domenica 17 maggio 2009

Fame

È giorno 17 maggio. È domenica. Uno di quei giorni in cui Dio schiaccia l’ennesimo sonnellino. Uno di quei pomeriggi che ti aggiri inquieto per la casa, che ti prendi in mano l’anima e poi non sai che farne. Una di quelle sere in cui non ti lasci in pace, nemmeno il tempo per andare a dormire.

Mi sento le mani prudere, e la sedia scomoda sotto il culo. Vorrei uscire, vorrei restare, vorrei fare mille cose. Così, finisce che non faccio niente. resto qui, col sole che si avvia al tramonto e che mi sbatte in faccia, ad accecarmi, a ricordare che forse questo giorno non mi sono mai svegliato, come anche quello prima. È un coma scelto il mio, un accozzarsi di pensieri che si riduce poi al mangiare-cagare-dormire, un voler girare la testa dall’altra parte facendo finta di non sospirare. Non mi sentivo così da tanto. Mi ricorda come mi sentivo nel Bucodiculo, tanti e tanti mesi fa. All’inizio del blog, all’inizio del Morgana. All’inizio di tutto.

Ma ora qui non siamo all’inizio.

O meglio, ci siamo, ma siamo anche a una fine. È passato tanto tempo. Mi alzo, mi risiedo, sospiro ancora.

Quello che non doveva succedere ed è successo, quello che desideravi succedesse e si è avverato, quello che preferivi lasciare stare ma così non è stato. Un bel cammino. Una vita che ne valeva. Una vita da raccontare, in chilometri di pagine e notti con la lingua slegata al bar. Ma non adesso.

Capisco che la fine ha un senso. È la logica del mondo dei grandi. Una cosa inizia e finisce. Ma il fatto che sia logico non vuol dire che non faccia male. Siamo dei penitenti ragionati, malati con del sale in zucca. Bel risultato.

Dovrei celebrare, dovrei godere ogni attimo, dovrei fare qualsiasi cosa non mi faccia poi rimpiangere lo starmene qua seduto a guardare il sole morire. Ma non ce la faccio. Comincio, sorrido un attimo, apro il baule dei ricordi, respiro a pieni polmoni, e un attimo dopo mi rendo che tutto questo è fin troppo reale, così tanto che mi devo risedere.

L’Australia è un pasto con troppe portate, troppe per essere gustate tutte insieme, tutte in questi pochi giorni rimasti, e se non posso saziarmi, allora non voglio nemmeno cominciare. Diventerà tutto freddo. Fa tristezza, a pensarci. Ma è inevitabile.

Il sole manda i suoi ultimi bagliori. Fra un po’ dovrà arrendersi anche lui. Fra un po’ la fame passerà anche a lui. A me è già passata, in parte, e in parte sento come se dovessi ancora fare il primo pasto della vita. Nell’attesa mi apro una birra, mentre il sole annega nel mare.

venerdì 15 maggio 2009

15 maggio





Lo so quello che pensi. I compleanni ti stanno sul cazzo. Anche a me, lo sai. Lo sanno anche quelli del Morgana. Ok, allora fai conto che sia una grande festa. Due palle, vero? Lascia perdere tutto, e vieni fuori col tuo compare. portati dietro la birra, ovviamente. Anzi, facciamo che ce ne portiamo fuori un altro paio, ok?


Eccoci. Come va? Meglio? Dai, che almeno la bumba è buona. Aiuta a far passare questa giornata. Non che basti: e oggi forse basta meno che mai. Il numero è di quelli tosti. 30. Trenta, cazzo. Fa effetto solo sentirlo. Come ci si sente? Ho un paio di mesi per scoprirlo ancora, ma potresti dirmelo tu, tanto per prepararmi. Fa paura? Fa ridere? È solo un altro numero del cazzo? Chissà.


Quando ci siamo conosciuti, i 30 erano lontani. Nemmeno ci pensavamo. Eravamo delle rockstar, e le rockstar non campano mai fino ai 30, si sa. Non facevamo progetti, nè lunghi nè brevi.


Facevamo sogni.


Di quelli, non ne bastavano mai. La realtà era che eravamo dei bambini, ma già in lotta col mondo. Dentro di noi c’era il germe della grandezza o della follia. Non ci bastava mai niente. non ci lasciavamo mai in pace. Era un mondo piccolo, freddo, ostile. Ma c’eravamo trovati. Ricordi? Sì, sempre il solito: zoo, genitori, ragazze. Ma c’era quel motorino giallo (di cui andavi fiero senza che ancora abbia capito perchè...), e noi là sopra a cantare, a viaggiare anche se di poco, a cominciare il nostro sogno di rockstar, di rivoluzionari, di sognatori incapaci di redenzione.


