giovedì 25 marzo 2010

CARA B.

Cara B.,
ti scrivo a pochissimi giorni dalla tua prossima partenza per dirti che mi mancherai. L'idea del tuo vicino arrivederci, in realtà, scatena in me una miriade di pensieri, alcuni persino inaspettati, ma dopo averli guardati negli occhi uno ad uno posso dire che il succo è proprio quello che ti ho detto: mi mancherai.
E comincerò subito, sin da adesso, a dirti che ti stimo infinitamente e che ti voglio molto bene, che comprendo la tua scelta e in essa sono con te più di quanto tu possa pensare. Avere la forza di cambiare la propria vita e la capacità di farlo radicalmente, come solo un salto nel vuoto può fare, è cosa più unica che rara. E tu ce l'hai.
Lo so che hai anche paura, naturalmente. Ma è perché sei umana, perché quel vuoto farebbe tentennare chiunque. E invece tu andrai, non ne ho mai dubitato. Se ti avessi davanti adesso, in questo momento, scommetto che ancora una volta te lo potrei leggere negli occhi, scuri e profondi.

Non credo che ti verrò a trovare, no. Un po' per i soldi (non pochi) che l'impresa richiede, un po' perché i miei piani, la mia vita da affrontare, il mio salto nel vuoto, per adesso si trovano qui a pochi passi da me.
Comunque ci sentiremo, ci scriveremo, ci terremo in contatto e ci abbracceremo. Ci consiglieremo, ci daremo supporto per le nostre vite in questa delicata fase di decollo. Già lo sento, il rullaggio. La prima meta è il sole, la luce che meritiamo.

Cara B., sto cercando di comprimere in queste righe tutto quello che per un anno abbondante ho sentito per te. Pensieri sempre positivi che in alcune occasioni, lo riconosco, sono stati dubbiosi. Sì, mi hai messo in difficoltà e sono sicuro che ne porti il ricordo. Ma non mi lamento, anzi ti ringrazio. Per prima cosa per i modi che hai usato, dolci e carezzevoli, e poi perché mi hai dato modo di affrontare delle importanti sfide interiori. E io mi sono sempre sforzato, con costanza e con piacere. Non ho mai gettato la spugna, non ho mai tagliato corto. Il solo motivo che mi viene in mente è perché sei importante. Non credo ne servano altri.

E' da tempo che penso a un regalo d'addio. Come al solito la mente corre e ho considerato molte cose, però alcune sono troppo grandi o pesanti da portarti dietro, altre sono troppo dispendiose e quindi non le accetteresti. Per questo, almeno per il momento e forse per sempre, ti chiedo di considerare questa lettera come un regalo. In fondo è proprio come il nostro affetto: intensa, sincera, ma intangibile. Puoi leggerla e stringerti tra le braccia, puoi infuriarti o sorridere, ma non puoi strapparla. Resterà su un server, o su un altro libro, o nella tua mente.

Forse potrà accaderti, alla vigilia della partenza, che quella paura che finora hai ricacciato dentro esploda di colpo, magari quando sei lì in camera con la valigia mezza piena aperta sul letto. Non fermarti, amica mia. Come me sai bene che la qualità della paura è di essere infida, di saper strisciare sotto le porte che le chiudiamo. S'insinua meglio, quando non viene vista da subito. Arriva ai nostri piedi con fare umile e un po' vago, e noi la lasciamo sempre entrare e salire piano piano sino al cuore. Se sentirai il suo morso, non temere. Se proprio dovessi avere il dubbio, io sarò con te. Faremo una trasfusione, col poco sangue buono che ancora mi scorre dentro. Poi partirai, serena o al massimo un po' emozionata. Un bel po'. D'altronde la tua è una grande avventura, un'avventura da libro o da film, e nessun protagonista di un'avventura del genere partirebbe senza uno sguardo più acceso. Quando arriverai, il più sarà fatto. Per chi ha un cuore grande e la capacità di dargli ascolto, sono le miglia marine e terrestri, piuttosto che quelle dell'anima, a costare fatica. Troverai un lavoro che è una passione, troverai amici che in poco tempo diventeranno di più. Troverai dei giorni per buttarti ed altri per riflettere, magari anche dei minuti per leggere le mie mail e scrivermi. Troverai quella te stessa che stai andando a cercare così lontano, troverai ciò per cui in fondo stai veramente partendo.

