domenica 20 novembre 2011

Bianco Rosso e Coglione

Il fine settimana inizia a modo suo in un hotel a Five Dock, in una delle tante Little Italy di Sydney. Io e lei seduti al tavolo, come se fosse un matrimonio, anche se il titolo dell’iniziativa parlava di Primavera, aria fresca, cose nuove. Il cibo è italiano, così come lo intendono qui –accanto alle lasagne troviamo il pollo “tandoori” all’indiana, con le cotolette alla milanese c’è l’insalata cinese. E’ un misto ed è giusto, qui nella terra multiculturale. Mi prendo un bicchiere di vino australiano e mi guardo intorno. Le facce hanno tratti comuni, le vecchiette potrebbero essere tutte tue nonne così come la vecchia scassaballe del piano di sotto. Non si sente parlare altro che inglese in giro, ma ogni tanto serpeggia una parola di dialetto, una scoreggia in siciliano, una pernacchia in veneto. La aspiriamo e continuiamo a troncare le parole alla maniera aussie.
Quando abbiamo la panza piena, cominciano i balli. Toto Cutugno, Modugno, la playlist dell’emigrante tira ancora forte da queste parti. Sento anche Nek, non capisco cosa c’azzecchi ma lo balliamo lo stesso –forte però, quel vino lì. Vanno alla grande i successi dance degli anni Settanta-Ottanta. Li ascolti e vedi i tizi sulla pista da ballo –impomatati, col parrucchino, indosso camicie ridicolmente attillate e aperte sul davanti- e ti rendi conto che questa è la musica che si sentiva quando loro sono emigrati, e in qualche modo tutto sembra cristallizzato a quel periodo –l’Italia, l’Australia, la loro giovinezza, i loro figli e nipoti e pronipoti.
Sul soffitto ci sono palloncini bianchi, rossi e verdi, che a tratti sembrano l’unica cosa che ti ricorda che lì si celebra l’Italia –ma un’Italia di polistirolo, un’Italia da cartolina ingiallita, da pallina con dentro la neve finta e sullo sfondo i palazzi, i panorami, i paesini dai nomi ridicoli che qui sembrano capitali mondiali, e tra la neve finta, il polistirolo, la mamma lontana, Italiani Brava Gente, la musica di Al Bano, le scuole di ballo, i movimenti di mani come a dire chissenefrega, la patria lontana, il Dio lontano, il tiramisù che passa tra i tavoli e la voglia di limoncello come frutto esotico e perverso, ci portiamo tutti addosso la croce di un Paese che non è mai esistito, se non nei racconti che ne facciamo, aumentando generosamente dimensioni e colori ogni volta che apriamo bocca. Quando i giovani vincono cantando “Volare”, io e lei capiamo che è ora di andare via, ed in culo tutti i posti di blocco.
In macchina ascolto musica, penso che a nessuno è venuto in mente di cantare “L’anno che verrà”, “Io non mi sento italiano”, “Goodbye Malinconia”, chessò, “La domenica delle salme”. L’immagine che vogliamo preservare è quella di verginella prima della comunione, allegra e genuina. Nessuno parla della sua troiaggine, del fatto che è sfondata, e si capisce perchè. Fare l’emigrante è un duro lavoro, un lavoro del cazzo, che ti prende le 24 ore, e che nessuno capisce. Partivi un secolo fa, partivi 30 anni fa, parti adesso, ed è come se non fossi mai partito. Nessuno sa niente di te, e tu pensi di sapere tutto su loro. Che equivoco, che polistirolo, che notte quasi ubriaca, ma troppo troppo lucida per me.