No, tranquillo, non ti faccio tutta la nostra biografia. La storia la sappiamo tutti, anche se ogni tanto forse farebbe bene ricordarcela. Non per vivere nel passato, ma solo per capire tutta la strada che abbiamo fatto.


Non siamo mai scesi da quel motorino. Poi è arrivata la Poderosa, e noi di sopra a fare quel viaggio, noi due soli e nessuno ad augurarci buon viaggio, a dirci buona fortuna. Ce la siamo creati da soli, la nostra fortuna, con lacrime sudore sbronze e pazienza.


Viaggiavamo in direzione ostinata e contraria, come sempre.


E quei 15 maggio, in quella città? Ne vogliamo parlare? Sì, bevi bevi. Bevevamo anche allora. Facevamo bere la città intera, in quei giorni. Roma di notte, Salvatore che arrivava sempre per primo, il solito cd di Bob Marley nello stereo, la brocca di gin lemon che andava via nei primi 10 minuti, e le ragazze, tutte quelle ragazze belle e barcollanti, addormentate sul letto, un altro monosorso di tequila, un film alla televisione, e noi che come sempre urlavamo per farci sentire, per fare sentire che ancora eravamo vivi. Quelle non erano solo feste, fratello mio. Quelle erano delle celebrazioni. La vita giocava a nascondersi e noi ridevamo e bevevamo sopra ogni anno che passava. Tutti salivano su questa astronava lanciata nello spazio. Non ci sono mai più state feste come quelle.


Beviamo un po’. Ai tuoi trenta, fratello. Siamo adulti ora, lo sai? Siamo entrati nel mondo dei grandi. Nel mondo dei nostri genitori. E ci siamo entrati come meglio non potevamo: senza un lavoro, senza un progetto, ancora in viaggio in terre che nemmeno osavamo sognare. Molesti e ubriachi e ancora pieni di sogni, come se fossimo sempre rimasti bambini in lotta col mondo.


L’unica cosa certa è che non siamo delle rockstar, vista l’età. Ma forse un po’ lo siamo lo stesso.


Adesso siamo qui. O meglio, tu sei lì, nel deserto. Sei venuto nel mio sogno, e l’hai fatto un po’ anche tuo. Cosa si può chiedere di meglio, tra fratelli?


Siamo riusciti ad essere nello stesso Paese per il 15 maggio, dopo tanti anni. Un Paese dove convivono allo stesso tempo la popolazione più giovane e quella più vecchia del mondo. Australiani e aborigeni. È così che siamo anche noi. Il calendario va avanti, l’orologio non si ferma, e il 30 fa paura. Ma è solo un numero, socio. I capelli bianchi, la stanchezza...è stata una lunga guerra. Lo so, lo sai. Zoo 206 e tutto il resto. Poi pensavamo ad un certo punto che fosse finita.


Come sempre, ci sbagliavamo.


No, non ti ho portato qui fuori per deprimerti. Tanto lo sai anche tu che questa NON è tutta la storia. Siamo dei giovani vecchi, lo siamo sempre stati. Abbiamo visto troppe cose, siamo passati in mezzo a troppa merda. Ma allo stesso tempo ci siamo conservati vivi e freschi come pochi altri hanno fatto. Guardati intorno, guarda quelli che avevano i PROGETTI, quelli che volevano quello di cui noi non ci siamo mai accontentati. Guardali bene, per favore.


E ora dimmi: i nostri 30 anni, sono come i loro?


Siamo riusciti a incassare le fiches che ci restavano e andare a puntarle sul progetto più sballato. Non ci siamo mai fermati, non ci siamo mai arresi. Forse non rockstar, ma almeno un po’ rivoluzionari lo siamo stati, non ti pare?


Non ci siamo mai fatti prendere.


E abbiamo vinto, fratello mio. Qualsiasi cosa succeda, manda giù questo: abbiamo vinto.


A volte è dura, mantenere i propri sogni in piedi. Ma siamo qui per questo. Troveremo sempre un modo.


La birra virtuale è quasi finita. Tu goditi il deserto, socio. Goditi il semplice fatto che stai prendendo ancora una volta per il culo il tuo destino. Che non sei lì dove tutti vorrebbero che tu fossi. Che sei ancora vivo. Che non è così importante che qualcuno ci dica buona fortuna. Che una birra dal compare la puoi sempre trovare, vera o virtuale.


