venerdì 29 ottobre 2010

Eravamo ragazzi e ci dicevano: “Studiate, sennò non sarete nessuno nella vita”. Studiammo.

Dopo aver studiato ci dissero: “Ma non lo sapete che la laurea non serve a niente? Avreste fatto meglio a imparare un mestiere!”. Lo imparammo. Dopo averlo imparato ci dissero: “Che peccato però, tutto quello studio per finire a fare un mestiere?”. Ci convinsero e lasciammo perdere. Quando lasciammo perdere, rimanemmo senza un centesimo. Ricominciammo a sperare, disperati. Prima eravamo troppo giovani e senza esperienza. Dopo pochissimo tempo eravamo già troppo grandi, con troppa esperienza e troppi titoli. Finalmente trovammo un lavoro, a contratto, ferie non pagate, zero malattie, zero tredicesime, zero Tfr, zero sindacati, zero diritti.
Lottammo per difendere quel non lavoro. Non facemmo figli – per senso di responsabilità – e crescemmo. Così ci dissero, dall’alto dei loro lavori trovati facilmente negli anni ‘60, con uno straccio di diploma o la licenza media, quando si vinceva facile davvero: “Siete dei bamboccioni, non volete crescere e mettere su famiglia”. E intanto pagavamo le loro pensioni, mentre dicevamo per sempre addio alle nostre.
Ci riproducemmo e ci dissero: “Ma come, senza una sicurezza nè un lavoro con un contratto sicuro fate i figli? Siete degli irresponsabili”. A quel punto non potevamo mica ucciderli. Così emigrammo. Andammo altrove, alla ricerca di un angolo sicuro nel mondo, lo trovammo, ci sentimmo bene. Ci sentimmo finalmente a casa. Ma un giorno, quando meno ce lo aspettavamo, il “Sistema Italia” fallì e tutti si ritrovarono col culo per terra. Allora ci dissero: “Ma perchè non avete fatto nulla per impedirlo?”. A quel punto non potemmo che rispondere: “Andatevene affanculo! – Torto, Breve storia di una generazione


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Circola in rete da un po'. Ci sta danantamente bene. Per chi è in Argentina, in Spagna, in Australia. O per chi resta in Italia ma vive un po' sulla luna.

giovedì 28 ottobre 2010

Sometimes you can't make it on your own





Sulla Freeway non si vede niente. Colpa della pioggia. Non ha smesso un attimo, da quando siamo partiti. Un giorno poco australiano, ma in qualche modo ci sta con quello che stiamo facendo.


Reg, il padre della mia ragazza, è alla guida. Sam, il figlio, è dietro che dorme. Ieri è tornato alle quattro. Lavora ad un pub, e ancora ha addosso la puzza di birra vecchia e sudore. Il deodorante, per fortuna, fa il suo dovere.


Siamo in viaggio da due ore sotto la pioggia martellante. Quando vede il cartello che indica l’uscita per Newcastle, Reg mette la freccia e gira. Mi mostra i vagoni lunghi, interminabili, alla nostra sinistra, pieni di carbone. Una delle cose per cui è famosa Newcastle, sai? No, non lo sapevo. So però che non siamo venuti fin qui per il carbone. Grazie a Dio, aggiungerei.



Giriamo a lungo, e tutto quello che abbiamo davanti è grigia periferia sotto un grigio cielo. Non c’è molto da dire al riguardo, non c’è nemmeno molto da ricordare. Eppure Reg parla, parla, parla. Erano giorni che non lo vedevo così attivo. I pensieri tristi, che questa pioggia gioca a stuzzicare, sembrano messi da parte. È il suo viaggio, questo. È giusto che sia così.



Arriviamo nel centro di Newcastle. La situazione non sembra cambiare granchè. Questa città, come mi ha ripetuto mille volte Reg, era il primo porto in Australia. Di sicuro, guardando dal finestrino bagnato, penso che qualcosa deve essere andato storto. Sam si sveglia, si stiracchia e guarda fuori anche lui.


“Merda, questo posto è morto e stramorto” dice.


“Sta passando solo una fase” dice Reg.


“Questo posto è deprimente” dice Sam.


E ha ragione. Case in mattoni rossi sotto il cielo cupo, strade vuote, negozi chiusi, porte sbarrate, palazzi abbandonati. Questa è una città che ha mollato. Fa venire voglia di mollare anche a te. La pioggia non aiuta.