Ci svegliamo la mattina dopo, un po’ incartati, e quello che vedo quando accendo il computer qui, a latitudini australi, è una folla che festeggia, che stappa bottiglie, che canta ABBIAMO UN SOGNO NEL CUORE, BERLUSCA A SAN VITTORE. Sembra che sia cambiato qualcosa, che il sonno forse sia finito, o magari continua in maniera diversa. Ripenso ai palloncini, bianchi rossi verdi. Vedo la bandiera nelle strade, in mano a quelle che sono stati definiti coglioni, e che nei giorni seguenti saranno ancora chiamati così. Coglioni, per aver aspettato sotto il balcone una Rivoluzione che non è mai arrivata, col dubbio che forse forse, magari sarebbe stato meglio se l’avessero cominciata loro. Coglioni perchè hanno sopportato il sopportabile e un po’ di più, mentre i palloncini volavano in cielo e la neve finta si accumulava fino alle ginocchia. Coglioni perchè si erano macchiati della colpa della precarietà, che è la peggiore in quest’Italia mediocre. Coglioni che festeggiano, che urlano, e la loro gioia mi mette allegria, mi fa pensare che la notte, australe o italiana, da qualche parte forse finirà. Coglioni che cantano e ridono mentre chi li ha chiamati così scappa dalle uscite secondarie come i topi dalle navi che affondano.
Coglioni che cantano, e stasera-stamattina questo sembra importante, sembra tutto, sembra fresco e pulito, sembra parlare di futuro dopo aver guardato solo al passato.
Coglioni che hanno sempre cercato un loro posto, come me, che ho dovuto rincorrerlo dall’altra parte del mondo, che sono dovuto andare via mentre quelle facce sempre-le-stesse ingrassavano anche su di me, che si facevano più vecchie e oscene e ora qualcosa le ha mandate via, forse non per sempre, forse nemmeno a lungo, ma stanotte-stamane è solo nostra, e ce la godiamo finchè dura.

Mi vesto, mi preparo e con lei andiamo a nord, verso l’equatore, in questa linea calda di una domenica calda di novembre. Gli ubriachi festeggiano ancora a Roma mentre faccio il check-in all’albergo e sono pronto a lanciarmi nel “Festival dell’Ostrica” che c’è di sotto. C’è anche un Wine Tasting, così prendo il mio bravo bicchiere e giro tra gli stand, e presto sono ubriaco come tutti gli altri in canotta e ciabatte, a festeggiare con loro che non sanno.
Nessuno qui sa quello che è successo in Italia. Nessuno sa dei coglioni in piazza e del furbo che è scappato –e coglioni e furbi stasera si scambiano i posti. L’atmosfera è festosa, oltre che brilla. C’è musica dal vivo, risate, c’è calore, si sta bene. Una bambina dice al telefonino –i miei sono tutti e due sbronzi da qualche parte. Comincia la gara di chi mangia più ostriche in meno tempo. Offerta speciale per il vino frizzante. Hotdog tedeschi originali. C’è un posto italiano, fanno la pizza, ma la gestiscono degli asiatici. C’è una compagnia che sponsorizza crociere. Ecco, mi dico. Butto giù il bicchiere e vado. Mi propongo come cantante nelle loro navi. Magari posso raccontare anche barzellette. Non ho con me curriculum o niente, ma solo sorriso e faccia tosta. Basta questo.
Sì, vado. Da qualche parte bisogna pur (ri)cominciare.
Scappato un Coglione, ne serve subito un altro. Così funziona.
Ci vediamo quando scendo in campo.

lunedì 14 novembre 2011

Parla con me

Parla con me – 24-09-2008

La ragazza col bicchiere d'acqua...
Si?..
Se sta un pò di lato è forse perchè sta pensando a qualcuno..
Mh..a qualcuno del quadro..
No.. piuttosto a un ragazzo incontrato altrove..ma...lei ha l'impressione di essere un pò simile a lui..
In altri termini lei preferisce immaginare un rapporto con qualcuno che non c'è piuttosto che creare un legame con quelli che sono li con lei..
Magari è il contrario...si fa in quattro per risolvere i pasticci della vita degli altri.
Si, MA LEI? dei pasticci della sua vita chi e che se ne occupa?
Si ma... è meglio consacrarsi agli altri che a un nano da giardino..