Lasciami dire una cosa sola –al Morgana capiranno, non hanno la puzza sotto al naso.


Lasciami dire che sei un grande.


Buon compleanno, fratello.


Ci vediamo al solito bar, quando torni.



Barriera





Ho un pensiero, per ora. Ne ho diversi, veramente. Qualcosa che non mi piace. Non sono il solo ad averli. Per scacciarli tolgo l’occhio dal calendario e mi racconto delle storie. Ricordo. Cose piccole, vicine e lontane.


Mi è venuto in mente allora come da piccolo amavo il mare, e soprattutto mi piaceva fare immersioni con la maschera. Mi dava un senso di pace, attutiva i rumori e mi faceva entrare in un mondo che mi sembrava solo mio. Come scrivere una poesia, in fondo.


Amavo esplorare quei fondali, fare caso ad ogni minuscolo dettaglio. Restavo lì oltre il momento in cui le dita mi si rattrappivano tutte, oltre anche il momento in cui venivo richiamato perchè era il momento di andare a casa. Mi piaceva davvero stare lì. L’unica cosa era che in quel mare lì non c’era un cazzo da vedere. Era il fondale più noioso, inutile e sporco che si possa immaginare. Invece delle meduse, beccavo i sacchi di plastica. Perfino i pesci erano rari e brutti. Ma ero un bambino, e sognavo mondi lontani già, sognavo i tropici, sognavo di vedere pesci colorati e strani, e fondali oscuri e meravigliosi, sognavo la barriera corallina.


Ma giorno dopo giorno scoprivo che lì non c’era proprio niente da vedere. Solo sabbia, pietre e un paio di pesci verdastri. Punto. Niente barriera corallina, da quelle parti.


Ricordo un giorno che i miei amici di allora erano andati alla spiaggia di Tarantonio. Al ritorno mi avevano raccontato tutto. Dicevano che lì la sabbia era diversa, più fina, e che si toccava fino al largo. Tarantonio non distava da quella spiaggia più di un chilometro, eppure dopo quella storia per me era diventato come i tropici che sognavo. La sabbia fina? Toccare fino al largo? Wow!


Quel giorno mi immersi, ma uscii dall’acqua che le dita non si erano ancora ridotte a una spugna. Adesso mi annoiava, immergermi là. Volevo di più. Adesso che sapevo che là fuori c’era un mare con la sabbia fina –o almeno, più fina di dove mi trovavo- e che potevi toccare fino al largo, volevo andarci anch’io. Volevo vedere. Volevo esplorare.


Sognavo. Un giorno avrò anch’io la mia spiaggia di Tarantonio, mi dicevo.



Un mese fa mi trovavo su questa barca. Stavamo puntando verso il largo. Fuori pioveva, e subito dopo veniva fuori il sole. Sapevo che era normale. Ai tropici funziona così, il tempo.


Quando la nave si è fermata ho indossato maschere e pinne come tutti quanti, e mi sono tuffato nell’acqua calda, trasparente. Una volta immerso, si vedeva solo blu. Ho cominciato a nuotare in una qualche direzione, e alla fine c’ero. Stavo nuotando sopra la barriera corallina. Anni dopo, eccomi là.


Avevo occhi un po’ rovinati da questi anni ch si sono piantati in mezzo, ma lo stesso dentro di me godevo di quella vista. Dentro di me c’era ancora quel bambino che sognava la spiaggia accanto.


Ho nuotato per ore, senza mai fermarmi, senza mai stancarmi. Era una meraviglia, meglio ancora che nei miei sogni di bambino. Era qualcosa che valeva la pena vedere. Valeva la pena arrivare fin qui.


Sono rimasto a nuotare in quel blu perfetto, tra pesci esotici e coralli di ogni colore forma e dimensione, finchè le dita non mi si sono rattrappite tutte. Ho nuotato mentre dalla nave mi chiamavano per dirmi di tornare.


Tornando mi sentivo come se avevo chiuso un cerchio, ma solo uno dei tanti. Quel giorno da bambino avevo capito che il mio mondo non finiva là, in quella spiaggia di sabbia e pietre tutte uguali. Avevo i tropici nel cuore, e non mi sarei accontentato di niente di meno.


E adesso c’ero. Qualsiasi cosa succeda, sono arrivato in quel mondo che sognavo. Qualsiasi cosa succeda, nessuno me lo può portare via questo. Sapere che c’è ancora qualcos’altro da vedere e vivere, è quello il trucco.