Ci fermiamo davanti ad una costruzione abbandonata, tanto per cambiare. È lì, dice Reg, che sua madre aveva il suo night-club per italiani, negli anni ’50. Guardiamo dal finestrino mentre piove, facciamo qualche foto, ripartiamo. Reg ci racconta un po’ di storie. Ha avuto una vita avventurosa, piena. Anche il suo rapporto coi genitori è stato pieno, anche se più di cose negative che delle altre. Ora però mi racconta solo quelle positive. Le altre le so, le sa, le sappiamo. Ce le ricorda questa pioggia, questa città deserta, questo viaggio.



Ci fermiamo davanti ad un palazzo diroccato, con le crepe dell’unico terremoto della città.


“E’ lì che vivevamo” dice Reg.


Siamo sul marciapiede, ci stiamo bagnando e abbiamo freddo. Reg guarda in alto, racconta una storia, un’altra ancora. C’è tenerezza nel suo sguardo, c’è una risata sincera nella sua voce. C’è commozione nel suo ricordo.


Prendiamo un caffè in un bar lì sotto. Il caffè fa schifo. Ripartiamo.



Dopo essere passati davanti al mare in tempesta, alla casa dello zio campione di rugby e a quello ubriacone, alla zia gentile e a quella stronza, ci fermiamo in un pub della zona per mangiare. Ordiniamo anche una bottiglia di vino, e tutti siamo ben lieti del bicchiere che abbiamo davanti. Beviamo guardando le gocce sul vetro dell’ingresso. Chiunque conosce Reg, sa che è una persona solare, leggera, spiritosa. Eppure anche le persone solari, leggere e spiritose hanno brutti ricordi, fanno brutti sogni la notte, soffrono di insonnie e cattive digestioni, e a volte si sentono perse. Capita. Sarebbe assurdo se non capitasse.



“Tutto è diverso” dice Reg, mentre passiamo dalla vecchia scuola che è diventata una caserma, dal negozio del padre che è diventato un take-away thailandese. La sua intera infanzia, adolescenza, quello che era e che lo ha fatto diventare quello che è, è qui davanti. Niente di patetico, non vi fate strane idee. Guardiamo fuori dal finestrino mentre diciamo queste cose, e subito dopo spariamo qualche cazzata per sdrammatizzare. Sam ci fa ridere. Reg non capisce Sam. Il padre di Reg non capiva Reg. È la stessa faccenda, ripetuta sempre e sempre. Non per questo ti sembra meno ridicola o dolorosa.



Le parole di Reg hanno funzionato. Piano piano cancelliamo via la Newcastle abbandonata, e torniamo a quella di tanti anni fa. Nessuno di noi è a favore di questi viaggi della memoria, eppure cose così servono. Ogni tanto, cazzo, servono.


Sarebbe assurdo se non servissero.



Passiamo davanti al pub dove il padre di Reg ha passato gli ultimi anni della sua vita. Aveva già divorziato dalla madre, e viveva con una donna che è ancora qui, due strade più giù del pub. Passiamo davanti alla sua casa senza dire niente. Le cose positive da dire su suo padre sono finite. Forse Reg sta pensando a quelle altre.


Sarebbe molto meglio se non ci fossero.



L’ultima parte del tour è la casa dei nonni. È qui che Reg ha passato un periodo importante della sua vita. Sono successe cose. Qui si è rifugiato, in tempi in cui questa pioggia sembrava venir giù ogni giorno.


“Andiamo dentro?” dice.


“Ok” fa Sam.


So che non scherzano. Ci vive altra gente, adesso, ma questo non ha fermato Reg dal farlo altre volte. Suonare, chiedere ai nuovi inquilini se può visitare la casa e quelli gli dicono di sì, mentre si grattano la testa e cercano di trovare un senso.


Ma stavolta è diverso. La macchina è ferma e noi tre siamo dentro a guardare. Guardiamo quella casa, chiusi in una macchina tempestata dalla pioggia battente. Osserviamo le ampie finestre, quel colore giallo, chiaro, vivo. Non parliamo, solo il rumore delle gocce. È una bella casa, accogliente. Le finestre devono creare un’atmosfera calda, luminosa, là dentro. Di sicuro, lì dentro si sta bene. Tutti vanno d’accordo. Tutti sanno di poter contare sugli altri. Niente di male può succedere. Non ci sono grida, liti, abbandoni. Non ci si distrugge a vicenda. Sì, si sta bene lì dentro. Ce ne convinciamo in silenzio, ognuno a modo nostro, mentre restiamo lontani, chiusi in una macchina sotto la pioggia, incapaci di dire qualcosa.






