorno poco australiano, ma in qualche modo ci sta con quello che stiamo facendo.


Reg, il padre della mia ragazza, è alla guida. Sam, il figlio, è dietro che dorme. Ieri è tornato alle quattro. Lavora ad un pub, e ancora ha addosso la puzza di birra vecchia e sudore. Il deodorante, per fortuna, fa il suo dovere.


Siamo in viaggio da due ore sotto la pioggia martellante. Quando vede il cartello che indica l’uscita per Newcastle, Reg mette la freccia e gira. Mi mostra i vagoni lunghi, interminabili, alla nostra sinistra, pieni di carbone. Una delle cose per cui è famosa Newcastle, sai? No, non lo sapevo. So però che non siamo venuti fin qui per il carbone. Grazie a Dio, aggiungerei.



Giriamo a lungo, e tutto quello che abbiamo davanti è grigia periferia sotto un grigio cielo. Non c’è molto da dire al riguardo, non c’è nemmeno molto da ricordare. Eppure Reg parla, parla, parla. Erano giorni che non lo vedevo così attivo. I pensieri tristi, che questa pioggia gioca a stuzzicare, sembrano messi da parte. È il suo viaggio, questo. È giusto che sia così.



Arriviamo nel centro di Newcastle. La situazione non sembra cambiare granchè. Questa città, come mi ha ripetuto mille volte Reg, era il primo porto in Australia. Di sicuro, guardando dal finestrino bagnato, penso che qualcosa deve essere andato storto. Sam si sveglia, si stiracchia e guarda fuori anche lui.


“Merda, questo posto è morto e stramorto” dice.


“Sta passando solo una fase” dice Reg.


“Questo posto è deprimente” dice Sam.


E ha ragione. Case in mattoni rossi sotto il cielo cupo, strade vuote, negozi chiusi, porte sbarrate, palazzi abbandonati. Questa è una città che ha mollato. Fa venire voglia di mollare anche a te. La pioggia non aiuta.



Ci fermiamo davanti ad una costruzione abbandonata, tanto per cambiare. È lì, dice Reg, che sua madre aveva il suo night-club per italiani, negli anni ’50. Guardiamo dal finestrino mentre piove, facciamo qualche foto, ripartiamo. Reg ci racconta un po’ di storie. Ha avuto una vita avventurosa, piena. Anche il suo rapporto coi genitori è stato pieno, anche se più di cose negative che delle altre. Ora però mi racconta solo quelle positive. Le altre le so, le sa, le sappiamo. Ce le ricorda questa pioggia, questa città deserta, questo viaggio.



Ci fermiamo davanti ad un palazzo diroccato, con le crepe dell’unico terremoto della città.


“E’ lì che vivevamo” dice Reg.


Siamo sul marciapiede, ci stiamo bagnando e abbiamo freddo. Reg guarda in alto, racconta una storia, un’altra ancora. C’è tenerezza nel suo sguardo, c’è una risata sincera nella sua voce. C’è commozione nel suo ricordo.


Prendiamo un caffè in un bar lì sotto. Il caffè fa schifo. Ripartiamo.



Dopo essere passati davanti al mare in tempesta, alla casa dello zio campione di rugby e a quello ubriacone, alla zia gentile e a quella stronza, ci fermiamo in un pub della zona per mangiare. Ordiniamo anche una bottiglia di vino, e tutti siamo ben lieti del bicchiere che abbiamo davanti. Beviamo guardando le gocce sul vetro dell’ingresso. Chiunque conosce Reg, sa che è una persona solare, leggera, spiritosa. Eppure anche le persone solari, leggere e spiritose hanno brutti ricordi, fanno brutti sogni la notte, soffrono di insonnie e cattive digestioni, e a volte si sentono perse. Capita. Sarebbe assurdo se non capitasse.