Quanto a me, io resto qui. Per adesso, almeno. Tra alcuni volti noti che già sai, tra persone sconosciute da incontrare, tra storie da leggere e qualcuna da scrivere. Tra la vita e la morte, come tutti. Starò bene, ma mi mancherai. Allora ti scriverò.
Con te, nel bagaglio a mano, metto una mia piccola parte. Quella che spero sappia estirparti un sorriso, se la lascerai fare. Quella che saprà darti l'abbraccio che forse non sono mai riuscito a darti. Quella che in fondo, lo sai, è la parte migliore di me. Grazie di avermela fatta conoscere.
Per tutto il resto, se la parte di me che ti mando sparisce a va a farsi una birra, io sono qui. Hai il mio numero, la mia mail, persino il mio biglietto da visita. Informazioni di scarso valore, se non avessi anche la mia amicizia.

Ti abbraccio forte, fin d'ora e per i prossimi tempi.

Edo.

mercoledì 24 marzo 2010

Per certe cose non c'è un momento giusto

Per urlare a squarciagola,
per fare una scommessa,
per chiamare la nonna.
Per camminare sotto la pioggia,
per tuffarsi in mare nudi,
per mandar giù il primo bicchiere.
Per fumare un'altra sigaretta
e decidere che era l'ultima

Per dire quello che si pensa,

per dire quello che si è fatto,
per fare quello che si dice.

Per rompere il ghiaccio,
per andare e provarci.
Per muoversi.
Per sentirsi in imbarazzo,
per mettersi in gioco.
Per lasciare un partner,
per dire TI AMO.

Per ridere e sorridere,

per piangere
per morire
o sentirsi vivi.

Per certe cose non c'è un momento giusto.
O forse c'è, ed è "appena puoi".

martedì 9 marzo 2010

From Stockholm with love...

Il mio racconto inizia poche ore prima della fine. Sono cose che capitano, quando passi la notte in aeroporto aspettando un aereo che partirà solo tra diverse ore e che ancora non è arrivato.

Ho questa immagine dei miei jeans. Ho appena detto loro addio. Hanno vissuto il loro tempo, all'altezza del cavallo si è fatto un buco che cresce col passare delle ore e in fondo nel trolley bisogna fare spazio per mettere quattro magliette comprate durante il soggiorno.
Ce l'ho lì in mano, quei jeans. Li guardo sorpreso, sorpreso dall'ora della loro fine che è arrivata così all'improvviso. Non l'avrei mai detto, che ci saremmo separati così di colpo, in Svezia, in un aeroporto a pochi chilometri da Nykoping e in mezzo alla neve.
Momenti significativi.
Non avevo mai pensato a come sarebbe stato il giorno in cui ci saremmo separati. Non lo volevo in un modo preciso, in fondo era solo un paio di jeans e di jeans è pieno il mondo. Però vederli lì tra le mani, in quel cesso fetido di piscio ma con più tecnologia della mia intera casa, mi faceva un certo effetto. Decidere la sorte di qualcosa, persino della più insignificante, è un potere immenso. Un potere divino che trascuriamo, presi dall'abusarne in continuazione. Stessa cosa col nostro destino. I nostri nonni e i nostri padri (ma parlo solo di alcuni, dei più fortunati) hanno sofferto, per avere anche una singola chance di cambiarlo e sentirsi liberi. Ora noi ne abbiamo migliaia e le usiamo addirittura senza accorgercene, ciechi al punto di non vederle e senza pudore al punto da lamentarci di non averne.