(Questo post è dedicato a tutti quelli in lotta coi loro padri –voi sapete chi siete. È dedicato anche a quelli che lo sono, ma non lo sanno –anche in questo caso, sapete di chi sto parlando.


E’ dedicato ai padri che si sono accorti tardi, ma almeno se ne sono accorti. E’ dedicato ai padri che sono ancora in tempo, e speriamo bene. E’ dedicato a chi quel tempo lo ha sprecato.


E’, soprattutto, dedicato ai figli. Perchè, se è vero che essere padri è una cosa complicata, essere figli lo è ancora di più.


A voi.)



giovedì 21 ottobre 2010

UN PRODOTTO DI QUALITÀ È LA MIGLIORE PUBBLICITÀ

Ho in mano un libro di F.C.Verrina. È un copywriter/tante altre cose che ha scritto un libro sul FARE PUBBLICITÀ (questo il titolo). L'ho comprato per approfondire le mie conoscenze sulle tecniche, i meccanismi e gli effetti del mondo della pubblicità. Questo per dire che non sono uno che compra i libri perché è un sapientone e vuole solo criticare gli autori.
Però in questo caso non potevo non incavolarmi. Lo ripeto: più che quello di un critico, il mio giudizio è quello di un consumatore che ha acquistato a prezzo pieno un prodotto fallato, viziato. Quello che mi spinge a dire la mia non è un dibattito culturale sulla divergenza di opinioni tra me e l'autore in materia di pubblicità. Quello che muove le mie accuse è semplicemente - lo dico terra terra - il rodimento di culo di chi si accorge di aver preso una fregatura, di essere stato trattato senza rispetto.

Veniamo al fantastico fenomeno del BOOK ON DEMAND, o del PRINT ON DEMAND.
Oggi va molto. Le moderne tecnologie di stampa hanno diminuito moltissimo i costi di pubblicazione, abbattendo il muro tra l'autore e la pubblicazione. Case editrici e società che offrono servizi editoriali hanno così solleticato l'orgoglio delle centinaia di autori all'ombra, dicendo loro "Ehi dai! Davvero hai scritto un libro? E non te l'hanno voluto pubblicare? Che cattivoni! Tranquillo. Ci pensiamo noi!". In realtà ci pensi tu, nel senso che la pubblicazione te la paghi tutta tu. È BOOK ON DEMAND, mica beneficienza.
Sta avendo successo perché non siamo più il paese dove tutti sono allenatori. Ora tutti siamo tutto. Soubrette parlano del testamento biologico, pastori eletti sindaci investono i soldi dei comuni  in derivati finanziari. Tutti parliamo di tutto, e chi vuole scrivere scrive di tutto. È la tv, è internet, sono i blog. SIAMO NOI.
Non ricordo più chi mi ha detto che TUTTI DOVREBBERO SCRIVERE, MA SOLO POCHI DOVREBBERO PUBBLICARE.
Be' il BOOK ON DEMAND si scusa davvero tanto con la qualità generale dei suoi prodotti, ma DOVEVA liberare questi poveri autori, vittime delle crudeli case editrici, schiavi delle loro insicurezze creative.

Ma ora torniamo a FARE PUBBLICITÀ, che prendo ad esempio ma che non sono affatto sicuro costituisca un caso isolato.
Nella mia breve esperienza pubblicitaria mi sono accorto che il "fumo" che l'advertising spara negli occhi dei consumatori dà qualche risultato solo quando è supportato da un "arrosto" reale e concreto che ha un sapore quantomeno accettabile.
Insomma il potere del passaparola. Un consumatore davvero soddisfatto vale da sé mezza campagna pubblicitaria.
Ecco, questo è il punto.
IO non sono soddisfatto del libro. Del prodotto. Il mio giudizio è dovuto ai frequenti refusi nei quali mi imbatto durante la lettura. Una vergogna.
Un libro che a leggerlo ti viene voglia di prendere penna rossa e segnare, segnare, segnare. Ci sono parole dove l'ultima lettera diventa inspiegabilmente grassetto, ci sono "sé" senza accento. Cosa non c'è? Gli articoli, a volte.
Verso la fine c'è una foto dell'autore. Sotto la foto c'è la sua massima. "La creatività, più che arte, è abilità: è come riuscire a mettere il dito in un occhio a moscerino senza fargli male".
Manca qualcosa, secondo voi? Ci metti pure la faccia sopra una frase del genere? Ma cristo santo non potevi rileggerla? Forse un russo parlerebbe così. Ma se dovesse scrivere un libro, probabilmente, quel polacco si farebbe aiutare da qualcuno.

