domenica 26 marzo 2017

Ragazzo che cammina


Ragazzo che cammina
da solo
silenzioso
quasi adulto
passa
e noi lo guardiamo
pensiamo
chissà cosa gli gira
in testa
chissà cosa trama
avrà già capito tutto
avrà capito come va
avrà dovuto
capire
è geniale
è pazzo
è sicuramente pericoloso
ci odia, ci odia tutti
ha qualcosa che non va
dobbiamo lasciarlo stare

Pericoloso, pensiamo,
pazzo
mentre lui è già
passato
senza che nessuno si sia
chiesto
se quello è soltanto un
ragazzo
che cammina da
solo.


Marco Zangari © 2016

martedì 21 marzo 2017

"Zero K" - Don DeLillo


Quel lasciarmi andare alla deriva, da un lavoro all’altro, a volte da una città all’altra, era parte inegrante dell’uomo che ero. Ero quasi sempre fuori contesto, in qualunque contesto. L’idea era quella di mettermi alla prova, sperimentare. Le mie erano sfide mentali senza sottintesi negativi. Niente in gioco.


Jeffrey Lockhart è un uomo di mezza età che, come suggerisce la citazione in alto, vive alla giornata, senza un obbiettivo chiaro nella vita, portandosi dietro il dolore della morte della madre, con cui aveva un rapporto speciale, quasi da amici, e la cui perdita ha costretto Jeffrey a confrontarsi con un nodo di problemi e limiti tutt’ora irrisolti. Il padre di Jeffrey, Ross, è un supermanager ricco e potente, con tutti gli stereotipi del caso, e come da copione ha abbandonato moglie e figlio molti anni prima per risposarsi con l’archeologa Artis.
Adesso che Artis è arrivata agli ultimi giorni di vita, Ross invita il figlio a visitarli –non a casa, bensì in una struttura ultratecnologica situata in una zona deserta. In questa struttura, scoprirà Jeffrey, il corpo di Artis verrà congelato e conservato per decenni, finché lo sviluppo medico e tecnologico non permetterà a lei e altri nella sua situazione di tornare a nuova vita.
Le premesse del nuovo, attesissimo romanzo del maestro DeLillo c’erano tutte. Peccato che “Zero K” (Einaudi) non riesca a tenere il passo con capolavori dell’autore come “Underground”. Confesso di aver fatto una fatica cane a superare la prima parte, quella in cui Jeffrey si aggira per la struttura criogenetica, aprendo porte a caso, facendo riflessioni, aprendo altre porte, parlando con qualche tizio a caso, aprendo altre porte ancora. L’azione si muove a fatica, restando impantanata in un torrente verboso che diventa quasi claustrofobico, quasi come se fossimo pure noi rinchiusi nella struttura. Non sono nemmeno sicuro che il tema sci-fi si addica tanto al maestro, dal momento che per tutto il tempo sembra di avere a che fare con una puntata di “Futurama” –sapendo di già visto, e non aiutando molto la credibilità della storia. Sono rimasto per settimane bloccato in quella maledetta struttura, come mi capitava con le avventure grafiche della Lucas un ventennio fa, ai tempi da smanettone sulla mia Amiga 500.

Oltre ad essere lenta, la parte della struttura sembra artificiosa, e cosa peggiore, poco interessante. Il tema non è nuovissimo, e niente viene aggiunto anche in questo caso. La penna di DeLillo, geniale in libri come il già citato “Underground”, si scalda un po’ nella seconda parte del romanzo, descrivendo una situazione di caos urbano, spirituale ed esistenziale che mescola terrorismo e amori difficili, indifferenza e pensieri sulla morte. I temi degli altri libri di DeLillo vengono ripresi, senza portare però ad un nuovo risultato –sembra più che altro un upgrade, per descrivere questo decennio, ma rispetto alla portata di “Rumore bianco”, ad esempio, non si aggiunge molto.
In tutto, forse la mancanza più grande di “Zero K” è quella del coinvolgimento. Né il protagonista Jeffrey né i suoi vari comprimari –incluso il padre- sembrano persone vive, né riescono a prendere il lettore, nel bene e nel male. Il tono distaccato di DeLillo, che andava benissimo in altri romanzi in cui il “cinismo” di fondo dava un colore particolare, qui produce personaggi freddi su uno sfondo freddo.
Un’uscita molto al di sotto delle aspettative, per quanto mi riguarda. I recensori ufficiali hanno gridato al capolavoro, e probabilmente hanno ragione loro che sono più esperti –o forse, ancora, guardiamo sempre il nome dell’autore prima di dare un giudizio sull’opera.
Per quanto mi riguarda, l’ho finito con grande sforzo, e una volta finito, mi è venuta voglia di rileggermi quel malloppone di “Underground” –tutto, ma non questo.
Sconsigliato (sorry, maestro).

