domenica 30 novembre 2014

"Arrangiati, Malinconico", Diego De Silva

Se dovessi indicare il principale dei miei difetti, quello di cui più avverto la ricorrenza nei rapporti che instauro con gli altri, direi che è la mia tendenza a rimuginare. Io rimugino tantissimo. Quando cammino. Quando lavoro. Quando mi diverto. Quando mi compiango. Quando faccio l’amore. Soprattutto quando non lo faccio (...).
Bene, io faccio di peggio: a volte mi lascio prendere tanto dai rimuginamenti che addirittura scrivo. Riempio cartelle di Word nella speranza di trovare le parole giuste per fissare un punto di vista e tendenzialmente non cambiarlo più. Faccio notte, quando proprio mi fisso. E poi mi dico: “Ma sei scemo, cosa devi scrivere, un libro?”


E un libro, l’avvocato Malinconico, l’ha scritto davvero, anzi ne ha scritti tre, usando la penna di Diego De Silva (chi è l’alter ego di chi?). I tre libri, “Non avevo capito bene”, “Mia suocera beve” e “Sono contrario alle emozioni”, si possono trovare riuniti nella massiccia antologia, dal titolo inequivocabile di “Arrangiati, Malinconico” (Einaudi).
Nei tre libri seguiamo appunto l’avvocato napoletano Vincenzo Malinconico e i suoi rimuginamenti, che come detto all’inizio, sono così tanti che a volte sono messi in primo piano rispetto alla storia –che è abbastanza lineare nel primo libro, più sviluppata e complessa nel secondo, e pressochè inesistente nel terzo, dove sembra prevalere il mondo mentale di Malinconico, le sue paure, le sue ansie, e soprattutto la sua ironia pungente, rispetto alla trama.
Poco importante, comunque. Qualunque cosa succeda intorno, che si tratti di difendere un camorrista o di trovarsi impelagato in uno sequestro di persona in un supermercato, in pieno stile reality, la star è sempre Malinconico –e, appunto, i suoi rimuginamenti.
De Silva ha il merito di costruire un personaggio che funziona, che ispira subito simpatia e con il quale ci si trova d’accordo anche quando non si è del tutto d’accordo. Tramite la verve e la tendenza a pensare e ripensare tutto di Malinconico, riesce a mettere insieme questioni serie (la camorra, la giustizia in Italia) con altre molto più leggere, massacrando a suon di risate i personaggi e il mondo che gli vorticano intorno. Il mix di questi due registri, di un tono alto e basso, unito ad una scrittura semplice ma non banale, permette una lettura molto scorrevole, nonostante le quasi 800 pagine complessive dei 3 libri.
