lunedì 24 ottobre 2011

Genitori e bimbi 2.0

Probabilmente fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo, ma è anche vero che spesso la gente ci mette del suo. Giorni fa sono incappato in un sito web che un padre "più che tecnologicamente avanzato" ha creato per suo figlio. Ovviamente il sito è pieno zeppo di foto del pargolo, in ogni faccenda affaccendato.

Bè io mi sono un filo preoccupato.
Ma non dico di limitarsi agli album di foto che finiscono relegati in salotto o peggio in qualche scaffale sotto dita di polvere. Lo so, cavolo, ormai siamo nell'era del social, dello sharing, dei geek, dei nuovi evangelisti.

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martedì 11 ottobre 2011

Media rossa

domenica 9 ottobre 2011

M'illumino d'autunno

Stare in mutande per casa non è più come prima.

È diversa la luce e sopratutto è diversa la temperatura. È diversa l'aria, per Dio, che finalmente si sente. Questa è l'aria che voglio sulla mia pelle, questa è l'aria che voglio nel petto.

 È curioso che proprio all'arrivo del primo vero giorno d'autunno mi sia ritrovato a guardare un film dove uno spirito della foresta fa fiorire il terreno ovunque egli passi. È un po' fuori stagione, ma la sua vista sul mio stato d'animo ha un potere maggiore di quello del calendario.

DENTRO - Shampoo, bagnoschiuma e acqua calda. La voglia di mettere a fuoco la vita cercando la lente tra le verità. La voglia di scaldarsi, di correre, di stancarsi e di ripartire. La voglia di essere pulito, soprattutto. Di fare tutto questo come avessi una nuova pelle avessi una nuova pelle con cui toccarlo e sentirlo, come un serpente che ha fatto la muta.

FUORI - La tramontana che spazza le nubi, spoglia gli alberi e porta ispirazioni di cambiamento. Forse ha persino il potere di liberare la mente, o forse è solo una magia di cui ero nostalgico, che ritorna dopo essere stata lontana per tanto, incantandomi a fissare la strada dalla finestra, schiarendo i miei pensieri nel vuoto.

Esco dalla doccia sapendo che il caldo che ho intorno durerà appena il tempo di arrivare in camera e mettermi addosso qualcosa. Nel frattempo il richiamo del profumo dei funghi e della pancetta in padella mi inebria e mi convince in un attimo che un appetito da coccolare è di gran lunga più godurioso di una qualsiasi fame placata.

Voglio il potere di stringere il sole e quello di parlare con gli animali. Voglio che che tutti abbandonino per un giorno la macchina e vadano in bici, cercando di trovare equilibrio.
Ho una voglia matta di baciare, di scrivere, di parlarne o almeno parlare. Di correre senza una meta, di scavalcare cancelli, di abbracciare la luce. Ricordi e speranze, vita e morte, pioggia e sereno.

Gli occhi di quella ragazza appena dopo il tramonto...
Per anni ho cercato il calore dentro di me fino a trovarlo. Ma ieri, con la prima tramontana, senza di lei sarei morto di freddo.




Considerazioni fatte guidando nel parcheggio di un centro commerciale una domenica pomeriggio col sole che quasi se n’è andato

che poi l’unica vita interessante
l’unica accettabile
è quella con la guerra
subito fuori casa
e qualche volta anche dentro

il rumore di granate e mortai
mentre fai la doccia
il lampo delle esplosioni che
illumina il tavolo
durante la colazione
la terra che trema, i boati
tu che provi ad addormentarti
per sognare la pace
e scambiarla ancora per
felicità

e pace
è pensare a cosa mangiare
tra due cene
è trovare il tempo
per tagliarti le unghie
è lunghe passeggiate
senza missili o bombe
è gioire solo
quando trovi parcheggio
-di una gioia piccola
contenuta
stanca
quasi
da
armistizio.

Marco Zangari © 2011

giovedì 6 ottobre 2011

A noi ce rode sempre un po’ er culo, ma finisce sempre che ce ne famo ‘na ragione.

IL 769 non ha tardato. Ci salgo con un attenzione e un po’ di spensieratezza. Questa volta sì, dopo tempo immemorabile in cui salirci significava aver atteso decine di minuti. Significava essere in ritardo. Significava essere incazzata, perché in fondo non ci si abitua mai ai disguidi giornalieri.

Ora che lo prendo mi sembra che ogni singola strada sia lì, per dare un ordine al caos dei romani. Le strade sono i soli punti fissi dei vortici quotidiani. Sopravviverci significa anche sapervi districare.