Di questo autore ho recensito anche:
-Rumore Bianco.

giovedì 16 marzo 2017

In marcia (racconto)


Il cielo era sempre di un grigio malato, irreale, tanto da sembrare una cupola, o una di quelle bocce con dentro case disegnate e neve finta.
Invece delle case disegnate, la colonna si muoveva in un panorama spoglio, brullo. Pochi alberi si frapponevano tra il gruppo che avanzava e l’orizzonte, che andava a perdersi dove l’occhio non poteva arrivare. L’aria stessa sembrava in attesa, come se dovesse piovere da un secondo all’altro ma poi non pioveva mai –e di quella pioggia tutti, per qualche motivo, sembravano aver bisogno.
Bill Myer si muoveva in un punto qualunque di quella colonna, circondato da altre persone. Molti tenevano lo sguardo basso, senza parlare. Non si poteva vedere la fine di quella colonna, nè in un senso nè nell’altro. Per quanto affollata fosse, la gente stava a debita distanza l’uno dall’altra, senza sfiorarsi mai, mantenendo un passo costante che col tempo diventava quasi ipnotico.
Bill si sentiva confuso. Non sapeva da quanto si trovava in marcia. Vedeva le teste chine intorno a lui, tutte dirette verso una meta che ignorava, e gli sembrava di essere stato scaraventato lì all’improvviso, mentre era impegnato in qualcos’altro. Allo stesso tempo, per quanto dalle cause ignote, quella marcia gli sembrava l’unica attività possibile. Se gli avessero detto che aveva trascorso tutta la sua vita in marcia, Bill Myer avrebbe finito per crederci.
Accanto a lui camminava un uomo tra i cinquanta e i sessanta. Aveva uno sguardo pensieroso, come perso altrove mentre continuava a marciare senza fermarsi. Indossava quella che ad una prima occhiata sembrava un uniforme –non era così anche per gli altri?- ma guardando da vicino, risultavano essere comunissimi vestiti da tutti i giorni. Nel caso dell’Uomo Pensieroso, era un vestito comodo e un po’ datato, con cravatta a tinta unita. Anche l’Uomo, come Bill, aveva scarpe inadeguate per quelle strade fangose e dissestate, eppure nessuno rallentava mai il passo.
Bill pensò di chiedere qualcosa all’Uomo, ma si trattenne. Intorno c’era troppo silenzio. Si sentivano solo i passi di migliaia di uomini e donne che marciavano. Solo di rado qualcuno parlava, ed erano sussurri che si perdevano nell’aria rarefatta. E poi, chiedere cosa? La prima cosa che veniva in mente a Bill era chiedere chi avesse vinto la guerra (che guerra?). Non sapeva nemmeno lui il perchè, ma gli sembrava l’unica domanda plausibile, e anche la più stupida. Il fatto che quella colonna infinita si stesse allontanando da luoghi lontanissimi, dai quali si alzavano dense nuvole nere, faceva già indovinare la risposta. A Bill vennero in mente quei documentari dove si vedeva la popolazione che abbandonava le città dopo che queste erano state sconfitte e conquistate. Di solito in quei documentari (quando li aveva visti?) la gente portava con sè tutto quello che poteva. Qui, invece, le persone non avevano niente se non i vestiti che indossavano.