“Tutto è diverso” dice Reg, mentre passiamo dalla vecchia scuola che è diventata una caserma, dal negozio del padre che è diventato un take-away thailandese. La sua intera infanzia, adolescenza, quello che era e che lo ha fatto diventare quello che è, è qui davanti. Niente di patetico, non vi fate strane idee. Guardiamo fuori dal finestrino mentre diciamo queste cose, e subito dopo spariamo qualche cazzata per sdrammatizzare. Sam ci fa ridere. Reg non capisce Sam. Il padre di Reg non capiva Reg. È la stessa faccenda, ripetuta sempre e sempre. Non per questo ti sembra meno ridicola o dolorosa.



Le parole di Reg hanno funzionato. Piano piano cancelliamo via la Newcastle abbandonata, e torniamo a quella di tanti anni fa. Nessuno di noi è a favore di questi viaggi della memoria, eppure cose così servono. Ogni tanto, cazzo, servono.


Sarebbe assurdo se non servissero.



Passiamo davanti al pub dove il padre di Reg ha passato gli ultimi anni della sua vita. Aveva già divorziato dalla madre, e viveva con una donna che è ancora qui, due strade più giù del pub. Passiamo davanti alla sua casa senza dire niente. Le cose positive da dire su suo padre sono finite. Forse Reg sta pensando a quelle altre.


Sarebbe molto meglio se non ci fossero.



L’ultima parte del tour è la casa dei nonni. È qui che Reg ha passato un periodo importante della sua vita. Sono successe cose. Qui si è rifugiato, in tempi in cui questa pioggia sembrava venir giù ogni giorno.


“Andiamo dentro?” dice.


“Ok” fa Sam.


So che non scherzano. Ci vive altra gente, adesso, ma questo non ha fermato Reg dal farlo altre volte. Suonare, chiedere ai nuovi inquilini se può visitare la casa e quelli gli dicono di sì, mentre si grattano la testa e cercano di trovare un senso.


Ma stavolta è diverso. La macchina è ferma e noi tre siamo dentro a guardare. Guardiamo quella casa, chiusi in una macchina tempestata dalla pioggia battente. Osserviamo le ampie finestre, quel colore giallo, chiaro, vivo. Non parliamo, solo il rumore delle gocce. È una bella casa, accogliente. Le finestre devono creare un’atmosfera calda, luminosa, là dentro. Di sicuro, lì dentro si sta bene. Tutti vanno d’accordo. Tutti sanno di poter contare sugli altri. Niente di male può succedere. Non ci sono grida, liti, abbandoni. Non ci si distrugge a vicenda. Sì, si sta bene lì dentro. Ce ne convinciamo in silenzio, ognuno a modo nostro, mentre restiamo lontani, chiusi in una macchina sotto la pioggia, incapaci di dire qualcosa.






(Questo post è dedicato a tutti quelli in lotta coi loro padri –voi sapete chi siete. È dedicato anche a quelli che lo sono, ma non lo sanno –anche in questo caso, sapete di chi sto parlando.


E’ dedicato ai padri che si sono accorti tardi, ma almeno se ne sono accorti. E’ dedicato ai padri che sono ancora in tempo, e speriamo bene. E’ dedicato a chi quel tempo lo ha sprecato.


E’, soprattutto, dedicato ai figli. Perchè, se è vero che essere padri è una cosa complicata, essere figli lo è ancora di più.


A voi.)



giovedì 21 ottobre 2010

UN PRODOTTO DI QUALITÀ È LA MIGLIORE PUBBLICITÀ

Ho in mano un libro di F.C.Verrina. È un copywriter/tante altre cose che ha scritto un libro sul FARE PUBBLICITÀ (questo il titolo). L'ho comprato per approfondire le mie conoscenze sulle tecniche, i meccanismi e gli effetti del mondo della pubblicità. Questo per dire che non sono uno che compra i libri perché è un sapientone e vuole solo criticare gli autori.
Però in questo caso non potevo non incavolarmi. Lo ripeto: più che quello di un critico, il mio giudizio è quello di un consumatore che ha acquistato a prezzo pieno un prodotto fallato, viziato. Quello che mi spinge a dire la mia non è un dibattito culturale sulla divergenza di opinioni tra me e l'autore in materia di pubblicità. Quello che muove le mie accuse è semplicemente - lo dico terra terra - il rodimento di culo di chi si accorge di aver preso una fregatura, di essere stato trattato senza rispetto.

