sabato 9 febbraio 2013

Uomini soli

Gli uomini soli, la sera, si guardano intorno senza sapere che fare. Hanno detto di no a chi chiedeva loro di uscire, e restano ad aspettare che la notte allarghi le braccia e li stringa fino a soffocare.
Gli uomini soli, la sera, guardano casa come fosse la prima volta, ed ogni oggetto parla invece delle loro assenze.
Gli uomini soli, la sera, rimandano finchè non è troppo tardi. Impegnano la mente con film, con libri, con cose da poco che però li aiutino nel compito più difficile: quello di dimenticarsi che sono uomini soli.
Gli uomini soli, la sera, pensano al come lo sono diventati –che sia stato un amore mai cominciato, uno già finito, oppure un altro messo in pausa tra le stelle. Pensano a come sono arrivati fino a quel punto, e quando le risposte non arrivano, ne fumano un’altra e portano avanti la loro notte con film, libri e cose da poco conto.
Gli uomini soli, la sera, potrebbero parlare con qualcuno, ma non saprebbero cosa dire. La loro mancanza li denuda, li imbarazza e li rende incapaci ad esprimerla. Non resterebbe che riproporre un’altra versione di quello che è successo, finchè non resta tra le mani solo una copia sbiadita il cui senso è stato perso tempo fa. Un gioco pericoloso, in cui potrebbero perdere ricordi buoni, motivi e perfino sè stessi. Ecco perchè gli uomini soli, la sera, non rispondono al telefono.
Gli uomini soli, la sera, hanno un loro dolore speciale, e sanno che le donne soffrono allo stesso tempo in un modo tutto loro –diverso, più elaborato, meno di pancia. Le donne mostrano coraggio e scelte. Gli uomini negano, si ritirano e sono sicuri che il tempo risolverà ogni cosa.
Gli uomini soli, la sera, hanno sempre una scorta di cibo già pronto e un’altra di drink. Gli uomini soli hanno più sete che fame.
Gli uomini soli, la sera, sono santoni, sono poeti, sono fancazzisti e puttanieri. Sono geni dimenticati, amanti dimenticati, padri dimenticati.
Gli uomini soli, la sera, sono capistazione della loro anima.
Gli uomini soli si intestardiscono, ci pensano con rabbia, poi lasciano perdere, si distraggono, bevono, poi ci tornano sopra finchè la sera non diventa insonnia e l’insonnia solo un’altra giornata da digerire male.
Gli uomini soli, di sera, sono ancora più soli.

martedì 5 febbraio 2013

Un drink (racconto)


