sabato 31 marzo 2012

a volte mi sorprendo della mia scarsa capacità nel dare titoli...


per strani e imprevedibili percorsi sono giunta qui.
e non è che mi chieda più di tanto il perché...
sono qui e adesso devo sbracciarmi e lavorare...
sono nella fase pratica della mia vita, anche se continuo a subire gli strascichi della fase filosofica...
lavorare lavorare lavorare...
rimboccarsi le maniche, si è mai vista una signora impastare il pane con il maglione calato ai polsi?
ecco io non posso far di meno, anche se detengo un quarto (e mi sembra anche questo decisamente troppo)  della saggezza di quella signora...
giro e rigiro per vie strane ovviamente senza meta, la storicità dei luoghi mi affascina, e la storicità delle persone ancora di più...
bene il mio faticare si riduce in questo periodo a due attività... studiare e scoprire... sullo studio sorvolerei tanto non c'è mai niente tanto da dire.... sullo scoprire invece...
non importa che la scoperta investa tutta te stessa o stia fuori da te, non importa che riguardi persone, posti, libri, musica...
non importa che sconvolga la tua vita (più di quanto volevi in realtà) o passi sulla tua realtà lasciandola immutata.
non importa e basta!
se sei disposta a scoprire devi essere ancora più disposta a porre questio su tutto...
tutto quello che pensi, dici, immagini...
tutto.
e non si tratta di pre-disposizione.. non serve... tutti siamo potenzialmente predisposti alla scoperta... pochi però sono disposti a scoprire e a mettersi in gioco.
ecco, mò io sono passata da quello stato potenziale, allo stato attuale, e lo sconvolgimento non mi fa più paura della staticità...
no, non adesso.
scoprire, cambiare, vivere, restare, andare, muoversi, vagabondare, ascoltare.. in questo momento ci sta tutto bene...

tenete botta

(scritto senza pensare, carico di malvagità grammaticali, ma comunque sentito)

Ospedali

La notte non vuol saperne di passare. Il drenaggio è ancora lì, un vampiro attaccato al mio ginocchio, tira fuori passione mentre galleggio su un letto duro e maledetto. Non c'è una cazzo di posizione comoda, non tollero più di stare in questo buco di merda. Accanto a me il vecchio scorreggione, con il suo orribile carico di depressione e l'alito che puzza di morte, solo due denti e un viso che sembra scalpellato da un artista che ha visto l'orrore dormirgli di fronte una notte intera. Questo capolavoro devo ammirarlo io, un'altra notte, l'ennesima in questo stramaledetto ospedale. Non c'è verso, non riesco a sopportare in alcun modo la situazione. Un buio leggero, l'estenuante lotta contro il materasso e l'insonnia, la morte alla mia destra e il vuoto che scorre nelle mie vene come se i miei passi fossero risucchiati dallo stramaledetto drenaggio. Girandomi verso il mobile di plastica accanto al letto scorgo la mia ancora di salvezza: il lettore mp3, il suo. Ci provo. La prima traccia è tratta dal barbiere di Siviglia di Rossini e non riesco a crederci, crescendo crescendo CRESCENDO! Gioia vivacità gioia cantare! Cos'è questa luce così viva in uno scenario così tetro con il suo insopportabile arancione e quel relitto dilaniato dal tempo accanto? La luce dei crescendo si getta folle sulla notte e per sei minuti sto bene, bene! E poi A forest, i Cure. Mi colpisce il ritmo, mi colpisce il basso e le emozioni che evocano le ombre di un tramonto ormai completo, volgo lo sguardo alla finestra e vedo le luci del paese sulla collina tremolare come fiammelle di candele dipinte, la notte finalmente mi sembra più dolce, M. è madre e amante e salvezza tra le lacrime che accompagnano Lullaby, e stavolta sono lacrime di vita, ho avuto lacrime di desolazione e avrò lacrime di disperazione ma stanotte no, stanotte sono riuscito a riaggrapparmi alla vita, a non sprecare tutto, stanotte ce l'ho fatta, stanotte ho ritrovato frammenti del mio ego futuro sparsi tra le note sconosciute dei Cure, il futuro o qualunque cosa sia. Qualcosa cambierà; non è ancora il momento, non cambierà nulla ma cambia tutto di secondo in secondo e l'io privazione è un desiderio superbo, stanotte è passata e senza accorgermene sono le sei, passa l'infermiera del turno di mattina a controllare, il maledettissimo vecchio ha smontato il catetere e ha lanciato piscio ovunque ma a me non frega un cazzo, e poi ancora il cielo diventa azzurro, un azzurro pesante e totale, la collina è azzurra, i tetti sono azzurri, ogni cosa è azzurra ed è uno spettacolo particolare e tutto resta azzurro ancora a lungo e anch'io sono azzurro i miei pensieri azzurri Cristo bastardo è azzurro e anche quel fottuto arancione è azzurro nonostante sia stato progettato per urtare i degenti 24 ore al giorno con il suo essere azzurro, penso alle cosce di Paola e alle cosce di sua nipote, oh due splendide cosce, le uniche note positive della convivenza con lo stramaledetto vecchio e penso che vorrei solo l'abbraccio di M. e penso che mi manca persino la mia famiglia in un impeto di ingenuità e fanculo a tutte quelle cazzate. Che posto terribile. Ma sono le 7 e mi viene somministrata la medicina, e ormai niente più musica, solo i raggi del sole che annunciano il lento incedere di un'altra pesantissima giornata di inutilità. L'ultima, giusto in tempo.

