mercoledì 26 settembre 2007

Chissa' in che paese mi trovo...


E' semplicemente un decimo di quanto e' bello...


domenica 23 settembre 2007

Agli amici del Morgana.

Non so se vi è capitato mai di addormentarvi sul cesso, colla testa appoggiata sulle mani e le braccia inarcate sui gomiti che fanno perno sulle ginocchia. Non è una posizione comoda. Appena la testa va un po' troppo a destra o un po' troppo a sinistra finisce che ti svegli.
Mi sono alzato dal cesso, ho sistemato le brache e tutto il resto, ho aperto la porta. Non mi aspettavo di essere là. E' stata una sorpresa. Ero a Parigi, nel settimo arrondissement. Uno dei più borghesi della città. Davanti a me, a pochi metri, si estendeva Hôtel des Invalides, storia di francia, storia di rivoluzioni. Sussulti al cuore, emozioni spontanee.
Poi giravo lo sguardo. Auto di lusso occupavano i posti disponibili ai bordi delle strade e sacchetti per la merda di cane si moltiplicavano nelle buste trasparenti della spazzatura. Ecco che mi saliva un po' di prurito su per il culo. Mi rigiravo ed avevo di nuovo Des Invalides di fronte, e poi, dall'altro lato, lei la torre Eiffel.
Non so se la torre Eiffel sia davvero bella. Arte ed ingegneria è un'unione lesbo - niente in contrario - ma il rischio è di partorire cose che poi vanno per cazzi propri. Oh ingegnere Eiffel non me ne voglia. SVP. Ma parigi è Parigi, e gli si perdona il fascio luminoso e la colata di flash che veste la torre come un albero di Natale anche a Settembre.

Ci vuole poco per amare questa città. una passeggiata la sera, i bar di Montmartre, il pensiero che si dirige a Van Gogh. Una lacrima che sale su per la gola, ma che poi fatica ad uscire come il succo da un limone secco e strizzato. I limoni, mi fregano sempre, stanno mesi nel frigo e quando servono sono già secchi come noccioline tostate. E' davvero incredibile come le cose possano stare ferme per mesi nella stessa posizione e nello stesso posto senza essere mai minimamente spostate, e la nostra indifferenza totale. Ho sempre tenuto un accendino accanto al monitor del PC. Una delle mie libido più grandi è stata quella di surfare e fumare. Dopo l'ultima sigaretta accesa prima di smettere, quell'accendino é stato fermo in quel posto per oltre un anno. Ma poi ci sono un milione di altre cose che stanno nella stessa posizione e proprio sotto i nostri occhi ma non le notiamo mai. Coi limoni, mi finisce sempre così; non ho mai trovato il posto giusto per loro.

La solitudine nasce dalla consapevolezza di non essere nel posto giusto dopo molte ore che mediti, e non dalla mancanza vera e propria di amici. Ma la consapevolezza a volte è più aberrazione, e la solitudine non è solitudine ma è solo noia. Perché anche Parigi, ha qualcosa di noioso; é la vita come te la costruisci tu. La solitudine è una faccenda personale. La incontri durante i weekend. Ma si tampona, si può mascherare. La noia, invece, non ci riesci. La noia non si inganna. Ti fotte sempre. La noia ti annichilisce, ti deprime, si cela nella stanchezza, nell'appagatezza, nella fame, in una sigaretta, in un caffè o in un litro di vino.

Parigi è una donna affascinante, truccata per apparire bella. E' il vecchio che si unisce al moderno. Sono le strade di Les Halles ed il suo centro commerciale nel cuore del quartiere. E poi il centro di Pompidou. Parigi, sono i parigini ed i suoi turisti. Parigi sono la gente. I tifosi sud africani per la metro che celebrano la vittoria di Rugby contro l'Inghilterra. I tossici che vedi bucarsi per le strade solitarie attorno a Gare du nord. E' il clochard che vive dalla testa al fondo schiena dentro la cabina del telefono vicino a lavoro.

Quando devi cercare casa a parigi, ti ritorna il prurito per il culo. Non è sempre facile, qui non hanno il bidet; ma è questione di tempo perché il modo per attrezzarsi lo si trova sempre ed il prurito s'en va. Il croissant la mattina è ottimo.