Veniamo al fantastico fenomeno del BOOK ON DEMAND, o del PRINT ON DEMAND.
Oggi va molto. Le moderne tecnologie di stampa hanno diminuito moltissimo i costi di pubblicazione, abbattendo il muro tra l'autore e la pubblicazione. Case editrici e società che offrono servizi editoriali hanno così solleticato l'orgoglio delle centinaia di autori all'ombra, dicendo loro "Ehi dai! Davvero hai scritto un libro? E non te l'hanno voluto pubblicare? Che cattivoni! Tranquillo. Ci pensiamo noi!". In realtà ci pensi tu, nel senso che la pubblicazione te la paghi tutta tu. È BOOK ON DEMAND, mica beneficienza.
Sta avendo successo perché non siamo più il paese dove tutti sono allenatori. Ora tutti siamo tutto. Soubrette parlano del testamento biologico, pastori eletti sindaci investono i soldi dei comuni  in derivati finanziari. Tutti parliamo di tutto, e chi vuole scrivere scrive di tutto. È la tv, è internet, sono i blog. SIAMO NOI.
Non ricordo più chi mi ha detto che TUTTI DOVREBBERO SCRIVERE, MA SOLO POCHI DOVREBBERO PUBBLICARE.
Be' il BOOK ON DEMAND si scusa davvero tanto con la qualità generale dei suoi prodotti, ma DOVEVA liberare questi poveri autori, vittime delle crudeli case editrici, schiavi delle loro insicurezze creative.

Ma ora torniamo a FARE PUBBLICITÀ, che prendo ad esempio ma che non sono affatto sicuro costituisca un caso isolato.
Nella mia breve esperienza pubblicitaria mi sono accorto che il "fumo" che l'advertising spara negli occhi dei consumatori dà qualche risultato solo quando è supportato da un "arrosto" reale e concreto che ha un sapore quantomeno accettabile.
Insomma il potere del passaparola. Un consumatore davvero soddisfatto vale da sé mezza campagna pubblicitaria.
Ecco, questo è il punto.
IO non sono soddisfatto del libro. Del prodotto. Il mio giudizio è dovuto ai frequenti refusi nei quali mi imbatto durante la lettura. Una vergogna.
Un libro che a leggerlo ti viene voglia di prendere penna rossa e segnare, segnare, segnare. Ci sono parole dove l'ultima lettera diventa inspiegabilmente grassetto, ci sono "sé" senza accento. Cosa non c'è? Gli articoli, a volte.
Verso la fine c'è una foto dell'autore. Sotto la foto c'è la sua massima. "La creatività, più che arte, è abilità: è come riuscire a mettere il dito in un occhio a moscerino senza fargli male".
Manca qualcosa, secondo voi? Ci metti pure la faccia sopra una frase del genere? Ma cristo santo non potevi rileggerla? Forse un russo parlerebbe così. Ma se dovesse scrivere un libro, probabilmente, quel polacco si farebbe aiutare da qualcuno.

Alla faccia del SOGNO DI PUBBLICARE UN LIBRO. Voglio dire, quanto si deve essere superbi per non rileggerlo e farlo rileggere più volte, visto che deve essere pubblicato? No, la questione è molto semplice. "Io ho i soldi, io me lo produco e me lo pubblico".
Ma allora, visto che è un tuo sogno, ora che lo hai realizzato rimettitelo nel cassetto, no?