venerdì 23 marzo 2012

Ooo

La prima sega mi sorprese in una strana fase della mia vita. O meglio: la prima sega dall'operazione, e la strana fase mi apparve improvvisamente in tutta la sua stranezza. Come tutte le strane fasi della vita, era semplicemente una transizione da un'assodata routine a un'altra che si stava affermando, senza più i racconti di Bukowski (questo non durerà a lungo), senza le 5 di mattina (solo le 2...), senza il sesso estenuante, senza le serate con lei (e queste si mi mancavano, e pazienza il sesso estenuante)... Una nuova routine, ovattata, scandita dal telefilm alle 15, il dolore lancinante della fisioterapia alle 17, l'eredità alle 19, il tg su la7 alle 20, e la sera finalmente un po' d'improvvisazione. TV o computer. Detto così fa un po' schifo, in realtà non è che mi dispiacesse molto. Era semplicemente strano. E fu altrettanto strano, almeno per me, che a farmi scrivere non fu l'assurda scopata-lampo da zoppo del sabato precedente ma la prima, squallida, tsunamica sega dopo l'operazione. Una sega triste, sgomenta, senza senso. Non avevo scritto un cazzo dell'ospedale, per quanto qualcosina da scrivere ci fosse. Non ce la facevo, non avevo volontà sufficiente, ero stanco. E anche tornato a casa non cambiò molto. Qualcosa nella mia testa era inceppato, e tutto andava avanti per inerzia. Dell'ospedale ormai ho dimenticato molto, e non mi va proprio di scrivere. Bah, non me ne frega un cazzo di niente, giusto buttar giù qualcosa. Questo post è lo specchio della mia anima in questo momento: un vuoto desolante.
Ma c'è l'amore, e allora si può accettare anche questo.
Tornerò, forse.

domenica 4 marzo 2012

I giovani lasciateli stare


Ho già parlato sul Morgana di come la nostra lungimirante società italiana vede i Giovani, e ho anche parlato di chi, in tutta coscienza, ritengo essere uno dei responsabili –ovviamente non il solo- della “fuga” di molti di loro verso luoghi ancora non toccati dai Co.co.co., dagli stage infiniti e dai call center affollati.