Non fermarsi mai.


Non so perchè ho raccontato questa storia. Non so neanche se c’entrano tanto i pescie e la barriera corallina, con tutto quello che ho in testa. Forse non aveva senso. Ma forse, chissà, un senso poteva anche avercelo.


Intanto i pensieri restano.


Continuo a ricordare, continuo a scavare...


Scritto sulla sabbia



Che il bello e l'incantevole
Siano solo un soffio e un brivido,

che il magnifico entusiasmante
amabile non duri:
nube, fiore, bolla di sapone,
fuoco d'artificio e riso di bambino,
sguardo di donna nel vetro di uno specchio,
e tante altre fantastiche cose,
che esse appena scoperte svaniscano,
solo il tempo di un momento
solo un aroma, un respiro di vento,
ahimè lo sappiamo con tristezza.
E ciò che dura e resta fisso
non ci è così intimamente caro:
pietra preziosa con gelido fuoco,
barra d'oro di pesante splendore;
le stelle stesse, innumerabili,
se ne stanno lontane e straniere, non somigliano a noi
- effimeri-, non raggiungono il fondo dell'anima.
No, il bello più profondo e degno dell'amore
pare incline a corrompersi,

è sempre vicino a morire,
e la cosa più bella, le note musicali,
che nel nascere già fuggono e trascorrono,
sono solo soffi, correnti, fughe
circondate d'aliti sommessi di tristezza
perché nemmeno quanto dura un battito del cuore
si lasciano costringere, tenere;
nota dopo nota, appena battuta
già svanisce e se ne va.

Così il nostro cuore è consacrato
con fraterna fedeltà
a tutto ciò che fugge
e scorre,
alla vita,
non a ciò che è saldo e capace di durare.

Presto ci stanca ciò che permane,
rocce di un mondo di stelle e gioielli,
noi anime-bolle-di-vento-e-sapone
sospinte in eterno mutare.
Spose di un tempo, senza durata,
per cui la rugiada su un petalo di rosa,
per cui un battito d'ali d'uccello
il morire di un gioco di nuvole,
scintillio di neve, arcobaleno,
farfalla, già volati via,
per cui lo squillare di una risata,
che nel passare ci sfiora appena,
può voler dire festa o portare dolore.
Amiamo ciò che ci somiglia,
e comprendiamo
ciò che il vento ha scritto
sulla sabbia.


Hermann Hesse da La felicità, versi e pensieri

domenica 10 maggio 2009

Per Jonothan (italian version)

Il popolo aborigeno trasmette il sapere, i mestieri e le esperienze legate alla propria cultura e alla propria terra verbalmente – generazione dopo generazione. Non hanno libri di storia. La comunicazione verbale è tutto ciò che hanno per mantenere queste informazioni cruciali. Senza di questa, perderebbero tutto.
Ho incontrato un uomo stanotte. Ammetto di avere bevuto un po’, quindi il mio giudizio potrebbe suonare un po’ traballante. Nonostante tutto, quest’uomo è stato il migliore che io abbia mai incontrato. Vicino ai 90, portava (con orgoglio) un paio di baffoni degni di Mister Kentucky.
Jonothan era il suo nome.
Jonothan e la moglie avevano deciso di non avere figli. Tuttavia, mentre gli anni passavano, i due realizzarono che in fin dei conti avrebbero davvero voluto avere dei bambini, ma per allora era ormai troppo tardi e Jonothan e la sua amata moglie non potevano più concepire.
La moglie di Jonothan è morta 18 mesi fa. Lei era figlia unica. Lui era figlio unico. Il suo migliore amico è morto tre anni fa. Jonothan non ha avuto figli. Non ha una famiglia.
Jonothan non potrà trasmettere la sua storia, così ho pensato di dargli una mano.
Ho incontrato Jonothan alle dieci di un venerdì sera alla fermata dell’autobus. Era stato al suo club, perchè ogni secondo venerdì del mese lì tengono un ballo per i veterani e i loro amici. Jonothan va lì a ballare, a parlare, a cercare di non sentirsi solo, a far passare le settimane.
Nessuno aveva voluto ballare con Jonothan quella sera.
Nessuno vuole mai ballare con Jonothan.
Nessuno aveva anche solo voluto parlare con Jonothan. Probabilmente pensavano fosse un vecchio un po’ andato e con cattive intenzioni. La verità era che aveva solo bisogno di un amico.

Aveva perso la cosa migliore che gli fosse mai successa 18 mesi prima, e io ero una delle prime persone con cui era riuscito a parlarne. Io, un’estranea alla fermata dell’autobus.