Non chiamatemi distratto, ma diversamenteattento.

Alè la france;

Le mie prime volte



Tempo fa mi chiedevo: quand’è troppo tardi? Arriva per forza un momento in cui uno è incastrato così bene in tutto quello che lo circonda che non può più uscirne fuori. È un fatto, innegabile quanto triste. La mia domanda era: quando succede tutto questo? Quando hai 40 anni? Trenta? Domani mattina? Per un Bukowski che cambia la sua vita di merda a 50 anni ci sono milioni di persone che invece a 20 hanno già finito.
Bukowski ha avuto fortuna, certo. La fortuna, senza quella non si fa, questo è un fatto. La fortuna è tutto quello di cui un uomo ha bisogno. Quella, e la Speranza. Parola magica, questa. Il motore che continua a pompare anche quando l’ultima goccia di benzina è andata. La colla che tiene tutto.
Speranza.


Con la Speranza che andava e veniva nei giorni più grigi mi chiedevo, è tardi avere la propria prima volta a 28 anni?
Stavolta la risposta ce l’ho: neanche per il cazzo. Nella mia prima settimana qui in Australia ho avuto tante di quelle prime volte che età e giorni bui non contavano più niente. Era sempre come il primo giorno della vita: caotico, confuso, così emozionante da spaccarti il cuore, una voglia di piangere senza riuscirci e tantissime luci anche se intorno è tutto buio.
Semplicemente.


Ho avuto la mia prima notte australiana in una casa enorme in cima alla collina, popolata da angeli biondi leggeri & gentili, con l’impossibilità a dormire un po’ per il jet-lag, un po’ perché là fuori c’è il tuo sogno di una vita e, cazzo, mica puoi restartene a dormire!
Ho avuto il mio primo risveglio –come se fosse il primo davvero- con versi di uccelli che non credevo esistessero, e che a prima botta ti fanno pensare che qualcuno ha lasciato SuperQuark a tutto volume.
Ho avuto il mio primo cielo australiano, ancora in pigiama e tutto, e lasciate che ve lo dica: è davvero così assurdamente blu come dicono.


Ho avuto il mio primo giro in auto, con le strade invase dalla luce e dal calore anche se dovrebbe essere inverno. La prima cosa che noti per strada sono i colori, così forti, così VIVIDI, che ti sembra di non aver mai visto un colore prima in vita tua, nemmeno se hai già 28 anni. È così chiaro che ti abbaglia e ti fa male all’inizio. I tuoi occhi europei devono abituarsi un secondo a tutto quello che ti investe, a quei fiori, a quegli alberi mai visti che spuntano ad ogni angolo della strada, così che ti sembra di camminare sempre in un’enorme eterna foresta. I negozi e le case, tutti bassi e colorati e cosi coloniali da cercare con gli occhi il prossimo saloon.
Ho avuto –anche se erano solo le 11 di mattina- la mia prima VB (la birra più australiana che esista) nel mio primo pub, con tavoloni di legno lucido in cerchio e schermi con le partite di rugby e il barista che mi chiede se voglio qualcosa mate, sempre quella parola, amico, dappertutto. Meravigliosa. Sorseggio la birra fredda mentre mi guardo intorno, eccitato come un bambino al primo luna-park della sua vita, e aspetto la prima volta più attesa della mattinata.
Col mio amico australiano mi infilo dietro un palazzo bianco sbiadito dal sole, tra cucine e avanzi di cibo, e di nascosto saliamo le scale, solo ieri ero in volo, solo 2 giorni prima a Roma, una settimana prima nel Bucodiculo, adesso salgo per le scale di questo palazzo a Manly, una delle spiagge più belle di Sydney, e infine arrivo in terrazza e lì ho la mia prima volta.
Io e l’Oceano ci guardiamo con occhio strano per un secondo o due, poi ci lasciamo andare e ci abbracciamo come farebbero due vecchi amici che si reincontrano sbronzi dopo tanto tempo che non si vedevano –dopo tutta una vita. alla fine, eccolo. E’ maestoso, è vasto, è semplicemente bellissimo. È dappertutto, ti riempie gli occhi e il cuore, come un’alluvione ma ben accolta. Mi sembra di aver percorso tanta strada per arrivare fin qui e per poter confermare quello che pensavo: il Pacifico è davvero blu come nei miei sogni.
Inspiro forte l’aria, che qui mi sembra diversa, tutto mi sembra diverso. È inverno e ragazzi in muta si aggirano con una tavola da surf. Il mio amico mi parla in inglese. Il sole è in ogni cosa, semplicemente. Mi faccia attraversare da tutto, senza fermarmi ad una sola sensazione. Ancora una volta vorrei piangere, ma sono troppo felice per farlo.
Mentre i gabbiani passano e la brezza mi bacia ogni singola cicatrice, guardo questo mio vecchio amico blu –blu come il cielo- ed ho questa fortissima sensazione. La sensazione di essermi seduto al tavolo coi più forti del mondo, e di aver vinto.
Fisso ancora una volta l’oceano, imponente e discreto. Di là oltre l’orizzonte c’è l’America. L’Africa. Poi di nuovo l’Europa. Il Mondo. Inspiro ancora un po’. Fortuna e Speranza, amici miei.
Non serve nient’altro.
Marco