Oggi però mi sento sommerso da parole sicuramente fuorimisura, ma inevitabili ed indispensabili.
Ora che coi Giovani ci lavoro, per uno strano scherzo del destino, mi sento di dover tirare fuori di nuovo l’argomento. Ed è chiaro che con Giovani (volutamente maiuscolo) intendo un gruppo egualmente ampio e sottovalutato, oltre che maltrattato, che va dalla scuola superiore e si protrae a volte fino alla soglia dei 40. Una giovinezza infinita di cui nessuno sentiva il bisogno, e che viene negata proprio da quelli che l’hanno creata, ma vabbè. Strano pensare che, in quest’inquadratura filosofica, possa rientrarci uno come me, che Giovane non si è mai sentito nemmeno quando la carta d’identità diceva il contrario.

I Giovani con cui ho a che fare sono quelli appena fuggiti. Hanno nelle ossa ancora il fuso orario da recuperare, e nel viso lo sguardo di chi ancora cerca di capire come c’è finito lì. Quindi è così che è fatta l’Australia, sembrano dire.
Fanno domande guardinghe, usano il lei, toni composti e seri. Io dico loro di non farsi intimorire dalla stanza, scambio qualche battuta, gli faccio capire che si può essere umani anche dall’altra parte dell’oceano. Solo allora si rilassano un po’, raccontano un po’ le loro storie. Ci facciamo una sigaretta virtuale mentre parliamo di questioni tecniche –lavoro, visti, inglese. Alcuni, lo vedi, sono davvero partiti all’avventura, senza sapere nemmeno come si scrivesse Sydney. Però l’hanno fatto, e a quel loro gesto imprudente e coraggioso ora non riescono a dare un valore, storditi dal viaggio dal sole da quel nuovo parlare.
Negli occhi di tutti, indistintamente, leggi una cosa chiamata nostalgia, anche quando il viaggio è stato cercato, voluto, sudato. Quello che manca è un appiglio familiare in quella piccola pazzia che profuma d’impresa.
Io porgo la mano e dico, chiamami quando vuoi. E finalmente vedo il primo sorriso.

Un’altra cosa vedo in quegli occhi, oltre alla mancanza di casa, degli amici, dei profumi a tavola: vedo rabbia. Una rabbia che ancora non può usare le energie che sono destinate alla sopravvivenza, a capire, a orientarsi, ma che vengono fuori in frasi spezzettate, spesso deluse. Lì non c’è più niente, bisbigliano come reduci da una guerra apocalittica. Non potresti mai credere che quel “lì” al quale si riferiscono è un Paese che siede al G8, un Paese del Primo Mondo, conosciuto in tutto il pianeta, sognato, stimato.
Non potresti crederlo, e infatti molti non lo fanno. Anzi, fanno finta che questo non sia mai successo –che non stia succedendo. Sono le persone che dovevano assicurare un futuro a questi ragazzi - che dopo averli formati, dopo aver spiegato loro come potevano occupare un certo posto nella società, gliel’hanno tolto da sotto il culo e amen. Sono le persone che hanno fatto tagli su tagli mentre sperperavano miliardi in voli di Stato per puttane, in auto blu, in finanziamenti a partiti (perfino quelli che non esistono più), in Grandi Opere mai realizzate, in stipendi stellari e fine dei giochi. Sono le persone che si riempivano la bocca con parole come “crescita”, “sviluppo”, mentre io giorno dopo giorno mi trovo davanti architetti, psicologi, dottori che mi chiedono della “farm” –perchè in Australia se lavori per 3 mesi nei campi ti danno un altro anno di visto- e io ascolto in silenzio e poi dò consigli e non posso fare a meno di pensare che un Paese che lascia alle sue generazioni future l’unica speranza di raccogliere mango dall’altra parte del pianeta è un Paese che ha fallito, in tutto e per tutto.