Bill guardò ancora le persone intorno a sè: per la maggior parte sembravano molto anziani (alcuni, a dire il vero, non apparivano in grado di continuare quella marcia ancora a lungo; eppure non rallentavano mai il passo). Guardando meglio, però, Bill distinse persone di tutte le età e razze. C’erano molti giovani, persino dei bambini. Quelli troppo piccoli venivano portati in braccio dagli adulti –non era chiaro se fossero loro parenti o meno.
Non sapendo cosa fare, Bill continuò a marciare in silenzio insieme agli altri. Spirali dense di fumo si alzavano lontane all’orizzonte. Ogni tanto sembrava di scorgere qualche aereo nel cielo, ma gli sfollati non alzavano neanche la testa. Bill pensò che avrebbe dovuto avere fame o sete, o anche solo essere stanco per tutto quel camminare. Non provava niente di tutto questo. Fu allora che si decise a parlare con l’Uomo Pensieroso.
“Salve” disse semplicemente.
L’Uomo si girò lentamente –senza mai perdere il passo- e fissò Bill, il quale notò che quegli occhi avevano assunta un tinta incolore come quella del cielo e della cravatta. Senza particolari intonazione, l’Uomo disse con lentezza: “Salve”.
“Mi chiamo Bill. Piacere” e allungò una mano.
“Albert” disse l’uomo, senza badare alla mano di Bill. Dopo quello che sembrò uno sforzo immane, l’uomo tornò a guardare fisso davanti a sè.
Bill restò un po’ confuso, non sapendo se continuare la conversazione oppure no.
“Lascialo perdere, ragazzo” disse una voce all’improvviso. Bill si girò di scatto e vide un uomo di poco più grande di lui –metà 40- vestito con una giacchetta semplice sopra una camicia. “Non ti risponderà”
“E come mai?” chiese Bill.
“Perchè sta pensando. Se si distrae, deve ricominciare tutto da capo. Comunque, io mi chiamo Henry”
“Piacere, io sono Bill”
“Ciao Bill. Non è che hai da fumare?”
Bill ci pensò un attimo –ma io fumo?– e si tastò la giacca per un pezzo prima di scuotere la testa.
“Non preoccuparti, ragazzo, è uno scherzo. Qui nessuno fuma” disse Henry.
“É vero, non ci avevo fatto caso. Sai il perchè?”
“La gente qui non fuma per lo stesso motivo per cui non ride, non si bacia, non si getta in una rissa e tutto il resto. Qui si pensa e basta”
“Pensare?” chiese Bill. “A cosa?”
“Non mi dire che sei nuovo” fece Henry, con un sorrisetto serio in volto.
“Non so nemmeno cosa voglia dire”
“Vuol dire che fai parte di questa colonna di sfollati da poco tempo. E questo può voler dire solo una cosa”
“Cosa?” chiese Bill. Henry però non rispose. Guardò per un attimo dritto davanti a sè, poi passò in rassegna le colonne di fumo sulla destra, come se la risposta stesse lì e Bill non la vedesse.
-(continua a leggere)-