La cosa che colpisce è che, col progredire delle pagine, si finisce irrimediabilmente per fare il tifo per Malinconico. Eppure Malinconico non ha niente dell’eroe, e forse nemmeno dell’antieroe: sbaglia, travisa, si parla addosso, congettura troppo, non è sicuramente troppo ferrato sulle relazioni umane, e non si può esattamente definire un uomo in carriera. Ma proprio per questo, riesce a portarci dalla sua parte: per la sua parte più umana, piena di difetti di cui, a volte, è anche consapevole, ma non sa come venirne a capo. Però ci riflette, e riflettendoci porta anche noi a pensarci sopra. Parla delle piccole guerre quotidiane che sono le stesse nostre, quelle che di solito passano inosservate, nel lirismo cieco di troppa letteratura. Odio le definizioni, ma Malinconico è pop, così pop che si permette, appunto, di prendere in esame alcuni pezzi storici del pop, e alcuni suoi esponenti, facendoli diventare protagonisti di capitoli interi del libro. Sebbene a volte appesantisca un po’ la lettura, anche questa scelta si incastra bene nelle varie teorie sulla vita dell’avvocato.
É raro trovare un libro divertente (alcuni brani, come quello sui “trasferiti” di ritorno alla loro città natale, sono esilaranti), che non sia anche stupido, o peggio, che non faccia ridere, risultando alla fine triste e patetico come un comico che non funziona.
Visto che qui nessuno mi paga per voler bene a tutti, bisogna notare come alcuni passaggi risultano troppo lunghi e forzati rispetto all’andamento della storia, cosi' come la ricerca di una frase ad effetto. L’ultimo libro, “Sono contrario alle emozioni”, si discosta parecchio dal tono dei primi due, quindi chi si aspetta un proseguimento della storia, potrebbe restare deluso.
In ogni caso, è un libro che vi accompagnerà con piacere, e vi terrà compagnia. A me l’umorismo dell’avvocato Malinconico (non posso fare a meno di chiamarlo così, come se il suo titolo professionale fosse imprescindibile dal personaggio) ha fatto venire un po’ nostalgia. Da emigrante, al di là di pasta pizza e sole, mi mancano alcuni aspetti del nostro essere italiani, aspetti meno evidenti, difficili da spiegare, di quelli che sai che trovi solo in un certo posto. L’ironia strafottente di Malinconico è qualcosa che è difficile appunto da descrivere, ma fa parte di un certo carattere italiano, qualcosa che è difficile riscontrare altrove. Un misto di cialtroneria, autocompiangimento e acume, un modo per smontare ridendo la vita che ci è capitata, provando a renderla meno difficile di quello che già è.
Leggetelo per il motivo più semplice e importante: bisogna farsela una risata ogni tanto.
Soprattutto su noi stessi.