Ma io so che questi signori torneranno –quelli che prima hanno negato la crisi, poi l’hanno addossata a qualcun altro e hanno chiesto il conto a chi è arrivato per ultimo. Torneranno come se niente fosse e diranno, noi non c’entriamo niente con quelli, noi siamo IL NUOVO, noi possiamo aiutarvi, fidatevi.
Un articolo di un tizio sul giornale italiano di Sydney s’intitolava “Fiero di essere berlusconiano”. Ma almeno lui può dirlo dall’altra parte del mondo, senza sapere un cazzo di quello che hanno significato per questi ragazzi in fuga 18 anni del governo più sconclusionato e ignorante possibile. Ma chi ci vive lì ogni giorno, come fa a non capire?
Ma ovviamente la colpa non è mai solo di uno. Arriveranno anche quelli dall’altra parte e diranno, noi siamo sempre stati con voi, noi lottiamo per i Giovani.
Ecco, a questi signori, a tutti loro, da una parte e dall’altra INDISTINTAMENTE, vorrei dire, cordialmente e pacatamente: non provateci nemmeno per scherzo.
Lasciateli stare, ‘sti Giovani, che di voi non sanno che farsene. Continuate a mendicare per il vostro voto, per il vostro culo, ma non a quelli che avete fatto andare via. I Giovani hanno dovuto portare il loro lontano per colpa vostra. So che questo non vi toglierà il sonno, che anzi nemmeno ci pensate. Ma quando i tempi cambieranno, quando apriremo gli occhi e vedremo che non c’è rimasto più nessuno, non dite: io non c’entro, io non sapevo, io non volevo.
Non provateci nemmeno.
Il fuso orario, alla fine, passa. Il lavoro nei campi è massacrante, ma è un’esperienza fantastica. Tutto serve, alla fine, per farti sentire vivo.
Che è l’esatto contrario di quello che siete voi.
Buon vitalizio a tutti.

sabato 3 marzo 2012

Roma verace

L'ho sempre pensato e lo ripeto: locali come DoppioZero non rientrano per nulla nel mio genere. La gente che si atteggia a manager e le donne che emanano chanel dall'alto dei loro tacchi 20 cm, nell'atmosfera satura di gente che vuol sentirsi appartenente alla Roma Bene pure a Roma Sud e che quindi deve fare l'aperitivo perchè fa trendy, proprio non le digerisco.
Mentre vedo R. riempire i piattini, caricandoli di pasta e pizzette che si innalzano a formare piramidi, nel suo stile un po' trasandato e con gli occhi stanchi perchè ancora attenti dopo una lunga giornata di lavoro, mi viene voglia di rifare un giro per quei locali di Roma che non esistono più. Il Classico, grande e vivo, con più sale capaci di offrire musica di generi diversi, e prima ancora il Bunny's Pub, scuro e nebbioso, quando tra i giovani vigeva ancora la regola di distinguersi su quella di uniformarsi alla massa. R. mi parla di quella Roma che ricerco, di una Roma forse più adatta ai liceali che ad altri. Me ne parla con un mix di desiderio e nostalgia. Essere degli anni '70 e lavorare 8 ore al giorno gliel'ha fatta perdere di vista anche a lui.
Una Roma così variopinta la ricerchiamo in vari ricordi e alla fine la ritroviamo anche in un vecchio amico. Un sessantenne romano verace, di quelli che ti mandano affanculo col sorriso e lo sanno fare tanto bene che vorresti che ti ci mandassero tutti i giorni. Che continuano a mancarti anche dopo anni.
Quei romani lì, a cui il culo gli rode così tanto che alla fine ci fanno l'abitudine e ci convivono quasi con spavalderia, ora mi capita di vederli meno. Forse è semplicemente un caso. Ma questi giovani qui (e per giovani intendo anche i quarantenni d'oggi) hanno perso un po' quella spontaneità. Quella veracità, che mi è sempre piaciuta tanto. Sono ancora concentrati su se stessi ma non fanno più dell'ironia e dell'autoironia. Hanno dimenticato che essere civili a Roma significa anche e soprattutto parlarsi. Mandasse pure affanculo magari, ma in fondo perchè "ce se vole bene".
Allora dopo essere rientrata a Roma, dopo qualche giorno a Napoli, mi viene un po' di tristezza.
A Napoli quell'atmosfera lì non solo l'ho respirata ma l'ho sentita sulla pelle. Ora, appena posso, mi voglio fare un giro a Garbatella. Sia mai che incontro una vecchietta con cui lamentarmi del traffico.