martedì 7 marzo 2017

"L'elefante scomparso e altri racconti", Murakami Haruki

No, quella che mi fa veramente paura è la gente che beve come oro colato le parole dei tipi come Aoki, che ci crede incondizionatamente. Le persone che si lasciano incantare, che seguono in massa qualcuno che non produce niente, non capisce niente, ma parla bene, in maniera persuasiva. A queste persone non passa neanche per l’anticamera del cervello che potrebbero sbagliarsi. Non riescono neanche a immaginare che possono ferire qualcuno irreparabilmente, senza motivo. Non si assumono la minima responsabilità degli effetti della loro condotta. Sono loro, quelli di cui ho paura.


Per recuperare con un po’ di recensioni arretrate (come sempre), inizio con l’ennesimo Murakami, autore di cui spesso parlato qui, e che mi piace parecchio. L’ho comprato in un momento in cui stavo per affrontare un viaggio difficile, sperando che mi portasse un po’ altrove con la sua prosa leggera e poetica, e ha mantenuto perfettamente la promessa.
L’elefante scomparso e altri racconti” (Einaudi) racchiude una serie di storie dell’autore giapponese, dai primi anni ’80 alla fine dei Novanta. Per un patito di racconti come me, che aveva già apprezzato il più recente “Uomini senza donne”, c’era curiosità riguardo la sua produzione più antica. Il libro si fa leggere come sempre, e questa non è una novità –rappresentata, invece, dalla varietà di registri e toni delle varie storie. Sempre mantenendo quella vena surreale, quella sensazione di sospensione, quel simbolismo potente, i racconti differiscono molto tra loro. Si va da quello più allegorico (e politico) come “Il nano ballerino”, alle storie di formazione come “L’ultimo prato del pomeriggio” e “Affare di famiglia”, passando per il suggestivo e malinconico “L’elefante scomparso”, che da il titolo alla raccolta. I temi sono quelli cari a Murakami: la crescita, la dimensione individuale, il rapporto di coppia, la fantasia. Molto interessante “Sonno”, storia di una casalinga dalla vita noiosa e ripetitiva che un giorno, improvvisamente, smette di dormire e comincia ad utilizzare quel tempo, solitamente passato a letto, leggendo, ascoltando musica, andando in giro per la città –in una parola, vivendo.
Il racconto che però vale da solo il prezzo del biglietto, per me, è “Silenzio”, storia che chiude la raccolta. Un uomo seduto al bar con un estraneo, comincia a raccontare la sua storia di adolescente taciturno, immerso nei libri –diverso, a modo suo, ma non infelice. Questo finché nella sua strada non si mette Aoki, il classico “primo della classe”, che riuscirà, con un’accusa infamante, a manipolare abilmente compagni di classe e insegnanti, rovinandogli quegli anni e facendola franca –perché quelli come Aoki sono pericolosi, dice l’uomo, ma lo sono ancora di più coloro che gli credono acriticamente, senza farsi domande, senza verificare. Un racconto scorrevole come tutti, intriso di tristezza, costruito con una sapienza e una sensibilità che solo un maestro come Murakami riesce a sfoggiare.
Da leggere.


Dello stesso autore ho recensito:

-Uomini senza donne;
-L'incolore Tazako Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio;
-Kafka sulla spiaggia.

domenica 5 marzo 2017

Né indistruttibili, né diversi, né salvi: cosa verrà dopo “Latinoaustraliana”

Ogni tanto, quando incontro qualcuno che ha letto il mio “Latinoaustraliana” –un fenomeno a metà tra gli unicorni e la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno- capita che mi chiedano: oggi lo riscriveresti nello stesso modo?
Che domande, verrebbe da dire. Chiaro che uno scrittore cresce, cambia, si evolve, si fissa, impara, dimentica, si trova o si perde. "Latinoaustraliana" è stato scritto tra il 2008 e il 2010, quindi sono passati sette anni. Un autore non dovrebbe ripetersi mai, dovrebbe mirare a crescere, bla bla bla.
Forse dovrei dire tutte queste cose.
Eppure l’unica cosa che penso è: no.
Non perchè sette anni siano tanti, ma perchè è successo tanto.
Troppo, forse.

Ho fatto guidare la mia ragazza, perchè sapevo che non sarei stato dell’umore, nonostante la giornata fosse passata abbastanza liscia –un po’ come a volte si sa che sta arrivando la tempesta quando in cielo è ancora sereno. Innocentemente, spudoratamente sereno.
Già all’ingresso mi guardavo intorno stranito. Me lo ricordavo più largo, qui. Me lo ricordavo davvero?
Non c’era più la mia ragazza, non c’era la gente che andava a veniva, i pazienti che si fumavano una sigaretta di nascosto, le infermiere che finivano il turno e quelle che lo iniziavano. Non c’era più nessuno –solo io e quel maledetto ospedale.
Mi guardavo intorno, sguardo torvo, questo l’hanno spostato, lì hanno chiuso, questo lo ricordavo di là. Un pessimo ritrovarsi, come visitare la tua cella dopo un tot di tempo che ci hai passato da innocente.
Abbiamo comprato un orsetto al negozio dei souvenir. Non volevo comprare fiori. I fiori muoiono male, in questo posto.
Non volevo prendere nemmeno l’orsetto. Chi ha bisogno di ricordare?
Anche a me, una volta, ne avevano regalato uno. Non lo avevo mai buttato. Avevo solo fatto in modo di perderlo, e di dimenticarmi di cercarlo.