Alla faccia del SOGNO DI PUBBLICARE UN LIBRO. Voglio dire, quanto si deve essere superbi per non rileggerlo e farlo rileggere più volte, visto che deve essere pubblicato? No, la questione è molto semplice. "Io ho i soldi, io me lo produco e me lo pubblico".
Ma allora, visto che è un tuo sogno, ora che lo hai realizzato rimettitelo nel cassetto, no?

Mi vengono in mente le tante persone di talento che trovano la strada sbarrata dal mercato. Tutti i settori sono saturi.
Ma attenzione, all'interno di ogni settore c'è gente che fa le cose a cazzo. E se invece è competente? Io dico MOLTO PEGGIO. A quel punto dovrebbe solo metterci un po' di impegno. Affidarsi a qualcun altro, magari. E invece no. Nel paese delle raccomandazioni gli errori si pagano, ma li pagano solo quelli in fondo alla catena, quasi mai gli stessi ad averli commessi.
Mi viene in mente un amico che ha scritto un romanzo che leggo quando posso, alla ricerca di errori. Gli faccio questo favore, alla stregua di altri a cui l'ha dato, ben sapendo che non sono un correttore di bozze professionista, né tantomeno un editor.
A volte ne trovo, di errori. GLI ERRORI SCAPPANO SEMPRE.
Però attenzione, lui ha già superato la quarta stesura. Insomma ci dà dentro di labor limae. Il punto è che se controlli puoi legittimamente dire che quell'errore ti è SFUGGITO. Se non gli dai la caccia, a cosa sarebbe SFUGGITO mai?
Se questo amico avesse i soldi e non fosse un esordiente, ma sopratutto se avesse una faccia da culo grande come il mondo, potrebbe pubblicare il suo romanzo domani stesso, e vederlo esposto alla FELTRINELLI.
E invece no. Lo legge e lo rilegge. Lo controlla e lo ricontrolla. Lo ha scritto e poi lo ha imparato a memoria, e adesso lo gira a qualche amico perché sa bene che usare solo i suoi occhi non lo aiuterà più di tanto.
Non vi pare un idiota? Come mai il BOOK ON DEMAND non è riuscito a liberarlo?
No, è solo umile. Sa che un libro pubblicato, indipendentemente dal canale, deve essere ogni volta la migliore opera possibile. Come si scrivono i "sì"? E i "be'"? Non è che ho sbagliato un congiuntivo? Non è che magari ricontrollo il grassetto? Non è che magari dovrei avere un dizionario vicino, quando scrivo? Così, tanto per chiarirmi i dubbi...
Questi sono veri i dilemmi di chi crea, di chi materialmente scolpisce un'opera non solo per se stesso. L'utopia della perfezione, alla quale bisognerebbe cercare di avvicinarsi.
L'artista dovrebbe essere sicuro, ma non spavaldo. Umile, non timoroso.


http://www.lafeltrinelli.it/products/2120004713206/Fare_pubblicita_nell%27epoca_del_sesto_senso/Verrina_Francesco_Cataldo.html?prkw=fare%20pubblicit%C3%A0&srch=0&Cerca.x=16&Cerca.y=10&cat1=&prm=

lunedì 18 ottobre 2010

Fulmine di Pegasus - Polvere di diamanti - Colpo segreto del drago nascente - Ali della fenice e Catena di Andromeda

Certe volte davvero non lo so. Magari tra un istante mi balena la soluzione, mi si illumina una strada sul labirinto, ma adesso proprio non lo so.
Non so come si fa, a restare coerenti. Natura propria, natura umana, propri princìpi.