Sette anni fa circa, in un giorno di ottobre mi pare di ricordare, la nuova professoressa di italiano ci portò i compiti che avevamo fatto la settimana prima, corretti. Era tutta un'emozione perché era nuova e aveva una delle peggiori reputazioni della scuola: severa, rispettabile, tostissima. La tensione era palpabile, arrivava al limite del terrore per alcuni, quelli che di scrivere non ne volevano sentir parlare; gli altri, quelli che un po’ se la cavavano, stavano in quella condizione psicologica nota come “ansia da prestazione”. Ci dicevamo: "Sta tizia ha letto i nostri scritti passati, ha letto le nostre pagelle, un'idea se la sarà fatta e avrà agito di conseguenza". O almeno è quello che si sperava.
Le mie mani sudavano mentre il compito, partito dall'ultima fila, di mani in mani, sudate quanto le mie, arrivava finalmente, un po’ più umido di quando era partito, sul mio orgoglioso primo banco.
Mai stata secchiona io. Per questo mi ero imposta di mettermi al primo banco. Per autolimitarmi. Per autodisciplinarmi. Perché la mia attenzione sarebbe dovuta essere costante dalle 8,10 alle 13,30 (intervallo escluso).
Il mio compito dunque arrivò, piegato a metà. Non c'era scritto nulla, dovevo solo girarlo e, accanto al mio nome e cognome, avrei trovato il voto scritto con la penna rossa.
Le facce attorno a me iniziavano a scurirsi, come se un'onda gelida da quell'ultimo banco ci avesse investiti tutti, fino al primo banco.
Respiro profondo. Aspetta aspetta. Non posso guardare. Altro respiro profondo...

...

...

3.

...

Tre?

Che significa tre? Sai quando ti cade in testa un punto interrogativo che sa più di un'incudine da 100 tonnellate alla Willie Coyote? Ehi scusa tu...professoressa dei miei coglioni! Tu non sai chi sono io! Io avevo 9 in italiano sai?

...

Poi rifletto... avevamo fatto andare via la vecchia prof. di Lettere perché secondo noi era ignorante. Mh...rifletto ancora... Ma se lei era ignorante...i nostri giudizi saranno stati mica falsati dalla sua ignoranza...Nooooo!

Allora mi alzo di scatto diretta alla cattedra, supero gli zaini a terra, mi divincolo dalla mano che cerca di afferrarmi la spalla (era la mia amica paura), arrivo davanti a lei e...

Sorrido.

Cara, amatissima professoressa, per quale cazzo d motivo (no, questo non l’ho detto) mi ha messo 3 al compito di italiano, avendo inoltre avuto il coraggio di rovinare l'arte grafica del mio tema su TUTTE le facciate e TUTTE le righe con la sua preziosissima penna rossa? Eh?! Mi dia una motivazione plausibile, oltre ogni RAGIONEVOLE DUBBIO.

Noemi, mi dice. Mi chiama per nome lei.

"Noemi, tu non hai il minimo senso della sintassi, non c'è mai un soggetto definito nelle tue frasi, è illogico, completamente evanescente, capirei questo scritto solo se ti leggessi nella mente.
In altre parole, tu SCRIVI COME PENSI"
.

Un groviglio senza né capo né coda, io che mi faccio 10 miliardi di pensieri al nanosecondo, scrivo di immagini senza volto, di luoghi senza colore, di emozioni senza cuore, di pensieri senza logica.

Ho continuato a scrivere così per parecchio tempo, nonostante fossi diventata col tempo e l'esercizio abile maestra nell'analisi del testo, tanto che all'esame di stato mi ero avventurata in una solitaria strada alberata che portava a un cantico del paradiso di Sua Santità Dante Alighieri. Nonostante la stessa amatissima prof, avesse sconsigliato a tutti di avventurarsi per quella strada, specie senza suggerimenti, libri, dizionari o supporti orali.