I romani sembrano sempre incazzati. In realtà sono solo arresi. Al traffico. Alla confusione di giovani che schiamazzano sugli autobus e agli stronzi che superano chi sta in fila davanti a loro. Alla gente distratta che si ferma in mezzo alla strada. Alle macchine che non si fermano davanti alle strisce pedonali. Sono arresi alle regole a cui non si attiene nessuno. Alle stronzate legalizzate. Ai cambi di programma imprevisti, che le circostanze li portano ad accettare. Alle imprecazioni di chi è incazzato come e più di loro. Al postino che suona solo per portar loro le multe salatissime del Comune di Roma. Al tizio che vuole vendergli il folletto, ancora in giacca e cravatta, per darsi un tono, quando appare più mediocre di qualsiasi precario sottopagato.

L’autobus si ferma ad ogni fermata, dove sale sempre qualcuno, ma spesso non scende nessuno. Si riempie lentamente, sovraccaricandosi, tra l’altro, di umori, impazienze e odori.

I romani rivolgono gli occhi al cielo quando stanno male. Spesso trovano la luce. Il cielo sereno, aperto, azzurro. Spesso scorgono l’orizzonte, perché Roma è anche piena di parchi e strade immense che si fanno spazio tra quei grovigli di quartieri popolari. Spesso si dissetano, fermandosi in una dei numerosissimi nasoni, da cui sgorga sempre acqua fresca e buona. Più buona di qualsiasi acqua minerale buona. Si rinfrescano il viso e sospirano. A volte poi si guardano attorno con occhi diversi, come capita di fare a me, che qui ci vengo solo di passaggio ultimamente. C’è tanta vita intorno a loro, anzi è pieno di vita. C’è sempre un rumore di sottofondo. Un passante che fuma. Un passante che ti rivolge la parola. Che sorride o grida al telefono.

Scendo dall’autobus alla fermata della metro S.Paolo. Attendo un’amica davanti all’edicola. Il giornalaio canta. Col tono di chi è arreso ma, in fondo in fondo, gli va bene pure così. E mi guarda come a dire "tanto che dobbiamo fa?".

A noi ce rode sempre un po’ er culo, ma finisce sempre che ce ne famo ‘na ragione.

martedì 4 ottobre 2011

Poco più di un minuto per essere umani

PREMESSA: Oggi ho sottratto in modo calcolato quindici minuti al mio lavoro. Avevo iniziato a scrivere questo post sul tempo e, ironia della sorte, un'emergenza mi ha costretto a interrompere e a continuare una volta tornato a casa.
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Non so se vi ho mai detto che ho un blog di calcio. Risultati, anteprime, qualche commento...la solita roba, niente di che. È un modo di condividere una passione, e di restare in contatto con alcuni amici che mi fanno il favore di collaborare.
Quando il progetto è partito, ho messo un annuncio su un paio di siti per vedere se c'era qualcuno che poteva essere interessato a scrivere di tanto in tanto un articolo. Naturalmente ho specificato, scrivendolo a caratteri cubitali, che si trattava di una collaborazione non retribuita. Ho aggiunto che era un modo di "giocare a fare il giornalista sportivo".

Ecco però cosa succede. Arrivano delle email di persone ultra formate che chiedono un lavoro, convinte si tratti di una vera e propria occupazione retribuita. Persone che forse vanno veloci e non leggono tutto, persone che nel dubbio (ma quale dubbio?) ci provano. La verità è che non ci sono i soldi, non c'è lavoro, non c'è nemmeno speranza. Non c'è tempo per niente. Ho scosso la testa leggendo curriculum di persone in gamba che volevano che io dessi loro uno stipendio.
Chiaro che io, che già perdo tempo (non immaginate quanto) con questo blog amatoriale di calcio, non avevo tempo per rispondere a nessuno. Contavo di mettere da parte 3-4 curriculum buoni, di gente che aveva inteso non fosse un'attività remunerata, e poi selezionare uno tra questi. Le altre email nel cestino, al costo di pochissimi click.

Però c'è stata una ragazza a cui ho risposto. Il suo curriculum era il migliore di tutti, e aveva esperienze nella redazione di articoli per portali di moda e turismo. Sapeva quello che valeva, e aveva anche aperto una Partita Iva per essere una vera freelance. Laureata 110 e lode in Giurisprudenza, conoscenza lingua italiana, inglese e francese: non dico altro. Chiaro che fosse la candidata più sprecata del mondo, per scrivere sul mio squattrinato blog.
E allora le ho scritto. Le ho scritto che evidentemente le era sfuggita la parte più importante dell'annuncio, le ho scritto che era così ben formata e determinata, che doveva mirare decisamente più in alto. Le ho scritto che proprio in virtù delle sue qualità le auguravo il massimo del successo nella vita.