Ci sono persone che sembra che certi problemi non l'hanno mai avuti. Crisi di coscienza o semplici pensieri. Niente. Loro sono sempre a posto. Sono degli schiacciasassi. Si muovono solo secondo interesse e si giustificano insieme ai mezzi col fine. Sono quelli "intanto però me la sono scopata", o "quelli però guadagno 3mila euro al mese", sono quelli che "fatto un papa se ne fa un altro", sempre, comunque e senza rimpianti. Sono quelli che guardano esclusivamente al futuro perché nel passato c'è tanta vergogna. Sono gli "schiacciasassi". Non puoi fermarli ed è meglio che ti togli dal loro cammino.

Io non ce la faccio. I sassi mi incuriosiscono, mi fanno perdere un po' l'equilibrio. Alcuni li conto, li prendo in mano e li lucido. Li porto con me, almeno fino a un certo punto.
Io ho dei princìpi, sì. È colpa mia che da piccolo guardavo i Cavalieri dello zodiaco, con tutti quei discorsi sulla nobiltà d'animo, la lealtà etc.
Io avevo solo una decina d'anni, ma Lady Isabel me la sarei fatta e strafatta. Da una parte sarei stato capace di offrire la mia vita, per preservare la sua purezza. Ma cavolo, in fondo in fondo sarei stato ossessionato dall'idea di infilarmi sotto quel suo vestito bianco.

Ho dei principi. Non so come me li sono ritrovati ma li ho. E non sono certo un uomo di chiesa, intendiamoci, ma talvolta mi stupisco io stesso di quanto la mia moralità rasenti posizioni estreme.
Gli anni, la crescita, mi hanno insegnato a vedere le sfumature. Che vivere alla "tutto bianco o tutto nero" non solo non è giusto, ma nemmeno possibile. L'esperienza mi ha cambiato un po' le idee.
Sono stati i primi fallimenti quando credevo di giocare sul filo della perfezione, sono state le ingiustizie che la sorte mi ha regalato quando non ero affatto in difetto. Sono stati i sogni erotici su persone che non avrei mai pensato, sono stati i desideri omicidi nei confronti dei bambini che urlavano in un giorno in cui avevo un mal di testa da manicomio. Sono stati i rumori, gli odori, i desideri.

Avevo princìpi come tutti, forse soltanto ci credevo davvero. Non mi rendevo conto che con gli anni tutti si preparavano a recitarli, i princìpi, come uno spot. Per essere votati, eletti e lasciati in potere di contravvenirli.
Ero troppo ingenuo. Oppure credevo che pochi fossero così.
E invece ad un tratto ero dentro una nuova realtà.
Ero abbastanza puro solo perchè in fondo avevo vissuto poco. Per questo, visto che avevo deciso di vivere, cominciai a farlo un passo alla volta, annotando e analizzando tutto. Cercavo di non diventare una persona come tante, cercavo semmai di avere la spiegazione di come ci fossi diventato e una specie di formula alchemica per tentare una reazione inversa.

Ho preso il cuore, un taccuino, e me ne sono andato in giro.
E ho visto il mio primo amore portarmi in cielo e poi lasciarmi vuoto come mai, deluso, scoppiato. L'ho vista scemare nella troppa semplicità, nella routine, nella gelosia. E ho accompagnato il suo ricordo nel dimenticatoio, giorno dopo giorno.
Ho sentito genitori convincere i figli che quella regola era per il loro stesso bene, salvo poi tirare un enorme sospiro di sollievo per non dover stare in pena per loro dopo averli chiusi in casa.
Ho visto uomini e donne sposarsi per nulla e lasciarsi per nulla, dopo promesse che avevano i toni di quelle di una vita intera, ho visto persone andare in chiesa la domenica e poi l'ho sentite desiderare la morte del vicino per tutto il resto della settimana.
Io che l'ostia non l'ho quasi mai presa, perché nel dubbio se crederci o meno non mi fidavo di essere a posto con Dio, e poi cominciai anche a chiedermi quanto fosse a posto con Dio il sacerdote. A proposito, ho saputo di sacerdoti...che è meglio non parlarne.
Ho visto tutto questo e tanto altro, e non mi è piaciuto affatto.