Uno scontro con la lingua italiana in persona.

Quindicisuquindici.

Probabilmente scrivo così ancora adesso. Ma il blog mi da la possibilità di fare meglio.

Questo post è dedicato ai miei compagni di viaggio.

Qual è la REALE ragione che ci spinge a scrivere su un blog? A scrivere delle nostre vite, dei nostri pensieri sul mondo, su una monetina, su una pietra che saltella sull'acqua, sul suicidio cellulare, su una vecchietta che si sente male in chiesa, sui nostri genitori, sui viaggi, gli anfibi, le matite, le serate alcoliche.

Qual è lo stimolo che ci spinge a condividere?

Cos'è la condivisione? Cosa l'ermetismo?

Abbiamo bisogno di farlo uscire, di palesarlo ai nostri occhi per palesarlo alla nostra coscienza, come quando diciamo qualcosa a qualcuno per ammetterla a noi stessi.
Abbiamo bisogno di leggere il commento sotto, per ampliare il concetto, per trovarne nuove chiavi di lettura, per trovare lo scontro, l'opinione opposta e integrarla nel pensiero finale, per tirare le somme.
Per trovare approvazione.
Per trovare calore.
Per trovare un sorriso che ci immaginiamo fatto ad un monitor, un battito di cuore accelerato non udibile se non al nostro petto.
Per superare le nostre privatissime solitudini.
Per tentare l'esperimento della comunicazione con il filtro del monitor quando quella nel mondo reale è stata fallimentare o non del tutto completa. E non perché siamo dei disadattati. Forse qualcuno si. Magari perché ci siamo sempre crogiolati nella nostra solitudine mentale, nel nostro sentirci diversi. E per chi non è riuscito a porre rimedio a questa condizione, costruendo dei rapporti di vera comunicazione nella vita privata, il dialogo, col tempo, è diventato monologo.

E il cuore diventa secco e fragile, direbbe l'uomo di vetro.

Abbiamo bisogno di scriverlo per rileggerlo, emozionarci dell'emozione, del ricordo, imprimerlo su carta o lanciarlo spedito nell'etere, come a conservare quell'attimo preciso, quell'emozione precisa, quella lacrima precisa, quella risata precisa. Quella, non un'altra presa a caso nell'infinità dei nostri ricordi.

Perché poi è tutto un incedere, una cavalcata di minuti che passano, e mentre sei nell'autobus e hai il lampo di una considerazione inizi a sorridere, inizi a pensarla come già scritta, inizi a pensare come scrivi.

E quella carissima e amatissima prof. dalla penna rossa la vado a trovare tutti gli anni a settembre e a maggio, tutti gli anni, nella mia vecchia scuola. Ci raccontiamo i progressi, conosce la mia vita. E l'altro giorno mi ha detto che quello che ho fatto e che sono diventata è straordinario e che farò cose grandi nella vita. Quasi piangevo.

P.S. Questo post l'ho scritto come l'ho pensato. Mi sono presa questa libertà. Non me ne vogliate.


Nuovo P.S. Questo post è datato 2008, è una edizione re-mastered. E io? Io sono Morgana. E sono rimasta dieci minuti col mouse sul pulsante "Pubblica post" prima di pubblicarlo davvero.

sabato 12 novembre 2011

Cose che non dimentico

Sapevo che un giorno avrei scritto di questo. E sapevo anche che ci sarebbe voluto del tempo.
Ora di tempo ne è passato –quasi due anni- ma sembra ieri. Chissà perchè, le gioie sembrano sempre lontane nel tempo, mentre i dolori non ci lasciano mai. Hanno fiato e gambe forti, i dolori. Per quanto tu acceleri per non pensarci, loro riescono sempre a beccarti. E quando succede, è meglio che tu abbia un buon airbag.
Non so perchè ne scrivo proprio adesso. Non è successo niente di particolare. So solo che ho ripensato a quel posto, e ho capito che era arrivato il momento.
Arriva sempre, quel momento lì.
So che è un post di quelli tosti. Se siete delle animelle delicate, saltatelo e tornate sul vostro Facebook. Amici come prima.
Per tutti gli altri, ecco a cosa pensavo.