lunedì 17 settembre 2007

Primavera dopo l`Estate. Capitolo 2: In Oz! Angeli & piccoli Paradisi

sabato 15 settembre 2007

Primavera dopo l`Estate. Capitolo 2: IN OZ! In volo...


Quando l’aereo si alza in volo, sto dormendo. Sono state troppe le emozioni, nei giorni precedenti, e troppo poco il sonno. Quando mi risveglio, davanti a me c’è il mega-schermo che indica a che ora siamo partiti, dove siamo diretti e quanto tempo impiegheremo ad arrivarci. Questa è una di quelle cose da evitare, in un viaggio del genere. Mai pensare a quanto manca. Per mia distrazione non ho nemmeno un orologio, e alla fine penso sia meglio così.
Mi risveglio nel viola soffuso dell’aereo della Thai. Le hostess avvolte da grandi foulard colorati e gli steward, vestiti come pinguini, cominciano ad agitarsi, a correre lungo i corridoi. Ci portano il primo giro di bevande. Io vado per un aranciata. Sono in un doposbronza micidiale. Il mio è un esperimento: sopravvivere ad un volo di 26 ore in queste condizioni. Inoltre, è dannatamente rock.


Hostess e steward continuano a correre come dannati, noccioline, strane palle bianche che si rivelano essere fazzoletti a temperature vulcaniche, ancora da bere, tutti che ci danno sotto, whisky e cocktail dappertutto, portano il pranzo e allora non resisto più, prendo anch’io del vino bianco thailandese che sa di medicinale. Dopo il pranzo, ci portano anche del cognac. A quel punto, dopo che ci hanno riempito di cibo e alcol, ci spengono le luci e ci mettono un film. Tutti ci sistemiamo più comodi sulle poltrone, accettando benvolentieri questa regressione verso l’infanzia. Da qui a quando atterreremo, nessuno di noi farà più parte del mondo degli adulti. Per quello, c’è la signorina col foulard.


Dopo un altro sonnellino, un terribile film che si rivela essere un remake hip-hop di "La finestra sul cortile" di Hitchcock e un po’ di pigra lettura provo a parlare un po’ coi miei vicini di sedia –la tipica coppia italiana che va in viaggio di nozze a Bali, lui subnormale, lei di più, che ridono a voce alta per un film demenziale, incapaci di dire grazie o di essere gentili in alcun modo. Visto che sto abbandonando quel paese, non vedo perché fare quest’ultima fatica. Mi lascio scivolare tra Kerouac e Fante, e qualche saltuario appisolamento. Quando guardo di nuovo dal finestrino vedo che stiamo fuggendo dal tramonto, dritti dritti verso il buio fitto. Non so più che ore sono, dentro e fuori. L’unico contatto con la realtà –e anche la cosa più bella di tutte- è il mega-schermo che, tra un pessimo film e l’altro, indica la posizione dell’aereo. Così scopro magicamente che il mio culo in quel momento sta sorvolando Kabul. L’Himalaya. L’India. Solo 8 giorni fa ero nel Bucodiculo, e adesso volo attraverso l’Asia su paesi che non mi sembravano nemmeno esistere al di fuori di fiabe e telegiornali. È una sensazione troppo bella per chi ha il viaggio nel sangue.
All’Australia non voglio pensare. So solo, vagamente, che arriveremo a Bangkok, prima o poi.