Jonothan e sua moglie si erano incontrati a Surfer Paradise, molti anni fa. Sebbene entrambi australiani, i due si trasferirono rapidamente in America non appena sposati. Prima New York, poi Washington. Lei lavorava alla World Bank, mentre Jonothan cambiò diversi lavori negli anni –ambasciata italiana, quella inglese, le Nazioni Unite... Poi Jonothan fu chiamato in guerra.

Jonothan e sua moglie si trasferirono nuovamente in Australia, una volta finita la guerra.

Jonothan non marcia mai nella parata dell’ “Anzac Day”. Quando ingenuamente gli ho chiesto il perchè, lui mi ha spiegato che la guerra è qualcosa che lui amerebbe dimenticare –non ricordare ogni anno. La frase “Mai dimenticheremo” è uno schiaffo in faccia ogni 25 di Aprile.

Jonothan era un eroe silenzioso. Molti nel suo battaglione conoscevano lui, ma lui non conosceva niente di loro.
Jonothan ricevette tutte queste medaglie in una deliziosa scatola bianca negli anni Cinquanta. Non sa come sono fatte le medaglie. Non ha mai aperto quella scatola.

Tutto quello che Jonothan vuole fare nel tempo che gli resta da vivere è un ultimo viaggio in America.
Per ricordare.
Pur essendo disposto ad accollarsi tutte le spese di viaggio, non riesce a trovare una sola persona che voglia fare quest’ultimo viaggio con lui.

Jonothan, ho fatto del mio meglio per raccontare la tua storia. Nella mezz’ora in cui sono riuscita a parlare con te, mi hai toccato il cuore come la persona più incredibile e coraggiosa che io abbia mai conosciuto. Grazie per avermi raccontato la tua storia. Spero che ce la farai ad andare in America.
Per ricordare.

Mai dimenticheremo.


Rebecca

domenica 3 maggio 2009

For Jonothan



Aboriginal people pass on their knowledge, skills, and experiences of their culture and land verbally - generation through generation. They have no history books. Verbal communication is the only way in which this critical information can be maintained – without it, they are lost.
I met a man tonight. Admittingly, i was a little drunk, so my judgement may be shaky. Even so, this man was the best i’ve ever met. He’s coming close to 90, and carries (with pride) a moustache like Mr Kentucky himself.
Jonothan is his name.
Jonothan and his wife decided not to have children. However, as the years passed, they realised that they did infact want children but by this time it was too late and Jonothan and his lovely wife could not conceive.
Jonothan’s wife passed away 18 months ago. She was an only child. He is an only child. His best friend died three years ago. They had no children. He has no family.
Jonothan cannot pass on his story, so I thought i’d give it a go.
I met Jonothan at the bus stop at 10 pm on a Friday night. He had been down at the union, because they hold a dance there every second Friday night for veterans and their mates. Jonothan goes there to dance, to talk, to not feel lonely, to pass the weeks.
Nobody wanted to dance with Jonothan tonight.
Nobody ever wants to dance with Jonothan.
Nobody wanted to speak with Jonothan tonight. I think they thought he was just a senile old man with bad intentions – the truth is, he just needed a friend.

He lost the best thing that ever happened to him 18 months ago, and i was one of the first people he was able to talk about it with. Me, a stranger at a bus stop.

Jonothan and his wife had met at Surfers Paradise, many many years ago. Though both Australian, they quickly moved to America just after they were married. First to New York, then to Washington DC. She worked in the World Bank, while Jonothan held many different jobs over the years – italian embassy, british embassy, the United Nations....Then Jonothan was called to war for a little while.

Jonothan and his wife moved back to Australia when the war ended.

Jonothan never marches in the ANZAC day parade. When I naively asked him why, he explained that the war was something he’d love to forget – not be reminded of every year. The phrase “lest we forget” is a slap in the face every April 25th.
Jonothan is a silent hero, many in his battalion know him, while he does not know anything about them.
Jonothan received all his medals in a lovely white box in the 1950’s – he doesn’t know what these medals look like, he’s never opened that box.



All Jonothan wants to do with the rest of his days is to do one last trip to America. To remember.
Even on an all expenses paid trip to America, he cannot find one person willing to go with him on one last journey.

Jonothan, I tried my best to retell your story. In the 30 minutes that i was able to speak to you, you touched my heart as the most amazing and courageous person i’ve ever met. Thankyou for telling me your story, I hope you make it to America - to remember.

Lest we forget.
Rebecca