Consigliato a:
chi cerca un libro leggero ma non stupido; chi cerca una lettura da mare o da tram, intermittente, dove i personaggi restano lì tranquilli ad aspettarti; a chi si ricorda ancora cos’è l’ironia.

lunedì 24 novembre 2014

"Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze", Charles Bukowski

Essere scrittori danna l’anima ed è difficile. Se hai talento può lasciarti in una notte di sonno. Ciò che ti fa andare avanti nel gioco non è facile a dirsi. Troppo successo è distruttivo; la mancanza di successo è distruttiva. Un piccolo rifiuto può fare bene all’anima, ma il rifiuto totale crea bisbetici e pazzi, stupratori, sadici, ubriaconi e poeti mancati che picchiano le mogli. Tanto quanto fa il troppo successo.
Anch’io sono stato fuorviato dal concetto romantico della scrittura. Da giovane ho visto troppi film sul grande Artista, e lo scrittore era sempre un tizio tragico e dannatamente interessante con un bel pizzetto, occhi lucenti e verità profonde che gli scaturivano continuamente dalla bocca. Che bello essere così, pensavo, ah. Ma non è così.



Bukowski. Cazzo, lo sapevo che non dovevo cominciare ‘sta cosa delle recensioni. Come diavolo si fa a parlare di Bukowski?
Lo stesso Buk, scrivendo una prefazione per “Chiedi alla polvere” di John Fante, disse: “Fante era il mio dio e io sapevo che gli dèi vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta”.
Ecco, mi sento più o meno così.
Per parlarne, tratterò di qualcosa che non c’entra niente, una storiella lunga e noiosa che mi permetterà di riempire questo post.
Come alcuni di voi sapranno, nel 2008 ho pubblicato un racconto in una piccola antologia di una casa editrice pressochè sconosciuta. Decisamente non sono ancora molto vicino al Nobel, ma in quel momento mi sembrava una gran bella cosa.
C’erano altri ragazzi in quella antologia, tra cui questo tizio che aveva scritto un racconto dove il protagonista era un super duro che gioca a carte tutta la notte, si guarda qualche tetta nella pubblicità notturne e poi decide di buttarsi dal balcone perchè era malato. Il salto del tizio era completamente imprevisto, e probabilmente qualcuno che ha letto troppo Welsh e troppo Palahniuk (travisandoli completamente) avrà pensato che un bel colpo di scena così avrebbe scioccato il lettore. Io mi sento solo preso in giro. Leggo, e penso ad uno che flette i muscoli senza avere dentro di sè, nei suoi occhi, neanche il coraggio di una minuscola rissa da pub. Ancora una volta, c’è il talento, e poi ci sono i trucchetti.
Bene, questo tizio mi aggiunse come amico su Facebook per qualche motivo. Lo vedevo postare ogni tanto le sue cose maledette, piene di roba dura e parolacce. Mi limitavo a scorrerle. Quasi preferivo i video dei gatti. Mi dimenticai completamente di lui, e non ci parlai mai.
Poi un giorno misi sulla mia pagina Fb qualcosa sul nostro caro Benedetto 16. Doveva essere un “Suca Benedetto” se non ricordo male (era il periodo dei Suca ai personaggi famosi, una di quelle mode del cazzo che però ogni tanto mi facevano ridacchiare mentre tornavo da un turno di 10 ore in magazzino, un po’ come Buk mi sa). Fu allora che il nostro Artista Maledetto (che era così solo in nome dell’arte, ma per tutto il resto si atteggiava a Papa Boy) mi redarguì. “Come ti permetti?” scrisse. “Scriveresti così sul rappresentante di un’altra religione? Faresti lo stesso col Dalai Lama?”. Quando lo lessi, ridacchiai ancora più forte, stirai i miei muscoli doloranti e scrissi l’equivalente di un pernacchio, qualcosa del tipo: “Lo scriverei anche su tua madre, se me ne desse motivo”. Dopodichè lo cancellai dagli amici e dimenticai il tutto con un’altra risata.
Perchè vi ho raccontato questa storiella amena e noiosetta? Boh, forse il caldo australiano mi sta dando alla testa, assieme al Vodka-7 che sto bevendo (in omaggio al Buk di “Donne”).