Scendiamo al piano, ci incamminiamo. E’ quasi sera, ora di visita, e la gente si avventura per corridoi e stanze, si perde, si maledice sottovoce, rimpiange casa e tutto ciò che è casa. Tutto ciò che non è questo labirinto di pareti bianche, cartelli minacciosi e puzza di disinfettante. Anche se fai di tutto per evitarlo, l’occhio cade dentro le stanze, trasformando i corridoi in una serie di letti bianchi e piedi e gambe, con o senza parenti al fianco –di solito senza.
Dovrei andare nella mia grotta-rifugio, attivare quel pilota automatico che è stato la mia salvezza insieme all’ironia e a quattro parole in fila su un foglio. Ma sarà la stanchezza di fine giornata, sarà il caldo, sarà questo odore che avevo imparato ad escludere dai miei ricordi, mi sento circondato da flash, brevi epifanie, dettagli stupidi e dettagli dolorosi che avevo gettato, indistintamente, nella discarica nel retro della mia mente. Seppelliti lì sotto come un cimitero maledetto su cui qualche imbecille, negli horror, finisce sempre per costruirci sopra una casa.
E cosa ho costruito io lì sopra? Cosa ho cercato di sopprimere, con quintali di mattoni, cemento e fughe?
La stanza è quasi alla fine del corridoio. Prima di entrare, il marito viene fuori e ci dice che dobbiamo indossare dei camici protettivi e dei guanti. Sfidando l’afa, ci inguainiamo ed entriamo finalmente nella stanza.
E. fa un cenno, ci dice di avvicinarci. Ha dei solchi così neri sotto gli occhi che a momenti scompaiono, inghiottiti dalla penombra forzata della stanza. Non c’è nessun altro, oltre lei e il marito. Quattro mura strette intorno a loro, e una finestra su un panorama che dimentichi subito dopo. La mia ragazza abbraccia E., poi tocca a me. Quando la stringo sento la debolezza nella sua carne, nei suoi gesti –quando il corpo non ti ubbidisce più e ti devi sudare ogni minima azione.
Conosco quella sensazione.

La mia ragazza si siede in una delle due sedie, il marito occupa l’altra vicino la finestra. Io mi appoggio al muro, vicino al bagno. Ogni tanto sentiamo passare dal corridoio le rotelle di una barella. Ricordo quando quel rumore scandiva le mie notti. Ero arrivato a pensare che non avrei preso più sonno senza quel suono stridente, sgradevole. Poi le medicine facevano il loro lavoro e il sonno finiva sempre per arrivare –per poi sparire qualche ora dopo, nel cuore della notte, quando qualcuno in reparto cominciava ad urlare fino a squarciare le tenebre, cercando con disperazione un’alba che semplicemente non era lì.
E. racconta la sua storia – il ricovero, la perplessità dei medici, il menù sempre uguale, l’attesa di notizie, i dottori che passano guardano e proseguono senza dire nulla, senza pensare che tu valga nulla, l’attesa, le previsioni del mattino completamente cancellate all’ora di pranzo, le mille voci contrastanti, il dolore che sale che cresce che non fa dormire, le telefonate, le visite volute e quelle meno, lo sbattimento, il trovarsi mani e piedi in una corrente impazzita, che non riesci in alcun modo a direzionare, lo sconforto, il sentirsi privati del controllo su se stessi, la mancanza di privacy, la mancanza di spazio, la mancanza di tutto, il “poteva andare peggio” quando un meglio nemmeno sai immaginartelo, i bilanci che fai la notte tardi quando tutti sono andati via, tornati alla loro vita che prosegue fuori da quelle mura, mentre tu continuerai a fissare un panorama che tutti dimenticano un secondo dopo averlo visto.
Mentre E. racconta tutto questo, ho caldo. Sento una nausea strana, appiccicosa, venirmi su all’improvviso. Per un attimo, penso di vomitare lì per terra. Potrei andare in bagno, ma mi sentirebbero. Non posso uscire, perchè sennò dovrei togliere il camice protettivo. Sono in trappola. Guardo la finestra ma non mi aiuta. Vorrei guardare l’orologio, trovare conforto nel fatto che è passato abbastanza tempo, che tra un po’ potrò dire che mi sta scadendo il parcheggio e purtroppo dobbiamo andare, dobbiamo tornare alle nostre vite e dimenticare quel panorama. Ma non lo penso per noia, no.
Vorrei solo non essere mai venuto.
«Ma come è cominciato tutto?» chiede la mia ragazza.
«All’improvviso, dal nulla» risponde E.
Non batto ciglio, eppure so che è QUESTO l’elemento più agghiacciante che abbiamo sentito in questa ora fatta di operazioni, incisioni, infezioni e dipartite evitate per un soffio.
All’improvviso.
Dal nulla.