Ci arriviamo appena dopo l’ennesimo pasto della giornata (giornata?), e lì mi trovo a percorrere chilometri col mio bagaglio a mano pesante 18 chili (peso consentito: 7 chili), fino al terminal che, come potete ammirare nella foto, è caratteristico –per usare un eufemismo. Lì un indiano col turbante mi squadra il passaporto più e più volte, lo legge, lo ingrandisce. Non lo convinco proprio. Brutta faccia. Alla fine mi fa passare, e mi unisco agli altri. Salgo sull’aereo, leggermente emozionato. Facce stanche, facce da alba, facce contente. Accanto a me c’è un tizio, e non è difficile capire da dove arrivi. Parliamo un po’. Gli chiedo se è di Sydney. E lui "No, mate! Going to Brisbane, mate!".
Meraviglioso, penso.


Stavolta si fa sul serio. Comincio a pensare che veramente, cazzo, arriverò in Australia. È troppo. Quando passa l’hostess mi faccio mettere davanti un Jack Daniels con ghiaccio. Appena butto giù la prima sorsata, ci siamo: il mega-schermo dice che, dopo aver volato sull’Indonesia, attraverso l’Oceano Indiano e tutte le isole e isolette del caso, siamo ufficialmente in Australia. Di più: siamo già sul deserto australiano, non molto distante da Uluru. Inutile dire che butto subito giù un’altra sorsata, e gli occhi mi diventano come più brillanti. Il cuore batte all’impazzata e un sorriso scemo, rinforzato anche da un altro Jack e un bicchiere di vino, mi si pianta in faccia e non va più via finchè non tocchiamo terra. Esco dall’aereo mezzo sbronzo. Mi sembra un buon inizio.


Appena metto piede fuori, la sbronza mi passa. Ho viaggiato per un giorno intero, ho perso ogni cognizione di luogo e data, eppure passa subito anche questo. Sono davvero in Australia. Io, in Australia. Dio. Solo adesso mi rendo conto che non cammino ma sto CORRENDO verso l’uscita.
Al controllo passaporti la tizia mi chiede se è la mia prima volta in Australia. Dico di sì, e spero non sia l’ultima. Lo spero anch’io, fa lei, in quel misto di ironia e cordialità tipicamente australiana che amo da subito. Anche la donna al controllo visti è altrettanto gentile, e la cosa mi sembra amplificata dal fatto che sono le nove di sera passate. Sono al settimo cielo. Prendo subito la mia valigia e, trasportando qualcosa come 40 chili come un bue, vado alla dogana, l’ultimo passo. Spero non mi facciano storie, perché qui non scherzano affatto. La donna mi fa qualche domanda, io rispondo, mi giustifico, lei sorride e dice, no worries, passa pure. Vorrei abbracciarla. Vorrei stringerla. Vorrei piangere.
Invece rido, e corro. Corro verso l’uscita, senza mai smettere di ridere.
Marco (The Aussie Bloke)

lunedì 10 settembre 2007

Well Done CHIUDE

lascerò una nota…

C’è sempre qualcuno negli hotel che lo fa… spieghi che hai qualcosa per un’ospite… come se qui dentro ci fossero ospiti …non so voi, ma io lo pago caro il mio angolo di libertà…

non so cosa mi piace di meno…. se dovere lasciare qualcosa di personale a un perfetto sconosciuto e ficcanaso (come tutti i portieri del mondo) o se dovere scrivere… io odio scrivere… e poi questa volta sembra impossibile…

Questo è il motivo del bicchiere pieno mentre giocherello col cartoncino...

Ma poi cosa si può scrivere quando stai per dire addio a tuo fratello ?

Ne è passato di tempo… è stata una lunga sudata , puzzolente e piacevole battaglia …
prima lo zoo… poi la 206…. Ma cazzo, che stile che abbiamo avuto ….