Scrivi messaggio -> Invia messaggio -> Messaggio inviato.  Mi ci è voluto poco più di un minuto.


Poi ho dimenticato tutto. Ho trovato la risorsa che cercavo e ho smesso di guardare l'email usata per l'annuncio (oltretutto erano passate 3 settimane). Ieri mattina, mentre controllavo la posta, l'oscuro potere del completamento automatico mi ha portato nell'altro indirizzo.
Insieme a un paio di annunci, c'era quella ragazza che mi rispondeva.


Ciao Edoardo, piacere di conoscerti. Mi permetto di darti del tu e ti ringrazio per la mail e per il tempo che mi hai dedicato.
Auguro a te e ai tuoi collaboratori il meglio,

Elisa




domenica 2 ottobre 2011

Coincidenze

Colui che non lascia niente al caso raramente farà cose in modo sbagliato, ma farà molte poche cose. (George Savile)

La mattina presto, al gabbiotto della stazione, c’è sempre un tizio di colore con una pettinatura afro spessa una decina di centimetri. Gli dò i soldi, lui mi dà il biglietto e mi dice: “Buona giornata, boss”. Lo fa tutte le mattine, e io ancora sorrido. E sono poche le cose che mi fanno sorridere a quell’ora del mattino.
Lui viene dalle isole Samoa. Così mi ha detto, una mattina che era più in vena. Per un attimo, mentre vado verso il treno, mi chiedo cos’ha portato un italiano e un samoano ad incontrarsi ogni mattina, prima delle sette, in una stazione alla periferia di Sydney. E’ una coincidenza, una delle tante delle mie giornate.
Io credo molto nel caso. Ci credo tanto che il caso è il mio dio. Sono fatalista. La gente si affida a piani, progetti, studia tutto nei minimi dettagli, e poi sono le cose impreviste che rovinano la vita in un attimo, o magari portano la felicità che si era smesso di aspettare.
Il lavoro l’ho trovato per una fortunata coincidenza. Non ci stavo pensando affatto. E’ successo e basta. Ma anche la mia presenza qui a Sydney, Australia, a 15mila chilometri dal luogo nel quale sono nato e cresciuto, è una coincidenza che ha a che fare con una notte romana, qualche Rusty Nail e una passeggiata sul Lungotevere.
Come diceva John Lennon, la vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare qualcos’altro. Ecco quello che intendo.
Questo lavoro, capitato per caso, oggi mi porta a visitare un centro di accoglienza per vecchi emigrati italiani. E’ pura coincidenza il fatto che, nonostante il mio scarsissimo senso d’orientamento, riesca a trovare il posto senza perdermi tra le periferie australiane- così come è una coincidenza il mio bussare alla porta sbagliata e trovarmi in una riunione di alcolisti anonimi, con gli occhi di tutti addosso.
Nel centro di accoglienza –quello giusto- gli anziani cominciano ad arrivare. Sono persone arrivate qui dall’Italia negli anni 50’ e 60’, e qualcuno anche prima. Vengono qui una volta a settimana per ritrovarsi, giocare a tombola e farsi un autentico pasto italiano. Le loro famiglie o non ci sono più, o non possono prendersi cura di loro, o sono dall’altra parte del mondo.
Gina, la responsabile del centro, mi dice che oggi è il compleanno di Lino. Lino fa 89 anni, e assomiglia un po’ ad Andreotti. 89 anni, e di questi più di 60 passati in Australia. Eppure Lino, per quel poco che parla, lo fa in italiano, con uno stretto accento torinese. Tutti, qui, parlano italiano, anche se a volte ci mettono in mezzo delle frasi in inglese. Non ci fanno più caso. Quando dico loro che sono qui solo da due mesi, mi subissano di domande, e un po’ mi guardano come a dire, vedrai, vedrai cosa vuol dire far l’emigrante. Mi chiedono da dove vengo. Glielo dico, e loro subito a chiedermi di questo o quel negozio, che nella mia città magari ha chiuso da vent’anni ma loro non l’hanno mai saputo. E’ una coincidenza che ci siano stati, che l’abbiano vista, e che ora siamo qui a parlarne in un posto dove a ottobre si va verso l’estate.
Gioco a tombola con loro –e da queste parti la tombola è un affare serio, credetemi- e poi ci siediamo a mangiare. C’è pasta con le polpette, che tutti vedono come tipico pasto italiano ma io, in 32 anni, non ho mai trovato in Italia. Coincidenza culinarie.
