martedì 29 giugno 2010

ALEJANDRO

Alejandro è il nome che una cantante ossigenata ripete senza sosta.

Alejandro è una parola più volte incolonnata nella pagina di un blog.

Alejandro è un ragazzo argentino che vive a Berlino e ha una ragazza che si trasferirà a Londra.

Alejandro è un roseo buongiorno sulla scrivania, infilato per metà in una bottiglietta d'acqua Egeria riempita al bagno.

Alejandro è aprire gli occhi e ritrovarsi di colpo sotto una cascata di fiori che apre il varco per un magico mondo parallelo.

Alejandro è tutto ciò che in alcuni momenti vorrei essere, e nello stesso momento Alejandro sono anche già io. 

lunedì 21 giugno 2010

Se non è una ruota, la vita

Saranno più o meno quelli di un anno, i giorni passati dall'ultima volta.
Da quel momento per me cominciò un lungo cammino, all'inizio inconsapevole e in seguito comunque poco chiaro, che mi ha portato sin qui, sino ad oggi.
Oggi mi guardo indietro e lo vedo bene, il cammino. Come su una mappa, ne scorgo le più piccole deviazioni.
Quante ne vedo...
Una ogni volta che ho arrestato la marcia. E specie all'inizio mi fermavo praticamente ad ogni passo.

A un anno di distanza le mie giornate sono cambiate, ma i miei desideri sono rimasti gli stessi. E' strano, questo meccanismo di un qualcosa che cambia ma che resta anche uguale.
Quando sono arrivato, avevo troppe cose e troppi nomi da imparare. Volti da memorizzare, significati da capire. SEO, SEM, SERP, etc.
Ma col passare le cose si sono semplificate: ho imparato le sigle e le tecniche, e ho memorizzato nomi e volti appena in tempo per vedere alcuni di essi sparire. Nemmeno fosse una maledizione.
Io in un posto così non c'ero mai stato, e quelle cose non le avevo mai fatte. Ma seduto su quella sedia, a battere sui quei luridi tasti incrostati, c'ero sempre io. Un'altra volta qualcosa cambiava ma in qualche modo rimaneva uguale, come nell'esempio cartesiano dell'idea della cera.
E nell'arco di giorni sono sbocciati fiori, sono esplose risate, sono volate farfalle. Tasti consumati dal nulla hanno preso a battere parole poetiche, zucchero alla sambuca ha dato un gusto nuovo al caffè.
Lavoro macchiato di vita.

A un anno di distanza, c'è di nuovo una bottiglia di wuhrer nel frigo. Non la bevo. E' in ricordo di una grande occassione passata che per quest'anno non ci sarà. Eppure quei due ragazzi, così pieni di vita, in qualche modo non se ne sono mai andati. Sono ancora in quella stanza, bagnata  in questi giorni da quella luce così simile. Sono a ridere e a scherzare, sono a farsi la doccia e a bestemmiare il caldo. Sono a comprare dei colori in un negozio del centro, sono con le valigie appena scesi dall'aereo, lungo la strada verso casa.
Lui lotta come me e come tutti, come l'anno precedente, col coltello tra i denti. Lei come una rondine attraversa il mondo per portargli il sorriso. Quei due ragazzi mi sono nel cuore.

A un anno di distanza, i suoi occhi sono in parte diversi: hanno luci ed ombre che mi sono estranee. Ma lo sguardo è sempre lo stesso, e il sorriso è rimasto invariato. Mentre qualcosa cambia, qualcos'altro resta com'era.

Prendere una ruota e fissare un punto. Farle compiere un giro completo, finché il punto non torna nella sua posizione.
La ruota è sempre la stessa, ma ad ogni nuovo giro si porta dietro un nuovo pezzo di strada, di asfalto, di breccia, di vetro, di vita.
Ogni volta che ritorna, ha una nuova storia da raccontare. Una storia cui puoi anche non credere, un'avventura di cui forse non la credevi capace. Ogni volta che ritorna da te, in quel punto, la ruota ha una storia talmente estranea che credi sia una ruota diversa, ma in fondo è sempre la stessa.

domenica 20 giugno 2010

Opg blues

Le guardie hanno facce
da telecronisti di periferia
che non hanno mai visto
una partita decente

Gli altri scivolano intorno
ai muri
toccandosi la testa o il pacco
con quello stupore
di quando ti perdi il Natale
e non sai perchè

Quando esci calpesti
mille coriandoli
fatti con giornali
che nessuno aveva voglia
di leggere.

mercoledì 16 giugno 2010

Passatemi una birra

Torni, sai già che la situazione non è delle migliori ma credi comunque di poter sostenere ed aiutare qualcuno che proprio da te invece non si vuole far aiutare.
Il silenzio che ci divide è un silenzio che mi fa male perché è voluto e vuoto.
Mi chiedo dove sta l’errore, dove ho toppato, non sono una santa né sono perfetta, ma preferirei essere mandata a quel paese piuttosto che ricevere frecciate pungenti.
Questo è solo uno sfogo, lo sfogo di chi crede che si è rotta le palle di doversi sentire in torto o in colpa per cose che non ha commesso.
Non mi sento vittima, né cerco comprensione, sono semplicemente incazzata.
Cari amici del Morgana passatemi un paio di birre.

lunedì 14 giugno 2010

Il caldo è un pessimo collega di lavoro

Per uno che non fa pause sigaretta, staccare la spina ogni tanto è fondamentale. Non c'è un pacchetto da 4 euro lì sulla scrivania, a ricordarti che ogni tanto devi prenderti un momento per te.