Il corridoio non era molto lungo, ma a me sembrava infinito. Quando eri ad un capo, ti sembrava di non riuscire a vedere l’altra estremità. L’unica cosa che ti restava da fare era cominciare a passeggiare piano, molto piano, per scoprire se finiva da qualche parte oppure no. Una volta scoperto che da qualche parte finiva, facevi dietrofront e ricominciavi daccapo.
Ogni volta sembrava infinito, e ogni volta trovavi un muro in fondo.
C’erano delle stelle di Natale nei vasi, anche se era marzo. Le stelle erano tutte rattrappite, scure, marcite sotto i nostri occhi. Nessuno le cambiava. Io ci trovavo un senso, come lo trovavo all’orologio fermo appeso al muro. Il tempo, da quelle parti, era un concetto molto diverso da quello a cui siamo abituati ogni giorno. Sarà perchè in quel corridoio la gente ci veniva a morire.
Ricordo ogni singola piastrella di quel posto. Camminavo e le contavo mentalmente. Alcune avevano delle macchie, strane opacità, o erano semplicemente sporche. A volte decidevo incosciamente di camminare in diagonale, altre saltavo le piastrelle pari o quelle dispari. Facevo un sacco di cose incosciamente, in quelle ore passate in corridoio.
Anche se i riscaldamenti erano sempre a palla e l’atmosfera ovattata e sonnacchiosa, noi sentivamo sempre freddo. Non ci toglievamo nemmeno il giubbotto. Camminavamo con le mani in tasca, rabbrividendo, con delle gocce che si affacciavano sul viso e qualcuno le scambiava per sudore.
Però no, di piangere non ci riusciva. Quando arrivi in quel corridoio, sembra che le lacrime le hai esaurite da un pezzo. Non è che non ti viene, anzi. E’ come se tutta la tua anima sia sconvolta da singhiozzi incapaci di qualunque consolazione. Tu però, fuori, imperturbabile. Vorresti piangere, lo vorresti con forza, per toglierti questo magone che sa di frasi mai dette, di maledetti stupendi ricordi, che sa di cose che non torneranno mai più, che parla di fine. Ma non ce la fai. Ti sforzi, ma non ci riesci. Sei impassibile. Le emozioni sono in black-out. Sei entrato in stress da allarme rosso e le difese sono andate affanculo. Fuscello portato dal vento, ti verrebbe più facile ridere istericamente per delle ore.
Ci sono due fratelli in quel corridoio. La madre è dentro la stanza, così come c’è stata negli ultimi 8 mesi, e da 8 mesi loro fanno avanti e indietro, per essere lì ogni sera –a far che? Ad aspettare? Ad essere presenti? Eppure non hanno mancato una serata, eppure lo sai che non potrebbero mai mancarne una... Eppure vorrebbero solo piangere e sciogliere questa montagna che si portano dietro, ma proprio non ce la fanno. Bisbigliano al telefonino, fuori dalla stanza. Hanno occhi che non conoscono più sonno, gli occhi di chi non ha più nessuna speranza e aspetta solo che arrivi quel momento. E loro lo aspettano così tanto che è solo una pena enorme vederli lì, mentre la madre si caga addosso e il suo corpo finge di lottare col cancro ma sta cedendo una vena alla volta e tutto quello che si può fare è vedere questo sfacelo e sorridere e dire come ti senti oggi e poi parlare di altre cose futili che poi potrebbero essere le ultime e quindi le devi dire futili e importanti, e sdrammatizzare e consolare e addirittura sollevare l’umore. Pensate di farlo per 8 mesi, tutte le notti. Pensate di andare in un posto con gli orologi fermi e il gelo anche a luglio. In un posto che è un parcheggio di corpi al capolinea, in attesa che si liberi un posto al cimitero. Le compagnie di pompe funebri vengono e lasciano bigliettini da visita sui divani. Hanno “appaltato” alcuni infermieri, che li chiamano non appena il paziente se ne va al Creatore. E’ un ottimo business, dicono. Girano tanti soldi. Sono quei momenti in cui pensi che non è poi una brutta cosa, lasciarsi dietro questo mondo qua.
E i fratelli sperano solo che la madre al Creatore ci vada presto, e così spera anche lei, e tutti si sentono colpevoli per pensare qualcosa del genere mentre il dolore spoglia le logiche e ci dice quello che l’uomo antico sapeva meglio di noi –quando è ora è ora, ed è crudele aspettare. Ma intanto aspettiamo tutti, sorpresi da una vita che prometteva di non finire mai, stupiti per qualcosa che capita sempre agli altri e mai a noi. Quando arrivo alla fine del corridoio guardo fuori dalla finestra e vedo le macchine giù, incolonnate all’entrata della superstrada. E’ un panorama di fabbriche vuote e casermoni, triste come un De Chirico ubriaco. Da lì sembrano tutti formiche, sembrano cose da niente, sembra che l’Universo intero sia solo una grossa presa in giro. Poi penso a loro nelle loro macchine, che magari vanno al cinema, che tornano a casa dal lavoro, che vanno a mangiare fuori. Non sanno niente di questo corridoio, della gente che qui dentro dice addio al mondo in un atroce ultimo scherzo. Li invidio, li odio. Non m’importa che un giorno ci passeranno anche loro. So che io sono qui, al freddo di questo caldo posto, e loro no. Mi sembra un’ingiustizia.