Forse volevo solo mostrare che in giro, coscienti o meno, ci sono tanti scrittori che sono pesantemente in debito col buon Buk, e ci sono ancora più suoi emulatori. C’è un unico problema: lui era Bukowski, e loro no.
Bukowski si può amare o odiare, ma a meno che non siate morti dentro, non vi lascerà indifferenti. Può piacervi o meno, o vi possono piacere solo alcune sue cose e meno altre (io non vado matto per le poesie, ad esempio, anche se mi hanno influenzato anche quelle), però per chi scrive, bisogna ammettere che Buk ha reso le cose più facili. Ha smontato quella scrittura leziosa, novecentesca, che ammiravamo da troppi secoli senza saperne più il perchè. É arrivato e ci ha detto, come recita uno dei titoli dei suoi libri, che “Shakespeare non l’ha mai fatto”.
Da applausi.
Per tutto questo, per quello che ha fatto, per quello che ha rappresentato, costruendo un personaggio in maniera consapevole ed in fondo anche coerente con quello che era e che ha vissuto, Bukowski può permettersi un po’ quello che cazzo vuole. Prima che ci fossero questi finti bulletti a fare i duri scrivendo di gente che si ammazza senza ragione, c’era lui che era un duro davvero (anche se solo sulla pagina, ma cos’altro vogliamo da un Artista?).
Gli perdoniamo, quindi, qualche eccesso di sbruffonaggine, qualche boutade da cazzaro orgoglioso di esserlo, qualche bicchiere di troppo. La sua forza, in fondo, è sempre stata la sua debolezza, come dimostrano anche i racconti di questo “Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze” (Feltrinelli), una raccolta (ancora una volta postuma; ma quanto cavolo ha scritto quest’uomo?) di suoi pezzi, che vanno da quelli giovanili, pubblicati su riviste del settore, ad articoli scritti pochi mesi prima di morire, nel 1994.
Da seguace di Buk, di quelli che ha letto tutto o quasi, mi permetto di dire che la qualità dei pezzi non è per niente uniforme, ma probabilmente non era quello lo scopo. Mettendo insieme pezzi così diversi che vanno dal racconto di fiction, alla recensione di autori e libri (imperdibile quella fatta ad un suo stesso libro di poesie), agli articoli scritti per la rubrica “Taccuino di un vecchio sporcaccione”, non si vuole ottenere una lettura lineare, ma un’investigazione più approfondita di questo autore, definito genio e buffone in ugual misura. Ci sono i racconti giovanili, che fanno quasi tenerezza nella loro incertezza, come se anche lui dovesse ancora liberarsi dall’influenza dei suoi dèi. Ci sono le critiche letterarie, dove Buk unisce uno stile più sobrio, quasi giornalistico a volte, con altre parti più “sue”. Ci sono i racconti umoristici, grotteschi, tragici, pieni di bevute, scazzottate, sesso a buon mercato, stanze di hotel fatiscenti, depressioni e gloria da doposbronza.
Alcune di queste storie erano già state trattate in altra maniera altrove nella sua opera, o addirittura in altri pezzi di questa raccolta. Buk sembrava come ossessionato da alcune delle storie che aveva vissuto o sentito da qualche parte. Questo potrebbe creare un po’ di ripetitività, specie in chi lo legge per la prima volta e magari non ha letto la versiona “originale” di quelle storie.
Alcuni dei pezzi qui non sono tra i suoi migliori, ed il Buk che ne esce è uno spaccone sempre sbronzo, scrittore di successo e gran scopatore (tutte cose che uno tenderebbe a credere se non conoscesse il resto dell’opera di Buk, dalle “Storie di ordinaria follia” in poi).
Ciò nonostante, ci sono comunque dei bei pezzi come “Reading stupefacente”, ed in generale il tempo passato a leggere Buk non è mai tempo perso. Magari consiglierei, a chi lo dovesse avvicinare per la prima volta, di giocarsela sul sicuro e puntare più su altre opere.
Che altro aggiungere? Lascio concludere lui, con le ultime parole dell’ultimo racconto, ed io me ne torno dov’ero prima, a lasciare in pace i miei dèi.