Mi siedo al tavolo con tre simpatici vecchietti, un calabrese, un veneto e Lino. Il calabrese è quello più attivo, racconta, parla, non la smette più. Il veneto se ne sta più tranquillo. Noto che usa solo un braccio per fare tutto. E’ un musone e spesso manda affanculo le signore sedute al tavolo dietro perchè fanno troppo rumore, a suo dire, ma poi si lancia anche lui nei discorsi. Gli chiedo com’era qui, 50 anni fa. Com’era, quando siete arrivati?
Loro mi dicono che sì, c’era abbondanza di lavoro, la carne non mancava e il pesce nemmeno. Mangio la mia pasta mentre loro raccontano dei vitelli venduti agli angoli alla strada per soli due dollari, che ci mangiava una famiglia intera per una settimana, o di quando si andava a pescare e bastava gettare la lenza che subito qualcosa abboccava.
E gli australiani?
Beh, come dire, non erano felicissimi. Gli italiani erano spesso analfabeti e facevano mestieri che nessuno voleva fare, e così si spargeva la voce che “rubavano” il lavoro agli australiani. Nei pub, la sera, c’erano risse continue. Se un italiano ordinava da bere, arrivava l’australiano a prendergli il bicchiere, ed era meglio che l’italiano se ne stava zitto, sennò arrivava la settima cavalleria.
“Oh, ma mica era sempre così” dicono, e poi raccontano delle memorabili batoste che si erano beccati gli australiani, come quella volta che un gruppo di siciliani e calabresi aveva cacciato un gruppo di galletti australiani e gli aveva fatto fare a calci in culo tutta la Parramatta Road.
“E da allora, nessuno ci ha dato più fastidio” dice il veneto orgoglioso.
Mi guardo intorno e penso, che strano, che coincidenza, forse anche più grande di quella del samoano –perchè trovare la tua gente tra altra gente, in questo remoto angolo di mondo, ti fa pensare ad un intrico di destini legati come fili e sparpagliati dalla fortuna –o dalla sfortuna, a seconda dei casi.
Andando avanti nella conversazione, scopro che il veneto fa il compleanno il mio stesso giorno. Non mi era mai successo. Altra coincidenza. Ci stringiamo la mano, e lui mi dà la sinistra. Solo dopo, mentre stanno andando via, l’autista del pullman che li ha portati qua mi dice: “Ha avuto un ictus, anni fa, e da allora ha perso l’uso di metà corpo, compreso il braccio. Nonostante questo, vuole fare tutto da solo. Non vuole mai il mio aiuto” dice. Lui è inglese, ha vissuto in Danimarca, si è sposato con una polacca, e ora si trova qui a Oz. Coincidenze. “Se mai dovesse succedere a me, spero solo di morire. A mia moglie è successo, ed è stato meglio così”. Mi stringe la mano e va via.
Il fatto di essere vivi, di essere in salute, è tutta una coincidenza. Scaramanzie a parte, come si fa a capire quale logica c’è dietro uno che si becca il cancro, o un bambino che nasce senza gambe? Nasciamo per caso e moriamo per lo stesso motivo. Forse sarebbe meglio ricordarcelo, ogni tanto. Ci toglierebbe un po’ di arroganza, ci smonterebbe qualche scusa, e ci regalerebbe briciole di eternità.
Una vecchietta, uscendo, mi dice: “Sono 47 anni che sono andata via, e l’Italia mi manca come il primo giorno che sono partita”. Di questa gente, in Italia, non si sente parlare nemmeno per caso. Eppure sono tra i pochi, rimasti, che la amano davvero.
Forse perchè non sanno davvero com’è.
E l’amore, certo, anche quello è coincidenza. Usciamo una sera, troviamo qualcuno e ci sembra che sia QUELLA persona, senza renderci conto che l’amore stesso è un caso, che così come arriva può decidere invece di starsene a casa. Come possiamo affidare la nostra felicità a queste correnti capricciose?
Ma è esattamente quello che facciamo, e mentre torno in ufficio sento, da una pizzeria, il suono di una canzone, che è la canzone che avevamo io e la mia prima fidanzata, un secolo e mezzo fa. Quante possibilità c’erano che la sentissi proprio qui, a Sydney, a eoni di distanza da dove ci siamo dati il primo bacio?
Una su un miliardo. Ma è proprio questo il punto: tutto quello che siamo, si basa su questa statistica ridicola.
Ma in fondo è quello che siamo anche noi.
Così progettate, prevedete, studiatevi ogni mossa: la vita sarà quello che resterà fuori dai vostri calcoli.
Buone coincidenze.