Ad oggi conosco pochissime persone che non abbiano contravvenuto ai princìpi che ho. Ovvio che non sia un problema loro, lo dico solo per me.
Le persone che ancora non l'hanno fatto, credo che semplicemente siano brave a tenerlo nascosto. Al limite, se non l'hanno fatto lo faranno a breve.
Però che c'entra, ognuno ha i suoi princìpi. E io ho i miei. E sì, sono ben disposto a cambiare e a cambiarli, ma non solo per rendermi la vita facile. Non solo per abbassare la soglia del giudizio della mia coscienza. Forse dovrò cambiarli o solo andarvi oltre, forse per non impazzire.
Però ho imparato anche che è sbagliato esigere di essere al di sopra della propria natura. Sarei un Michael Jackson sbiancato, e non potrei guardare la mia faccia allo specchio.
La natura umana, che è tanto mortale nel corpo quanto debole di spirito. Specie di questi tempi, dove i desideri sono cresciuti in modo esponenziale e i principi sono rimasti quelli di una volta, con qualcuno che è andato perduto.
Non è facile vedersi sul punto di tradirsi. Non è facile vedersi di colpo diversi allo specchio. Con quell'unica ruga in più che cambia da sola tutta l'espressione del viso. Devi ricominciare tutto da capo, con quella nuova ruga. Devi piangere e ridere tantissimo, e continuare a guardarti. Finché non smetterai di guardarti cercando la faccia di prima.

venerdì 15 ottobre 2010

Housesitting

"Conta si' il denaro, altro che no/ me ne accorgo soprattutto quando/ quando non ne ho"

Vasco Rossi, "Cosa succede in citta'"

Arrivo in casa dopo una festa, nelle condizioni in cui uno si può trovare dopo una festa lunga, folle, vissuta. La mia ragazza non c’è oggi, così sono solo. Ho in mano una lista di cose da fare, di alimenti da dare al cane, di allarmi da installare se devo uscire. Alzo gli occhi e il bastardino è lì a fissarmi, lingua di fuori, pelo troppo lungo.

L’occhio mi cade su una voce della lista “Accarezzatelo spesso, e parlategli più che potete”.

Mi sforzo per trovare qualcosa da dire al cane, ma concludo che non ho niente da dirgli, così gli accarezzo la testa e vado oltre. Barcollo per la stanchezza, sfiorando divani costosi, mobili da copertina. I miei passi pesanti fanno ballare il parquet e di conseguenza anche il mobiletto con i bicchieri di cristallo. Passo accanto ad una delle tante collezioni di vino pregiato, ma volto la testa dall’altra parte prima che la nausea mi uccida.

Mi aggiro per le stanze. Non so cosa sto cercando. Loro sono i ricchi culigrassi e io la pulce proletaria (e senza un soldo), così mi faccio da solo un tour della casa, la stanza dei ragazzi, la sala da pranzo grande e quella piccola, il salone con schermo gigante al plasma e home teather installato sul soffitto. Entro anche nella stanza da letto e mi guardo in giro. Non tocco niente perchè non sono quel tipo lì e anche perchè mi fa abbastanza schifo. Non so perchè, ma i ricchi me li immagino sempre a scopare come ricci. Almeno, se io fossi ricco non farei altro. Ma forse i ricchi non sono tutti uguali, a differenza dei poveri che fanno tutti la stessa vita di merda.

Sono stanco, così mi sdraio sul divano davanti al televisore a rincoglionirmi coi 75 canali satellitari a disposizione, finchè non mi viene fame. Non ho fatto la spesa, quindi mi faccio fuori una confezione di noddles istantanei da 75 centesimi e li mangio in una cucina postmoderna con tavolo in cristallo e marmi rifiniti. L’idea di vivere da ricco in una casa di ricchi si scontra subito con la realtà.

Ancora non mi viene niente da dire al cane, così esco un po’ fuori in giardino. E’ una giornata nuvolosa e calda. La piscina è invitante, la temperatura meno. Decido lo stesso di togliere le scarpe (le stesse da tre anni) e immergere i piedi in acqua. Con gli occhiali da sole addosso, la barba lunga e i vestiti sgualciti, sembro un barbone che ha tentato il colpo grosso.

Mentre sono lì, penso ai padroni della villa. Se ne sono andati e hanno scelto me e la mia ragazza come guardiani. Ci pagano 100 dollari per vivere in un posto che non potremo mai permetterci. È la perversione definitiva del capitalismo. Vengo da una sfilza di stanzette e monolocali, quindi so qual’è il mio posto. Posti come il Morgana, sono il mio posto.