E’ un’ingiustizia.
Intanto passeggio piano nel corridoio, faccio avanti e indietro, così come ho fatto in un corridoio simile qualche anno prima. Era un corridoio buio, molto diverso. Lì qualche speranza c’era, e i medici non si preoccupavano nemmeno di dissimulare la loro totale incredulità in questa speranza. Quando ci davano gli aggiornamenti mangiucchiavano una gomma e si stiracchiavano pensando a cosa prendere per cena. Era lavoro per loro, non c’è niente di male. Abituati alla morte. Forse non erano abituati all’educazione e alla sensibilità e al non essere delle teste di cazzo, ma questo è un altro discorso.
Io alla morte ci pensavo spesso, mentre camminavo per chilometri in quei corridoi e le infermiere mi rimproveravano perchè ero distratto e facevo perdere loro tempo con le mie domande. Ci pensavo, e sono sicuro di non aver pensato mai così tanto alla vita come in quei momenti. Magari sembrerà fuori luogo, ma io lì pensavo a tutto fuorchè a morire. Pensavo alla vita, quella succosa, quella che uno dovrebbe chiedere col pugno sul tavolo. Pensavo che meritavo di essere felice, come tutti. Pensavo che meritavo di ridere in maniera spensierata, come non mi capitava da tempo.
In quei momenti pensavo ai colori, ai sapori, alle giornate di sole in campagna. In un posto dove la gente dormiva attaccata ai tubi e spesso non si svegliava, io pensavo a fare l’amore fino a svenire –sì cazzo, fare sesso con donne bionde e donne brune, godere e farle godere, ridere con loro. In un posto che era un’ultima fermata, io pensavo ai viaggi che mi sarebbe piaciuto fare, pensavo alle cose che avevo lasciato in sospeso, pensavo a come tutti i problemi sembravano delle cagatine di mosca, a come mi ero perso anni e anni dietro a cose assolutamente prive di senso mentre la vita mi passava sotto il balcone, pensavo a bevute con amici e grandi mangiate, pensavo al fatto che avevo ancora da scrivere e da far vedere, pensavo a baci e morsi, pensavo alle canzoni ubriache con la macchina che corre e il vento notturno in faccia, pensavo a quelle giornate di autunno che senti tutti gli odori del mare e degli alberi e ti sembra che sia troppo, pensavo alle serate e nottate folli passate a parlare ballare scopare scherzare, pensavo alla felicità ah la felicità, che cazzo era non lo sapevo mica ma ci pensavo, e pensavo, te lo prometto, tu che sei là dentro, ti prometto che uscito di qua sarò felice. Questa è la mia promessa per te. Niente cimiteri o ricorrenze. Ti porterò con me, e ti farò fare qualche risata lungo il cammino.
Ecco, pensavo qualcosa del genere, mentre camminavo in quel corridoio senza uscita. Più la morte si faceva sentire e vedere, più mostrava la sua faccia puzzolente, e più io pensavo al suo opposto. Forse lo facevo per predisposizione ad andare in direzione ostinata e contraria, o perchè quei momenti mi rendevano la vita come qualcosa che potevo vedere, toccare, e di cui avrei dovuto godere. Ci sarei finito anch’io lì dentro, come tutti voi che leggete (e che vi toccate le palle proprio adesso). Sarei finito in un letto per 8 mesi con tutti che sperano che io crepi il prima possibile.
E prima di questo ci saranno anche le migliaia di morti quotidiane, quelle rinunce che sembrano da niente, quei poi si vedrà, quei mi piacerebbe ma adesso non posso magari dopo. Ci saranno quei momenti dove la morte, vera o figurata, definitiva o solo temporanea, sarà dappertutto. A quel punto potremo decidere se morire ancora un po’ oppure ricominciare a vivere per come sappiamo e per come vogliamo.
Potremo vedere gli ostacoli di ogni giorno come piccole trappole o come ostacoli insormontabili. Potremo farci deviare l’esistenza, o potremo cercare di deciderla noi.
Io ho deciso di viverla, e per vivere ho ripreso uno dei ricordi più dolorosi che abbia mai avuto e ho deciso di mettervelo qui perchè la morte è privata ma la vita va condivisa, e io voglio condividerla con voi.
Una delle cose che pensavo in quelle passeggiate infinite era, voglio andare in Australia un giorno.
Magari da lassù saranno meno incazzati con me, dopotutto. La lista, però, è ancora lunga.
Non si finisce mai di morire, e non si finisce mai di vivere.