E’ successo molto tempo fa. I fuochi d’artificio dovevano fare ancora la loro comparsa. Per evitarli, ci eravamo rinchiusi nel primo pub che avevamo incontrato. Non c’era molto da fare. Eravamo giovani, a quel tempo.
«Che prendi?»
Jack Daniels, risposi, e me ne andai subito in cerca di un tavolo. Era un giorno di festa e il locale era pieno. Alla fine trovai un tavolino lontano da tutti, e accanto solo un tizio che stava ciucciando con calma dal suo bicchiere. Mi sedetti, facendo finta di aspettare gli altri. Da fuori arrivavano i rumori dei giochi, della notte, del mare. Era un buon posto, quel pub. Peccato che prima o poi avrebbe chiuso. Cose a cui si preferiva non pensare –non prima di un paio di giri.
«Che bevi?» mi chiese il tizio, dopo un po’. Avevo il mio bicchiere. Gli altri dovevano ancora arrivare.
«Qualcosa di buono».
«Bene» disse lui.
Non parlammo per un pezzo. Mi accesi una sigaretta, mentre buttavo giù la bumba. Come detto, non c’era molto altro da fare. Il caldo era sopportabile, lì dentro. Non si poteva dire lo stesso del rumore.
«Io bevo la Felicità» disse il tizio.
«Come?»
«Io bevo la Felicità» ripetè quello.
«Ah. Mi era parso»
«Non sono pazzo. È il nome del cocktail.»
«Ah sì?» dissi.
«Sì»
«E cosa c’è dentro?»
«Vodka, limone, e altre cose che non so»
«Se le sapessi, che felicità sarebbe?»
«Come?»
«Io sono Marco» dissi.
«Io Milo»
«Buona Felicità, Milo»
«Alla tua»
Restammo a bere ancora un po’, in silenzio. In sottofondo, ancora il casino di fuori. I miei amici non si vedevano. Che avessero cambiato idea, all’ultimo?
Non era cosa che mi interessava. Mi accesi una sigaretta e ordinai un altro giro.
«L’altro giorno mi sono fatto un Amore» disse Milo.
«Davvero? Sei il primo che ci riesce, tra quelli che conosco»
«Non era male»
Sorseggiò ancora dal suo bicchiere. La mia bumba arrivò.
«Mi sa che ci hanno messo rum e altra roba»
«Mi sa che non lo sanno nemmeno loro, che cosa ci hanno messo»
«Ma era buona»
«Non stento a crederlo, Milo»
Milo guardava fisso davanti a sé. Era grasso, calvo, e notevolmente sbronzo. Da quella parte però il locale era un po’ buio. Non si poteva mai dire. Sembrava pazzo, ma anche questo voleva dire poco. Fuori c’erano giostre e gente che urlava e musica a tutto volume e cose che finivano. Erano quelli i normali?
«E Dio?» gli dissi.
«Cos’è? Un cocktail?»
«Sì»
«Cosa c’è dentro?» chiese Milo.
«Tequila e assenza»
«Sembra buono»
«Solo all’inizio» risposi.
«Cioè?»
«Il gusto che lascia in bocca è amarissimo»
Non dicemmo altro per un po’. Ne ordinai un altro.
«Basterebbe un Serenità, forse» disse Milo.
«Che roba è?»
«Curacao, champagne…»
«Fermati. Già così non mi piace»
«Neanche a me, sai? Ma mi hanno detto che è buono»
«Non credere a tutto quello che ti dicono, Milo»
«Neanche a questo?»
«Neanche a questo.»
«Forse un Serenità ci farebbe bene»
«Forse. Chi lo sa»
Non dicemmo niente. Da fuori ancora la gente che camminava, la gente che urlava, la gente che comprava. I bambini che piangevano, la ressa, i dolci, la puzza di fritto. Il mare. Ragazzi e ragazze. Il sottile rumore di stelle barcollanti e cadenti.
I miei amici non sarebbero più venuti, lo sapevo. Sentii qualcuno vomitare, fuori dalla porta del pub. I singulti erano ritmici, quasi melodiosi. Sincronizzati col cielo e le onde.
«Cosa mi consigli, allora?» dissi alla fine.
«Dipende cosa ti piace» disse Milo.
Era al buio. Non potevo vederlo. Ordinai un whisky.
Milo si fermò. Ne aveva avuto abbastanza. Forse era già troppo felice. Non si poteva mai sapere. Gli offrii una sigaretta, ma rifiutò.
«Non ho mai provato Amore, a essere sinceri» mi disse, senza che gliel’avessi chiesto.
«Non importa»
«Importa a me»
«E’ quello il guaio»
Mi alzai e andai in bagno, con lo stato d’animo di chi ha lasciato perdere tutto. Quando bussavano per sapere se era occupato, non rispondevo. Anche quello era troppo. Facevo solo quel che dovevo fare. Tornai al tavolo. Milo sembrava essere da un’altra parte. Chiesi un altro bicchiere, lo bevvi, fumai una sigaretta. I rumori fuori non accennavano a diminuire. Allora chiesi il conto, pagai, pisciai ancora e andai via.

Marco Zangari © 2006


lunedì 4 febbraio 2013

La stanza dello stucco

Di solito le camere di un'hotel sono numerate.
Questo albergo, però, è così vecchio e saggio che forse può starci avere una stanza senza alcun numero. La targa sarebbe scolorita dal tempo e graffiata dalle risse passate, da piatti scagliati dalle mogli verso i mariti, dalle urla di bambini che giocavano a farsi paura, dagli artigli di gatti che correvano lungo il corridoio inseguiti da cani e da porci.

Ci sta, in tutto questo affascinante abbandono, che io mi svegli di colpo in quella stanza, oltre quella porta con la targa ormai andata ed inutile. Una stanza nuova, provata una notte quasi per gioco, in balia di un sogno, dell'alcool, d'un'inquietitutine d'animo o d'un delirio di onnipotenza.

Ora è lì che mi sveglio, nella mia nuova stanza. Guardo il soffitto come fosse sempre lo stesso, ma non è così. Mi alzo e accendo il termosifone, guardandomi intorno, affatto sicuro di come le coperte, quel poster e la bandiera australiana abbiano fatto a raggiungermi qui.

Eppure è qui che ora sono, nella Stanza dello Stucco: una camera dal nome semplice ma misterioso, che sta all'ottavo piano, un piano oltre il settimo cielo e due sopra il sesto senso. Le pareti non sono perfette e il pavimento è opaco. Il giorno la luce la invade, eppure il sole non la degna nemmeno, la notte il balcone s'affaccia su un mare di luci, migliaia di piccoli fuochi che spirano verso il mattino e lasciano una coltre bassa di fumo, a volte così spessa che puoi sognare di essere sopra le nuvole, nonostante dalle profondità dell'inferno la metro sappia ancora farsi sentire.