Eppure, per un attimo, mi chiedo com’è, come deve essere essere ricchi. Questi, poi, lo sono esageratamente. Sapete dove sono in questo momento? In vacanza, sì d’accordo, ma su un’isola. Non un’isola qualunque: la LORO isola.

Quando ti puoi comprare un’isola, cos’altro ti è rimasto? Come fai coi problemi? Te li crei da solo, paghi qualcuno per creartene, come funziona?

Ok, direte voi: i soldi non danno la felicità, non risolvono tutti i problemi, e poi c’è l’amore la salute la bellezza la verità la nonna in carriola.

In questo momento in Italia il superenalotto è arrivato a qualcosa come 165 milioni di euro e rotti. Una cifra così, uno non sa nemmeno come si scrive, figuriamoci come si vive. Le possibilità di vincere sono le stesse di essere colpiti da un fulmine mentre leggete questa simpatica facezia, eppure giocate. La gente gioca, e sogna.

Alla faccia del fatto che i soldi non comprano la felicità.

Ho fatto un giochetto, ultimamente. Ho chiesto a tutti cosa farebbero la mattina dopo una vincita del genere –la PRIMA cosa che avrebbero fatto appena svegli. C’era chi sarebbe partito per il giro del mondo sull’istante, chi si sarebbe imbarcato in un’orgia di droga, alcol e sesso per qualche mese, chi avrebbe investito tutto in immobili o azioni, chi avrebbe fatto un regalo ad amici e parenti. Ho visto poca follia, ma forse una cosa del genere è già di per sè così folle, che uno nemmeno se la immagina.

Anch’io mi sono chiesto come sarebbe –per gioco, certo, come tutti voi, mentre lasciavo un euro di sogni allo Stato Allibratore. Soprattutto, mi sono chiesto COM’E’ svegliarsi, finalmente, e non avere UN SOLO problema economico al momento. Avere la coscienza che non ci saranno MAI PIU’ problemi per portare a casa la pagnotta. Credete sia poco? Provate ad immaginarvi di essere per tutta la vostra vita in un negozio di giocattoli –solo che stavolta il negozio è per adulti, e voi volete provare tutto. Niente più lavoro, orari, sveglie alle 7, colleghi coglioni capi stronzi, trasferimenti ulcere notti insonni, conti e conticini che non tornano mai, insoddisfazione stanchezza malditesta maldischiena, niente, MAI PIU’. Artefici del vostro destino, come non siete mai stati. Liberi di prendere quella porta e fare un po’ quel cazzo che vi pare. Vi sembra poco?

Quella cosa che si dice, che il lavoro ti dà un’identità, che senza lavoro uno va alla deriva, che ci si ANNOIA (dio mio), che uno a quel punto continuerebbe a lavorare o a studiare per dare un senso alle sue giornate... sono tutte palle, amici miei. Non so chi li ha inventate (anche se un sospetto ce l’ho), anche perchè vi assicuro che i ricchi vivono alla grande anche senza queste cose. Ma tanto, voi lo sapete meglio di me. Ogni giorno celebrate in televisione, sui giornali, nella politica, dei perfetti coglioni che si presentano con la faccia di strani eroi solo perchè vivono la vita che vorreste vivere voi, e spesso non hanno fatto un cazzo per meritarsela.

L’idea che l’uomo deve soffrire, che si deve fare un culo così sennò non è contento, lasciamolo alla religione, ok? Io non credo a niente, se non al fatto che al mio culo ci tengo, e ci tengo che resti bello riposato.

Ora però, seduto a bordo piscina, il mio culo si sta un po’ appiattendo sulla ceramica. Così mi asciugo i piedi ed entro in casa, e nello stesso istante penso una cosa: in tutta la casa, non ho visto nemmeno un libro.

Mi guardo intorno e non ci sono nemmeno quelle finte librerie che si compra sempre la gente coi soldi solo perchè dà un tono all’ambiente (per quello, molto meglio un tappeto). Rifaccio tutte le stanze, finchè nel garage –nel garage- trovo un paio di scaffali con qualche ristampa economica. Non ci sono classici, non ci sono nuovi decenti, niente di niente.

Torno in salone, e il cane mi viene incontro. Lo guardo, lo accarezzo e gli dico: “Meglio il Morgana”.

Accendo la tv e mi rincoglionisco finchè non mi addormento.

Amen.