Una delle cose che mi ha insegnato quella persona in quella stanza di quel corridoio, era proprio questo: tutto quanto finirà –anzi, sta per finire- quindi perchè prendersela tanto? Perchè sprecare tempo ad essere infelici, a rimandare, a morire un pezzo alla volta?
Lei rideva, ed era tutto quel che le serviva. Rideva anche lì dentro. Io ridevo meno, in quei momenti, e quando tornavo a casa sentivo questa canzone.
Ma queste sono cose che non dimentico.
Buona risata, ovunque tu sia.
E buona vita a voi.
Mi raccomando.



domenica 6 novembre 2011

Trinita'

abbiamo bisogno
di un dio con le palle
uno che ti guardi in faccia
mentre ti maledice
che non parli con voce
da tv alle undici di sera
con tutti che dormono
e il rubinetto che
perde

ne abbiamo fin qui
di madonne di gesso
piene di niente
-vogliamo l’amore così com’è
senza dovergli dare un
nome
senza cercargli un sapore
senza trovargli scuse
o un motivo per
averci a che
fare

sarebbe bello se cristo
si sdraiasse con noi su panchine rabbiose
prima dell’alba
con l’alito che sa di ruggine, tentativi e
birra
-anche lui con noi
a misurare in rutti la distanza
tra noi e le stelle
a riempirla di risate sceme, dolore allo
specchio
e scopate di fretta
sui cappotti di altri
-anche lui a farsi bastare
orizzonti dipinti su muri
mentre padri ridono piangendo
e le auto hanno perfino smesso
di correre
sull’abisso

e tutti e tre non capiscono
che basterebbe solo un
abbraccio
senza averlo prima chiesto
-un abbraccio dove far morire
i nostri sospiri da bombaroli tristi
da rivoluzionari falliti
le nostre lacrime come
barzellette riuscite
male

in nome di
noi
solo di noi
che non siamo nulla
e resteremo
per
sempre.