Ma adesso ho parlato a sufficienza di scrivere poesia; ho ancora tempo stanotte per scriverne un po’. Qualche birra, un sigaro, la musica classica alla radio. Ci si vede.


Consigliato a:
gli ultra' di Buk, o quelli che comunque lo apprezzano; chi non lo conosce ma si e' gia' comprato qualcos'altro di suo; chi ha voglia di una prosa che lo possa far piangere e ridere nel giro di poche pagine.

lunedì 10 novembre 2014

"Trilogia della Citta' di K.", Agota Kristof

Alla fine delle due ore ci scambiamo i fogli; ciascuno corregge gli errori di ortografia dell’altro con l’aiuto del dizionario e, in fondo alla pagina, scrive: Bene o Non Bene. (...)
Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Se scriviamo “L’attendente è gentile”, non è una verità, perchè l’attendente può essere capace di cattiverie che noi ignoriamo. Quindi scriveremo semplicemente: “L’attendente ci regala delle coperte” (...)
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti


Ero arrivato a questa “Trilogia della Città di K.” di Agota Kristof ben consigliato, ed era uno di quei libri che mi ripromettevo sempre di comprare e poi dimenticavo sempre. Non sapevo niente di questo libro, tanto che pensavo che la K. stesse per Kafka, chissà perchè. Non c’ero andato lontanissimo, alla fine.
Con i consigli sui libri, la questione è sempre difficile. Uno fa finta di segnarsi i nomi mentalmente e poi dimentica tutto qualche secondo dopo. Io ho le mie fonti sicure, di quelle che non toppano quasi mai.
Questioni di gusti, poi.
Vale sempre, ed in particolare con lo stile col quale è scritto questa Trilogia. Uno stile scarno, fitto come un intrico di rovi, dove non passa mai il sole, neanche per sbaglio. Il rischio, con un linguaggio del genere, è alienare e stancare il lettore esattamente come potrebbe fare uno stile troppo ricco e descrittivo. La Kristof, invece, arriva fino in fondo, e lo fa davvero alla grande.
La Trilogia è, per l’appunto, composta da tre parti, scritte in fasi diverse dall’autrice, con uno stile che varia da una parte all’altra, così come l’io narrante. Il libro comincia seguendo la storia di Lucas e Claus, due ragazzini affidati dalla madre alla nonna durante la guerra, in un Paese dell’Est mai menzionato. I ragazzini decidono di tenere un diario –o meglio, un Grande Quaderno- per raccontare quello che fanno. Sono due tipi molto tosti, così come tosta è la vita da quelle parti ed in quel periodo. Tramite esercizi fatti di privazioni e persino violenze tra di loro, provano a fortificarsi e cominciare a difendersi da quella realtà che si fa ogni giorno più aggressiva.
La prima parte del libro è scritta in maniera stilisticamente impeccabile. Non viene concesso niente alla fantasia, gli aggettivi sono praticamente inesistenti, la narrazione è asciutta e tiene incollati alla pagina. Le altre due parti del libro cambiano un po’ regime e sono leggermente meno riuscite –in particolare l’ultima, che sembra un po’ messa insieme per risolvere gli enigmi rimasti insoluti all’inizio, rovinando quell’atmosfera di mistero e irrealtà che si era creata fin dalle prime righe.
Nonostante questo, una volta iniziato, questo libro è uno di quelli che vi porterete dietro e continuerete a leggere finchè non sarete arrivati all’ultima pagina, e non tanto (o non solo) per scoprire cos’è reale e cosa no, ma perchè non riuscirete a staccarvi da un flusso narrativo avvolgente come pochi.
La bravura della Kristof, stile a parte, è di catturare il lettore e portarlo con sè in una storia cupa come poche, disperata e tetra, in bilico sempre tra una razionalità impeccabile e un’atmosfera irreale che confonde fatti e personaggi. La storia di Claus e Lucas permette alla Kristof di mettere sul piatto il tema della verità –che cos’è? Esiste davvero? Dove finisce la fiction e inizia la vita vera? É più vero quello che ci raccontiamo, o quello che accade?
Tutti i personaggi –credibili e mai caricaturali- ne cercano una propria (incluso il libraio Victor, che da figura secondaria fa un’apparizione che lascia il segno), senza mai riuscire ad ottenerla –e anche quando ne trovano una, parziale e provvisoria, succede sempre qualcosa a portargliela via. Da questo punto di vista, le bugie che ci raccontiamo sono più affidabili, e ci danno più senso. Non per niente, il libro si conclude con il capitolo chiamato “La terza menzogna”.
La Trilogia è, alla fine, una storia di solitudine e dolore, claustrofobica e ben raccontata, dove non saprete mai se quello che sta succedendo è vero o meno, e che vi lascerà col fiato sospeso fino alle ultime pagine che sveleranno alcune delle menzogne, e ne lasceranno in sospeso altre.
É una storia oscura, senza possibilità di vittoria o redenzione. Di quelle da leggere quando fa freddo e fuori piove, e sembra non smettere più.

Consigliato a:
tutti, specie quelli con poco tempo (si legge in fretta); chi sta cercando una storia “invernale”; chi ama lo stile “minimalista” (qualunque cosa voglia dire).

domenica 2 novembre 2014

"Kafka sulla spiaggia", Haruki Murakami

Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.