Svezia. Stoccolma.
Le strade sono larghe e belle. Qualche genio ha pensato che servisse spazio, alle persone, per vivere semplicemente la loro vita. Le macchine filano a non più di 50 all'ora, ma l'idea è che nessuno faccia tardi per colpa del traffico. E cosa dire di quelli (tanti) che se ne vanno in bicicletta a -8° come se fossero in un assolato dipinto di un pomeriggio lungo una costa meridionale italiana? Sono vestiti più leggeri di me, e se la pedalano tranquilli e sicuri su percorsi tutti loro, con tanto di neve e ghiaccio, che arrivano spesso dove le macchine non possono andare. In bici portano la posta, i pacchi, le cose della vita.
Qui se pensi di consegnare oggetti in bicicletta ti chiedono se sei matto o cosa. E in fondo hanno ragione. Ma non per la pioggia, per il vento, per le salite, come dicono loro; bensì per gli automobilisti stressati e scattosi che ti metterebbero sotto per guadagnare un pugno di metri, per l'aria irrespirabile che ti condanna più di tre vite da fumatore incallito, per le buche sull'asfalto che se ci cadi è meglio se hai fatto testamento.
Certo che noi però siamo di più. Sia in Italia piuttosto che in Svezia, sia a Roma rispetto a Stoccolma. Se il problema fosse davvero solo questo, auspicherei una drastica diminuzione delle persone attualmente in vita.
Gli autobus sono più larghi, e messi tutti assieme inquinano meno di uno solo de nostri. Anche qui forse dipende dal fatto che la zona centrale di Stoccolma fa circa 800mila abitanti, un po' pochini. Eppure hanno tanti autobus quanti ne abbiamo noi. Che se ne fanno, però? Se ne fanno che ci mettono più posti riservati. Magari agli anziani, ai portatori di handicap (ops, pardon..i diversamente abili), alle mamme e ai papà coi passeggini. Questo se ne fanno. Che se entra una donna con un passeggino, chiunque stia in piedi nella parte centrale dell'autobus si sposta e glielo fa parcheggiare. Magari non è così stupido, che il trasporto pubblico pensi prima e soprattutto a chi, per un motivo o per un altro, ha bisogno di una comodità in più. Chiedete a una mamma italiana perché prende la macchina, per portare il suo bimbo al parco.
Le metro? Qui parlare sarebbe davvero inutile. Dirò solo che venendo da dove vengo, basta che io veda qualcosa che funzioni e penso subito che sia perfetta.

Per strada le persone sono prese come tutti dalla loro vita. Magari alcuni di quelli che incontri hanno mille impegni, giri commissioni incontri di lavoro figli da andare a prendere a scuola, ma non sembrano mai afflitti. Come non lo sono dal freddo, che è tanto. Invece qui se la temperatura scende sotto lo zero, la nonna chiama dando l'emergenza, i tg urlano alla catastrofe e i riscaldamenti delle case vengono portati a 3mila gradi.
Hanno tutti uno sguardo più sereno, più leggero. Pare che la vita non pesi come da noi. Sarà che tutti lavorano e fanno bene il loro lavoro, e poi si scelgono come capo qualcuno di altrettanto serio e capace. Anni luce di distanza, eh? Eppure in aereo bastano meno di tre ore.

Gli svedesi.
Sono distinti, hanno una dignità che da noi forse è andata via negli ultimi anni o forse non c'è mai stata. L'idea è che seppure da loro ci fossero 30 gradi, le ragazze non sceglierebbero di mostrare il tanga dai pantaloni calati e i ragazzi non perderebbero tre secondi ogni dieci a tirarsi sopra il culo i pantaloni che hanno comprato apposta perché gli scendessero.
Magari stanno un po' troppo sulle loro, ma è anche bello vedere che un ragazzo non faccia continui commenti sulle tette o sul culo di una ragazza, magari in gruppo e magari ad alta voce. Dignità per lei che non si imbarazza, ma soprattutto per loro che si dimostrano diversi dagli animali, non solo per la loro postura eretta.
Le ragazze (con le dovute eccezioni) hanno capelli dorati e occhi chiarissimi, del colore di un cielo che io non ho mai visto ad altezza umana.

Gli italiani.
Mediamente li riconosci da lontano perché sono mori, o perché ne senti la voce nonostante cento metri di distanza. Al museo sono quelli che commentano ogni cosa e ogni altra persona, ma soprattutto sono quelli che portano anche al chiuso occhialoni fascianti e lo zaino viola coi teschi, convinti che sia una moda di nicchia.
Insomma sono quelli che non si contengono in casa, in patria, e che non hanno motivo quindi per farlo quando vanno a casa degli altri. Sono quelli a cui manca il concetto stesso di "contenimento". Quello giusto, quello che ha a che fare col rispetto per gli altri.
Sono i quattro ragazzi che al supermercato fanno in italiano battute volgari alla cassiera, sghignazzando perché lei non può capire. Non pensano che una ragazza svedese non sappia che farsene, dell'italiano. E non solo nel senso della lingua. Non pensano nemmeno che se in Italia qualcuno chiedesse loro qualcosa in inglese, loro ne capirebbero ancora meno di lei con l'italiano.
Sono le cinque ragazze che sul pullman per l'aeroporto guardano la città che si allontana e dicono di stare quasi per piangere, che però sono felici perché almeno a casa riabbracceranno il gatto. Dicono "Stoccolma non è un addio, è un arrivederci", dicono malinconicamente "Dasvidania". Sono sempre queste ragazze, che al controllo bagagli fanno avanti e indietro sei volte, ogni volta togliendo dai trolley una sola maglietta e poi supplicando lo steward di chiudere un occhio. Le LAGNE, più che le LASAGNE.