Mi vengono in mente le tante persone di talento che trovano la strada sbarrata dal mercato. Tutti i settori sono saturi.
Ma attenzione, all'interno di ogni settore c'è gente che fa le cose a cazzo. E se invece è competente? Io dico MOLTO PEGGIO. A quel punto dovrebbe solo metterci un po' di impegno. Affidarsi a qualcun altro, magari. E invece no. Nel paese delle raccomandazioni gli errori si pagano, ma li pagano solo quelli in fondo alla catena, quasi mai gli stessi ad averli commessi.
Mi viene in mente un amico che ha scritto un romanzo che leggo quando posso, alla ricerca di errori. Gli faccio questo favore, alla stregua di altri a cui l'ha dato, ben sapendo che non sono un correttore di bozze professionista, né tantomeno un editor.
A volte ne trovo, di errori. GLI ERRORI SCAPPANO SEMPRE.
Però attenzione, lui ha già superato la quarta stesura. Insomma ci dà dentro di labor limae. Il punto è che se controlli puoi legittimamente dire che quell'errore ti è SFUGGITO. Se non gli dai la caccia, a cosa sarebbe SFUGGITO mai?
Se questo amico avesse i soldi e non fosse un esordiente, ma sopratutto se avesse una faccia da culo grande come il mondo, potrebbe pubblicare il suo romanzo domani stesso, e vederlo esposto alla FELTRINELLI.
E invece no. Lo legge e lo rilegge. Lo controlla e lo ricontrolla. Lo ha scritto e poi lo ha imparato a memoria, e adesso lo gira a qualche amico perché sa bene che usare solo i suoi occhi non lo aiuterà più di tanto.
Non vi pare un idiota? Come mai il BOOK ON DEMAND non è riuscito a liberarlo?
No, è solo umile. Sa che un libro pubblicato, indipendentemente dal canale, deve essere ogni volta la migliore opera possibile. Come si scrivono i "sì"? E i "be'"? Non è che ho sbagliato un congiuntivo? Non è che magari ricontrollo il grassetto? Non è che magari dovrei avere un dizionario vicino, quando scrivo? Così, tanto per chiarirmi i dubbi...
Questi sono veri i dilemmi di chi crea, di chi materialmente scolpisce un'opera non solo per se stesso. L'utopia della perfezione, alla quale bisognerebbe cercare di avvicinarsi.
L'artista dovrebbe essere sicuro, ma non spavaldo. Umile, non timoroso.


http://www.lafeltrinelli.it/products/2120004713206/Fare_pubblicita_nell%27epoca_del_sesto_senso/Verrina_Francesco_Cataldo.html?prkw=fare%20pubblicit%C3%A0&srch=0&Cerca.x=16&Cerca.y=10&cat1=&prm=

lunedì 18 ottobre 2010

Fulmine di Pegasus - Polvere di diamanti - Colpo segreto del drago nascente - Ali della fenice e Catena di Andromeda

Certe volte davvero non lo so. Magari tra un istante mi balena la soluzione, mi si illumina una strada sul labirinto, ma adesso proprio non lo so.
Non so come si fa, a restare coerenti. Natura propria, natura umana, propri princìpi.

Ci sono persone che sembra che certi problemi non l'hanno mai avuti. Crisi di coscienza o semplici pensieri. Niente. Loro sono sempre a posto. Sono degli schiacciasassi. Si muovono solo secondo interesse e si giustificano insieme ai mezzi col fine. Sono quelli "intanto però me la sono scopata", o "quelli però guadagno 3mila euro al mese", sono quelli che "fatto un papa se ne fa un altro", sempre, comunque e senza rimpianti. Sono quelli che guardano esclusivamente al futuro perché nel passato c'è tanta vergogna. Sono gli "schiacciasassi". Non puoi fermarli ed è meglio che ti togli dal loro cammino.

Io non ce la faccio. I sassi mi incuriosiscono, mi fanno perdere un po' l'equilibrio. Alcuni li conto, li prendo in mano e li lucido. Li porto con me, almeno fino a un certo punto.
Io ho dei princìpi, sì. È colpa mia che da piccolo guardavo i Cavalieri dello zodiaco, con tutti quei discorsi sulla nobiltà d'animo, la lealtà etc.
Io avevo solo una decina d'anni, ma Lady Isabel me la sarei fatta e strafatta. Da una parte sarei stato capace di offrire la mia vita, per preservare la sua purezza. Ma cavolo, in fondo in fondo sarei stato ossessionato dall'idea di infilarmi sotto quel suo vestito bianco.