Mi verso un Jim Beam (che detesto, ma qualcuno l’ha lasciato qui da qualche altra festa) e mi accingo a parlare di “Kafka sulla spiaggia”, il libro che forse meno mi è piaciuto di Haruki Murakami. Perchè allora affannarsi a scriverci una recensione? Un po’ perchè me lo sono imposto, come esercizio e promemoria, e un po’ perchè di un grande scrittore non si butta via quasi niente, nemmeno quando ha un momento di fiacca.
Ironicamente, il libro è visto come un seguito “ideale” (storia e personaggi non hanno niente a che vedere) con “La fine del mondo e il Paese delle meraviglie”, il libro con il quale ho scoperto Murakami e, per me, il suo migliore tra quelli letti –e mi spingo a dire, uno dei migliori che ho letto negli ultimi anni (tant’è che l’ho prestato parecchio in giro: Giulia, se sei in ascolto, quando me lo ridai?)
“Kafka sulla spiaggia” parte, come sempre con Murakami, da premesse semplici, quasi banali: Tamaru, ragazzo quindicenne, decide di fuggire da casa. Prende con sè i suoi vestiti e pochi soldi, e parte senza una meta stabilita. Già poche pagine dopo, però, si racconta di uno strano episodio avvenuto vicino Hiroshima durante la Seconda Guerra Mondiale, e da lì in poi tutto prende la solita piega onirica dei romanzi di Murakami. Tamaru continua il suo viaggio che lo porterà ad una biblioteca e ad essere coinvolto con dei personaggi che, come sempre con questo autore, sono assurdi e perfettamente credibili allo stesso tempo. Nel frattempo seguiamo anche le gesta di Nakata, anziano con deficit cognitivi che sa parlare con i gatti e viene, suo malgrado, coinvolto in uno strano omicidio...
La trama, come spesso capita con i romanzi di Murakami, sarebbe troppo lunga e troppo folle da esporre in una sinossi (come avrà convinto il suo primo editore, resta un mistero). É un altro romanzo permeato da quello che è stato definito “realismo magico” (il solo romanzo “reale” di Murakami è “Norvgian Wood”), che non sarebbe un genere che sceglierei, ma per fortuna sono uno che se ne frega delle definizioni, e quindi posso dirvi solo che il libro, come tutti gli altri, fila che è una bellezza. Murakami riesce come sempre a descrivere il soprannaturale e ogni sorta di episodio grottesco utilizzando uno stile chiaro ed efficace. Nonostante le oltre 500 pagine, non ci metterete molto a finirlo.
In quanto alla storia, la finirete ma probabilmente vi resterà più di un dubbio in testa. Come spesso capita, vi chiederete il perchè di certe cose che accadono nel libro. Forse la risposta, se si vuole apprezzare davvero Murakami, è che certe cose accadono e basta, senza doppi significati. A volte è come un sogno, e spiegare un sogno può essere affascinante, ma in ultima analisi, inutile. Lasciatevi portare via senza farvi troppe domande, tanto comunque non avrete risposte. Murakami stesso, in un’intervista, ha dichiarato che “Kafka sulla spiaggia” è un libro da leggere più di una volta, per poterne afferrare i vari significati nascosti tra le pagine.
Ah, Haruki, io ti voglio bene, e forse un giorno rileggerò le tue 500 pagine, ma al momento dovresti metterti in fila perchè qui di cose da fare ce ne sono parecchie. Ma brindo lo stesso alla tua, pure con questo whisky che non sa di whisky.
“Kafka sulla spiaggia”, nonostante la sua scorrevolezza, resta uno dei libri più oscuri dell’autore, e sicuramente non da suggerire per approcciarsi all’opera di Murakami. Si sfiorano, lungo la lettura, quei significati nascosti, a volte persino primordiali, psiconalitici, disseminati in ogni pagina. Si intuisce che c’è dell’altro. In un mondo senza le 40 ore lavorative a settimana, una lettura così sarebbe altamente consigliata.
Dove però “La fine del mondo e il Paese delle meraviglie” riusciva, e “Kafka sulla spiaggia” un po’ meno, era nel creare un mondo “altro”, poetico, che faceva propendere alla sospensione del giudizio. Il ritmo era più serrato, i significati più cosmici. “Kafka” gioca un po’ con le parole, e ci mette troppo tempo a dire le cose che deve dire, sciupandone un po’ il significato.
Detto questo, “Kafka sulla spiaggia” non è lettura semplice (anche per Murakami, ed è tutto dire), ma non avrete comunque la sensazione di aver sprecato del tempo. Non come ne avrete sprecato leggendo questa recensione, comunque.
Vado a farmi un altro Jim Beam.

Consigliato a:
i fan di lunga data di Murakami, gli appassionati di storie surreali, chi si è appena licenziato o è andato in vacanza e non ha figli a rompergli i coglioni

Marco