Per questo abbassi la voce, per questo non vuoi far capire che sei italiano. Non per paura di essere vittima di un pregiudizio, ma perché non vuoi che tali tipi, tuoi fieri connazionali, ti riconoscano e ti parlino. Allo svedese speri di risultare, almeno per un filo, diverso. Magari mostrandoti semplicemente più garbato ed educato. In fondo basta poco.

Il mio racconto in fondo è una cartolina. Di quelle dove si vedono i canali e le imbarcazioni ormeggiate, la neve per le strade e sull'acqua ghiacciata, la skyline dei palazzi e dei grandi negozi, le facce degli abitanti che camminano per le vie. I cappotti non troppo pesanti, i capelli alla moda, le scarpe leggere, gli zucchetti, le calze e le minigonne.

Sono ancora all'aeroporto.
Lo shop sta per chiudere e io ho ancora qualche corona da spendere. Alla cassa c'è una ragazza con i capelli a cipolla.
Decido, butto i jeans. In fondo è vero, mi serve spazio nel trolley e conservare un paio di jeans bucati non avrebbe senso. Solo per buttarli dopo a Roma, poi.
Se il cuore fosse un trolley, la vita sarebbe più facile. Potresti togliere e mettere, magari facendo attenzione e un po' di fatica a tenere tutto ordinato. Ogni volta che hai una nuova persona o una nuova emozione, basterebbe tirare la zip e buttarne una vecchia. Quella bucata, quella più usata, quella di cui potresti fare più facilmente a meno o quella che hai lì da più tempo. Col cuore invece è diverso. Hai sempre l'idea che si possa fare un po' di spazio, per quella nuova maglietta. Magari spingere in fondo qualcos'altro, ottimizzare meglio lo spazio occupato. Col cuore ogni volta hai idea che possa entrarci di tutto.

Li butto, basta. Se no il cambio per le emergenze che me lo sono portato a fare?
Scivolano nel contenitore per l'immondizia generica e sento quasi un nodo alla gola.


(E.Sorani)


domenica 7 marzo 2010

il Morgana come Roma

Pensavo di farlo dopo gli esami il resoconto di questo mese, e magari avrebbe avuto anche più senso. Però oggi ho studiato parecchio e fuori piove. Posso permettermi il lusso di rilassarmi un attimo davanti al pc e scrivere quello che meglio mi riesce. Che sento. Che penso. Che spero.
Innanzitutto che questi esami vadano bene. Oceanografia e Analisis integrada de la poluciòn.
Che presto arrivi la primavera...Starsene al trentaseiesimo parallelo e non giovare del sole è una frustrazione non indifferente.
Che tra poche settimane torno a Roma e, anche se per poco, sono felice. Mai quanto ora mi sento così legata alla mia città.
Mi manca Roma in quanto Roma, per i suoi ritmi, la sua gente, il suo tepore, Ostiense, Trastevere, lo Shanti, il Classico (anche se poi è chiuso). La Colombo di notte, il cornetto, il caffè a via Pincherle, via dei Quattro Venti, via Enrico Guastalla. Lo slalom del motorino per le vie di Trastevere, rione Monti perchè fa così atmosfera, il Caffè Fandango e il locale preferito di Cri. Il laghetto dell'Eur e l'aperitivo a viale Europa. Termini perchè il tempo te lo toglie e te lo regala. Le ore al Caffè Momento a leggere o a studiare perchè tanto non ti cacciano. Feltrinelli a Largo Argentina e le discussioni sui raccanzi con E. Il caffè shakerato dei baristi che cambiano ogni due mesi. Il Caffè Letterario e gli scrocchi dell'aperitivo a buffo, perchè tanto lo fa mio fratello e non gli hanno mai detto niente.
Il Greenwich e il Madison. Posti scomodi eppure sempre e ancora i primi cinema di cui controllo i film.
San Giovanni e il Merulana Club anche se non ci vado da una vita. La tipografia, mi manca pure quella. Garbatella e le edicole chiuse il sabato pomeriggio.
La Villetta e le trattorie dove mangi bene e spendi poco. Trastevere (mi sa che l'avevo già detto).
La carbonara e i bucatini alla matriciana. Capocotta e il Zagaja. Il risotto alla crema di scampi. Le vongole veraci.
Minchia, se Roma mi manca.
Forse ora mi ci vorrebbe un narghilè...per distendere un po' i nervi di questo periodo pre-esame e magari stavolta, no...non pensare.