Si suonava e si suonava bene … per noi stessi e per chi ci voleva ascoltare….sempre sbronzi e molesti ma mai ovvi e banali… e quel viaggio con la poderosa… sembrava di essere due eroi ….

Quella luce che ci circondava mentre ci facevamo coraggio…mentre ci provavamo… e ancora una volta camminare a testa alta mentre gli altri… gli altri…

si parlava un’altra lingua da quelle parti, ma non ci siamo accontentati, non potevamo farlo… dovevamo andare … e l’abbiamo fatto , cazzo se l’abbiamo fatto….

E poi quella tua ossessione… quella terra così lontana … così ridicola, affascinante, tremendamente irripetibile…

quel posto sembrava per te l’unico possibile ….

Ma Nessuno ci credeva veramente …

neanche noi caro compare , neanche noi pensavamo si potesse fare… i sogni sono li … intoccabili e commoventi…

ma tu cazzo, tu ci sei… sei li….

Com’è realizzare il proprio sogno?

Come ci si sente?

Qui nell’hotel non si fa altro che parlare di questo…

siamo qui per questo caro compare… e tu sei quello che ce lo deve spiegare … che ci deve raccontare….

Qui non possiamo solo che immaginare … qui si continua a viaggiare sperando un giorno… di arrivare anche noi…

Buona vita…

sabato 8 settembre 2007

A un eroe dei nostri tempi (più di la Rocca)


“Aspettando abbiamo scattato qualche foto e poi ci siamo salutati e siamo saliti, e abbiamo anche fatto i saluti dal finestrino mentre il treno partiva. Se ti importa di qualcuno, questo è uno degli avvenimenti più tristi della vita e degli esseri viventi, e il trucco migliore è fingere di essere annoiati, altrimenti può diventare imbarazzante, e poi il treno non si ferma né inverte il senso di marcia, non là comunque, e quindi è un po’ come morire lentamente, per niente bello, è meglio entrare nello scompartimento e sedersi a cercare carte geografiche e sigarette, a controllare che i bagagli non ci cadano in testa, a vedere se i braccioli si possono piegare in modo da potersi allungare, a controllare il passaporto e la stitichezza, poi pensare a come e quando riuscire a conquistarsi il primo drink”
Charles Bukoswki







Sul palco abbiamo avuto momenti che nessuno potrà mai capire.
E’ stato un onore e un vero piacere fare tutta questa strada insieme. E il bello è che questo è soltanto l’inizio.
Ricorda che ci sono sempre un ponte e due birre gelate ad aspettarti. E un compare, ovviamente.
Buona vita, socio.
Ci vediamo al solito bar.




Il Compare

Post Prima di Andare Via /2


Mi sono spiato illudermi e fallire
abortire i figli come sogni
mi sono guardato piangere in uno specchio di neve
mi sono visto che ridevo
mi sono visto, di spalle, che partivo…


Fabrizio De Andrè, “Anime Salve”

Post Prima di Andare Via /1



Mi offrono un incarico di responsabilità
non so cos’è il coraggio
se scegliere la fuga o
affrontare questa realtà
difficile da interpretare
ma bella da esplorare
provare a immaginare come sarò
quando avrò attraversato il mare
portato questo carico importante a destinazione
dove sarò al riparo dal prossimo monsone

Mi offrono un incarico di responsabilità
domani andrò giù al porto
e gli dirò che sono pronto per partire
getterò i bagagli in mare
studierò le carte
e aspetterò di sapere per dove si parte
quando si parte
e quando arriverà il monsone
dirò
levate l’ancora
dritta, avanti tutta
questa è la rotta
questa è la direzione
questa è la decisione


Lorenzo Jovanotti, “La linea d’ombra”

venerdì 7 settembre 2007

Primavera dopo l'Estate. Capitolo 1: Road to Oz. In Australia non si parla inglese...


Qualche giorno fa, quando ero ancora al Bucodiculo, mi trovavo a cena in questa Villa. La Signora, padrona di casa, si gira verso di me e fa, con acidità collaudata –ma come l’Australia? Che ci vai a fare? E poi è enorme…è come dire “vado in Europa”…e poi…
Via di questo passo. Ne ho sentite tante, negli ultimi mesi. L’Australia è lontana. È calda. È enorme. È disabitata. Ci sono i ragni velenosi. Gli scorpioni. Gli aborigeni. Le meduse. Ti lanciano il boomerang. Ti prendono a pugno i canguri. Non parlano inglese. È solo deserto. Gli australiani sono tutti alcolizzati. Sono stupidi. Sono bifolchi. Ci sono i coccodrilli. Gli squali. C’è Crocodile Dundee. Se nuoti muori. Se non nuoti, anche.