Marco Zangari © 2011

venerdì 4 novembre 2011

una Moleskine come anello di congiunzione

L'anno scorso più o meno in questo periodo ho comprato la mia nuova Moleskine.... beh mi son detta
"Ho riempito fino ad adesso quaderni e quadernini e blog e blogghettini mò devo fare la figa, e cosa c'è di più figo e serio di una Moleskine???"
nulla... ovvio...
ecco
sono scritte appena una quindicina di pagine...
appena avuta tra le mani l'ho adorata.... guardata... scrutata.... amata...
non volevo imbrattare con le mie cazzate le sue pagine stupende....
stamattina, sistemando i cassetti e cercando qualcosa che dovevo portare nella nuova stanza a Palermo (e che non ho ovviamente trovato, e che sopprattutto non ricordo), bene scaraventando per terra miliardi di cose inutili l'ho ritrovata, lì nella sua magnificenza... l'ho ripresa.... l'ho riletta (oddio che visione sentimentale)... e mi son detta...
"Mamma quanto ero controllata mentre scrivevo qui!"
quindi stop... ho deciso di usare, sciupare, struprare quell'agendina... scrivendoci sopra la qualunque....la lista della spesa e i pensieri più intimi, i disegni da sclero e gli appuntamenti... le genialate e le sensazioni... tutto...
un po' la mia vita lì dentro( che in realtà è sempre stata la mia idea....)

bene tutto questo è una semplice premessa ad un discorso ben più importante...

e solo alla fine scoprirò se più o meno delirante di quello appena fatto

c'è un tizio che mi riconosce per ciò che scrivo,

lo stesso mi conosce per come scrivo
ci sono un bel po' di tizi che sanno di me solo quello che scrivo e come lo scrivo.
e poi a parte questi setto-otto tizi, ci sono tantissimi tizi che nella realtà mi conoscono, forse pure benissimo, ma non immaginano nemmeno che io abbia un blog, che tenga una moleskine o che scriva in genere, che siano cazzate o cose estremamente interessanti(ah beh sono molto di più le cazzate)...
forse solo perchè ho sempre voluto lasciare da una parte il mondo reale e da un'altra quello virtule... non farli mai comunicare (a parte casi molto rari)...
forse perchè ho sempre preferito che il mondo virtuale rispecchiasse molto più di quello reale ciò che penso... forse semplicemente perchè sono di quelle ragazze che si sono pienamente ambientate nella generazione dei blog e delle meta-conoscenze....
intanto mi sono ritrovata ad un certo punto con delle persone importantissime nel mondo reale e una altrettanto importante nel mondo virtuale...
il mio più grande dilemma è...
perchè voglio profondamente che chi è nel virtuale passi al reale e assolutamente non l contrario???
cioè ho lottato tantissimo in passato perchè chi mi conoscesse non sapesse niente dei miei numerosi blog(e lo stesso non posso certo dirlo per la situazione inversa).... ma perchè??? in realtà è sempre stato qualcosa di naturale e inconscio...
adesso provo in qualche modo a rendere più visibile al mondo reale quello virtuale....forse perchè essenzialmente il mio mondo virtuale e il modo in cui io vedo il mondo reale... e mi sembra essenzialmente giusto che chi sta nel mio mondo reale sappia di esserci, pure se inconsapevolmente, in quello virtuale...
per questo a volte posto questo blog su facebook...

tenete botta