Quello che nessuno pensa mai, quello che tutti provano a dimenticare. Naturalmente siamo sicuri che succederà solo fra decenni e secoli, si capisce, e quando comunque arriverà, ci sarà la musichetta struggente come nei film, ci saranno sguardi pieni di comprensione e saggezza e amore, ci sarà il tempo per riflettere, per ricordare, per sistemare le ultime cose.
Una certezza granitica, che il suono fastidioso delle ambulanze per strada prova a intaccare malignamente, senza però riuscirci.
Noi siamo indistruttibili. Noi siamo diversi. Noi siamo già salvi.

Quando ormai sto sudando da troppo e la nausea è passata a martellarmi le tempie, dico scusa E., dobbiamo proprio andare.
Lei capisce ed è contenta così –già sfibrata dall’aver parlato per quell’ora e qualcosa.
Stringiamo mani, ci abbracciamo. Quando mi avvicino, E. mi guarda negli occhi.
«Io e te lo sappiamo, cos’è» dice lei. «Non sei più la stessa persona di prima, vero? No, non puoi esserlo»
Faccio un gesto che vuol dire tutto e niente, eh beh, ma sì, che ci vuoi fare, la saluto ancora e vado via.
Ma da quelle parole no, non riesco ad andare via, nemmeno quando ripasso per quell’ingresso che ricordavo esattamente così, ed esco a riprendere finalmente un po’ d’aria.
Perchè E. lo sa.
Sa che è vero, che noi non siamo né indistruttibili né diversi, né tantomeno salvi.

In macchina restiamo in silenzio. La mia ragazza sa cosa mi passa per la testa, e non dice niente. Io mi vedo addosso una diversità che pensavo di aver messo da parte –come se bastasse tornare a preoccuparsi del meteo, dei semafori, del traffico, del sonno, perchè tutto sparisse.
Invece non sparisce proprio niente. E. aveva ragione: non siamo mai le stesse persone, alla fine di quella esperienza.
Di un’esperienza che inghiotte tutte le altre.

Per questo non potrei mai più riscrivere “Latinoaustraliana” come l’ho scritto –anche se sono felice e orgoglioso di come l’ho scritto. Quel libro aveva bisogno di quella leggerezza, quell’allegria, quella lieve follia in tutto.
Per questo non vedo l’ora di mettere altre parole in fila, anche se so che non verrà facile –perchè sarà lungo, sarà tortuoso, sarà pieno di fantasmi e bivi e strade di notte, e momenti quotidiani e speciali che la mia mente ha evitato a lungo, accuratamente, di recuperare.
Per questo, ho bisogno di un altro libro (che sto già scrivendo) che parli di quello che è successo in questi sette anni. Del momento in cui ho scoperto che non siamo indistruttibili, diversi o salvi –e di come tutto, le notti infinite, il malditesta, i tetti scoperchiati delle case, le trappole e l’oltraggio, fossero finiti poi qui, sette anni dopo, in questa auto, mentre procediamo in silenzio e la mia mano stringe la mano di lei, e finalmente, nonostante tutto, miracolosamente, torniamo verso casa.



Marco Zangari © 2017