Tu sei solare, ignorante e stagista quel tanto che basta per vivere più serenamente.
Eppure il traffico scorre senza sosta a pochi metri dalla tua viuzza, e sulla tua scrivania i lavori si accumulano secondi solo alla polvere.

La polvere.
Resta lì, un po' sospesa e un po' sedimentata. Il caldo l'impasta con lo smog e col fumo, e lei, infame, s'infila nei polmoni tra una bestemmia perché la corrente è andata via di colpo e una risata col collega. E tu non puoi non respirare, tu non puoi non vivere. Ormai hai capito come si fa, e già questa è una gran cosa.

Qualcuno è andato via quando l'avevi appena conosciuto. Qualcun altro non hai avuto il tempo di farlo o vederlo sorridere. Qualcuno, intanto, per te è diventato qualcuno.

E tu sei lì, e te la giochi con le tue carte.
Con due ventilatori strappati a una soffitta piena di polvere e tristezza. Con un po' di tè freddo e qualche gelato, perché il caldo è un pessimo collega.
Questa non l'avevi ancora imparata, ma niente paura: sei lì proprio per questo.

Tra un pantalone bianco a tratti semi trasparente e una strigliata che ti arriva dalla stanza a fianco, tra un caffé caldo e un tè freddo, a volte stacchi gli occhi dal monitor.
Ma tanto poi torni lì. Tra le pagine che hai scritto e gli errori da rimettere a posto, ci sei tu.

domenica 13 giugno 2010

Dovere di cronaca

Se dovessi raccontare il primo massaggio shiatsu che ho provato, alcune sensazioni sarebbero indefinibili.
Se dovessi contare quanto l'ho amata, non mi basterebbero le stelle del cielo in una notte senza la luna.
Se dovessi dire quanto mi stuzzica, non basterebbe parlare dell'ultimo sogno.
Se dovessi restare sveglio per scrivere, mi arrenderei alla ninna nanna della "Du demon" che ho bevuto.