Ho dei principi. Non so come me li sono ritrovati ma li ho. E non sono certo un uomo di chiesa, intendiamoci, ma talvolta mi stupisco io stesso di quanto la mia moralità rasenti posizioni estreme.
Gli anni, la crescita, mi hanno insegnato a vedere le sfumature. Che vivere alla "tutto bianco o tutto nero" non solo non è giusto, ma nemmeno possibile. L'esperienza mi ha cambiato un po' le idee.
Sono stati i primi fallimenti quando credevo di giocare sul filo della perfezione, sono state le ingiustizie che la sorte mi ha regalato quando non ero affatto in difetto. Sono stati i sogni erotici su persone che non avrei mai pensato, sono stati i desideri omicidi nei confronti dei bambini che urlavano in un giorno in cui avevo un mal di testa da manicomio. Sono stati i rumori, gli odori, i desideri.

Avevo princìpi come tutti, forse soltanto ci credevo davvero. Non mi rendevo conto che con gli anni tutti si preparavano a recitarli, i princìpi, come uno spot. Per essere votati, eletti e lasciati in potere di contravvenirli.
Ero troppo ingenuo. Oppure credevo che pochi fossero così.
E invece ad un tratto ero dentro una nuova realtà.
Ero abbastanza puro solo perchè in fondo avevo vissuto poco. Per questo, visto che avevo deciso di vivere, cominciai a farlo un passo alla volta, annotando e analizzando tutto. Cercavo di non diventare una persona come tante, cercavo semmai di avere la spiegazione di come ci fossi diventato e una specie di formula alchemica per tentare una reazione inversa.

Ho preso il cuore, un taccuino, e me ne sono andato in giro.
E ho visto il mio primo amore portarmi in cielo e poi lasciarmi vuoto come mai, deluso, scoppiato. L'ho vista scemare nella troppa semplicità, nella routine, nella gelosia. E ho accompagnato il suo ricordo nel dimenticatoio, giorno dopo giorno.
Ho sentito genitori convincere i figli che quella regola era per il loro stesso bene, salvo poi tirare un enorme sospiro di sollievo per non dover stare in pena per loro dopo averli chiusi in casa.
Ho visto uomini e donne sposarsi per nulla e lasciarsi per nulla, dopo promesse che avevano i toni di quelle di una vita intera, ho visto persone andare in chiesa la domenica e poi l'ho sentite desiderare la morte del vicino per tutto il resto della settimana.
Io che l'ostia non l'ho quasi mai presa, perché nel dubbio se crederci o meno non mi fidavo di essere a posto con Dio, e poi cominciai anche a chiedermi quanto fosse a posto con Dio il sacerdote. A proposito, ho saputo di sacerdoti...che è meglio non parlarne.
Ho visto tutto questo e tanto altro, e non mi è piaciuto affatto.

Ad oggi conosco pochissime persone che non abbiano contravvenuto ai princìpi che ho. Ovvio che non sia un problema loro, lo dico solo per me.
Le persone che ancora non l'hanno fatto, credo che semplicemente siano brave a tenerlo nascosto. Al limite, se non l'hanno fatto lo faranno a breve.
Però che c'entra, ognuno ha i suoi princìpi. E io ho i miei. E sì, sono ben disposto a cambiare e a cambiarli, ma non solo per rendermi la vita facile. Non solo per abbassare la soglia del giudizio della mia coscienza. Forse dovrò cambiarli o solo andarvi oltre, forse per non impazzire.
Però ho imparato anche che è sbagliato esigere di essere al di sopra della propria natura. Sarei un Michael Jackson sbiancato, e non potrei guardare la mia faccia allo specchio.
La natura umana, che è tanto mortale nel corpo quanto debole di spirito. Specie di questi tempi, dove i desideri sono cresciuti in modo esponenziale e i principi sono rimasti quelli di una volta, con qualcuno che è andato perduto.
Non è facile vedersi sul punto di tradirsi. Non è facile vedersi di colpo diversi allo specchio. Con quell'unica ruga in più che cambia da sola tutta l'espressione del viso. Devi ricominciare tutto da capo, con quella nuova ruga. Devi piangere e ridere tantissimo, e continuare a guardarti. Finché non smetterai di guardarti cercando la faccia di prima.