sabato 12 giugno 2010

Mondiali




Qualsiasi italiano che non viva in una grotta ha qualche ricordo legato ai mondiali. Non si tratta di patriottismo retorico, di notti magiche e scordiamoci i nostri problemi. La vedo più come una cosa del tipo –tu dove ti trovavi quando Schillaci ha fatto quel gol? E durante la finale con la Francia?
Qualcosa che ci dà il segno del tempo senza farci deprimere troppo come i compleanni.
Che ci piaccia o meno, il calcio fornisce le tappe della nostra Storia più dei trattati, delle lotte politiche, delle conquiste sociali. È avvilente, se ci si pensa. Ma poi parte la musichetta della mondovisione e ci dimentichiamo tutto.
Anch’io ho i miei ricordi. Coi Mondiali, come tutti, ci sono cresciuto. Oltre Italia ’90 ricordo nitidamente quelli del ’94 in America, noi tutti seduti sempre nella stessa posizione in casa, mio nonno che chiudeva il bar quando c’era la partita, e quella semifinale con l’Argentina di Maradona quando la luce se ne andò nella fottuta Liuzzo e noi ammassati in macchina a seguire i rigori alla radio. Eravamo ancora bambini, e poi improvvisamente adulti ci ritrovammo a casa mia, nel ’98, a fare il tifo e a fare finta che non fossimo di maturità, e anche indietro di una vita sul programma. Le partite erano un’ottima scusa per non fare un cazzo. Il caldo e l’autoerotismo facevano il resto.
Stava per cambiare tutto. Ancora poche settimane dopo la finale giravamo per le vie di Parigi ancora tappezzate di pubblicità sui mondiali passati. Era un momento folle, veloce, decisivo. Tutto poteva cambiare. Non vedevamo l’ora.
Di quelli del 2002 invece ricordo poco perchè stavo morendo, semplicemente. Passavo le mie giornate in una stanza vuota a ripetere. Ero di esame, ancora una volta. Non me ne importava niente, nè degli esami, nè del resto. Le partite erano il mio ultimo pensiero. Davanti a me c’era Roma arsa da un caldo mai visto. Mi sembrava impossibile che sei milioni di persone avessero deciso di venire a vivere in quell’incubo d’aria condizionata. C’era da uscire di testa. Sudavo l’anima da tutti i pori, assieme alla birra da due soldi. Parlavo col ventilatore, che mi seguiva anche al cesso. Non c’era scampo. Guardavo le partite da solo, sul letto, con DUE ventilatori puntati addosso e ancora sudavo sangue. Ogni tanto qualcuno urlava nel pozzo luce. Io alzavo un po’ più il volume. Quando l’Italia perse con la Corea non stavo guardando la partita. Ero in uno scompartimento di intercity con tre suore sudamericane e un vecchio pazzo. Stavo tornando a casa. Solo, non sapevo quale delle due.
Tanto non faceva differenza.
Anche l’estate del 2006 fu particolarmente calda, ma lo sentii meno. Forse perchè in casa avevamo un piccolo condizionatore che scorreggiava fuori un po’ d’aria fresca, di tanto in tanto. Forse perchè stavolta le partite le seguivo e ci scommettevo sopra. Ricordo la partita inaugurale, Italia-Ghana. Ci trovavamo a casa di un nigeriano. C’erano un australiano, uno spagnolo, un tedesco, un inglese, oltre me Mauro e il padrone di casa. L’Italia vinse e io beccai 50 euro dalla Snai.
Forse fu il gruppetto multietnico con cui ci radunavamo in un pub irlandese a piazza Venezia, con gli australiani incazzati per quel rigore di Totti e noi che cantavamo popopopopopo e ci lanciavamo nella sera che scendeva con in mano una birra e la testa sgombra.
Forse fu il fatto che non stavo morendo più. Forse fu quell’australiana dai capelli biondi e gli occhi verdi che avevo incontrato poco prima di quella partita.
La sera giravamo per Roma, che sembrava speciale in quelle notti di giugno. Incontravamo sempre gente nuova. Ci doveva essere un altro cambiamento. Forse era la volta buona.
Dopo la finale, che vedemmo al Circo Massimo in mezzo ad una bolgia che può capire solo chi c’è stato, io e Mauro tornammo a piedi da lì fino a casa nostra sulla Tiburtina. Fu un viaggio lungo, epico, scandito da Tennent’s sudate e risate e coretti e cazzeggio di quelli che capitano ogni 24 anni. Arrivammo a casa quasi all’alba, stanchi morti. Misi la sveglia lo stesso, perchè la mattina dopo avevo un’appuntamento. Dovevo rivedere la mia australiana. L’Italia era campione e la mia vita cambiava ancora e faceva un altro giro sotto la curva.
Ora mettila anche tu la sveglia, socio. Lì gli orari sono un po’ sballati. Ma poi, otto e mezza di sera o quattro e mezza di mattina, che importa? Basta essere lì, a non pensare a niente almeno per quei 90 minuti. A sentirci nella stessa stanza, nello stesso Paese. A far finta che siamo ancora bambini, ragazzi, quasi adulti. Meglio se con una Tennent’s.
Buona partita, socio.
Aspetto lo squillo al calcio d’inizio.






domenica 6 giugno 2010

Il passato

E’ stato qualcosa che non voglio, di cui non so che farmene. È un articolo che non mi interessa, che cedo volentieri, e di cui non parlo mai.
E’ stato un film girato solo di notte, con luci scarse, cameraman incapaci e comparse balbuzienti. Uno di quei film che non capisci niente ma che ti sembra ci debba essere un qualche grande segreto dietro, un significato nascosto, qualcosa di più alto. Poi lo guardi bene e ti rendi conto che non esiste niente di tutto questo.
E’ stata una prova per duri, un passaggio nel fuoco che mai o poi mai rifarei, e per questo non casco mai nelle finte nostalgie che mi costruiscono stagioni e persone. Un gioco che mi ha stufato da un pezzo. Non ha senso tornare in un posto dal quale volevi solo scappare.
E’ stato quel giorno che mai e poi mai avresti voluto rivivere ma invece capitava ancora. E per troppo tempo.
E’ stata una pessima poesia con frasi incoerenti, immagini agghiaccianti e che non stanno mai bene insieme, rime stonate. Una canzone che non hai più voglia di ascoltare. Una trappola, in cui non riesco a smettere di cascare.
E’ stato orrore, che a raccontarlo fa solo ridere. È il perchè io sono così, è il perchè mi devi prendere così, è il perchè spero che capirai.
E’ stata una ferita che possono avere in tanti. Ma è mia, e questo per me basta.
Resta poco, di tutto questo. Ci sono le cicatrici, a ricordarmelo. Ci sono alcuni fogli scritti col rosso. Ci sono quelle risate strane che mi muoiono in gola. Alcune cambiali che non riuscirò mai a saldare. Quella voglia che ogni tanto mi prende di scappare. Quell’eterna tristezza dalla quale non potrò mai a guarire.
Per tutto questo ci sono i miei viaggi, i miei amici. C’è un foglio di carta. C’è un bicchiere. Qualche giorno di sole.
Per tutto il resto, ci sei tu.