Per carità. Quasi tutte queste cose sono vere. Magari non tutte assieme nello stesso momento, ma in generale è vero, l’Australia è lontana (dal nostro punto di vista, ovviamente), calda e enorme (molto più dell’Europa, cara Signora). Ci sono tutti quegli animali elencati e anche molti di più. Alcuni australiani rispondono perfettamente a questi identikit.
Dopo tutto questo tempo ci fai pace, con gli stereotipi –e se non lo sappiamo noi, che andiamo avanti a forza di pizza mafia calcio e mandolino, chi lo deve sapere? Ormai mi limito a sorridere, dire di sì, certo, come no?



Eppure, nonostante questi luoghi comuni e qualche rara eccezione come la Signora della Villa, tutti sentono la parola “Australia” e non hanno niente da ridire. Anche se mi chiedono cosa vado a farci, nessuno mi ha mai chiesto “Perché l’Australia?”.
Questo accade, secondo me, perché quel posto esercita comunque il suo fascino. Nonostante serpenti e caldo a Natale, tutti associamo a questo nome anche spiagge bellissime, incontaminate. Cieli di un azzurro che fa paura. Spazi totali e una libertà che non ci si può immaginare.



Perché Oz? Mille risposte, almeno per quanto mi riguarda. Perché è semplicemente stupenda. Perché è stupenda e ci sono meno abitanti che nel Sud Italia. Perché è stupenda, spaziosa e tutta da scoprire. Perché ancora nel 2007, con tutto ormai già visto, già conosciuto, è l’unico posto al mondo che riserva ancora sorprese, come se fosse l’ultimo paese di frontiera rimasto. Perché è un posto nuovo, nel senso più ampio del termine, e fa sentire nuovo anche te, al di là dei tuoi anni e delle tue esperienze. Perché è un posto senza memoria, dove una persona può sognare di ricominciare tutto. Perché ci sono le ragazze più belle del mondo, e fra di loro la più bella di tutte –la mia Morgana. Perché ti riempie gli occhi e il cuore solo a immaginarla.
Forse semplicemente perché ne sono innamorato da una vita, e non ci si chiede mai perché si ama qualcosa o qualcuno –lo si ama e basta.



In quanto alla domanda sul cosa ci vado a fare, beh, cara Signora della Villa…questa è semplicemente la domanda più stupida e inutile di tutte.
Buona Europa, cara Signora. Magari prima o poi capiterà anche a lei di sognare.


Marco

Primavera dopo l'Estate. Capitolo 1: Road to Oz. Camere con vista.


Mancano due giorni e io sono qui seduto davanti alla mia finestra, con quel panorama che conosco bene –la pizzeria, gli alberi, e poco dietro il cimitero. Non esattamente quella che si potrebbe definire una vista spettacolare… Eppure il fatto di conoscerla così bene me la fa quasi piacere. Inoltre si riesce a vedere il cielo, e in questa città di palazzoni uno sull’altro è già un lusso incredibile…


Roma l’ho trovata uguale a sempre. Non ho avuto molto tempo per dedicarmi a sfogliare l’album dei ricordi, e questo è forse un bene, perché qui la situazione è un pelo più tosta che nel Bucodiculo.
Non per la città in sé, intendiamoci. Un paio di giorni fa sono andato in centro e ho avuto la sensazione di essere ancora un turista dopo 8 anni passati qui. Alienante, è la parola esatta. Roma è una città che raramente puoi viverti per intero. Il più delle volte o annaspi, o ti scegli la tua zona limitata dalla quale esci per le tue incursioni, appunto, da turista.


La mia zona è stata la Tiburtina. Dire che mi mancherà sarebbe una bella barzelletta. Diciamo che mi ci sono abituato, e lei si è abituata a me. Una coppia che vive insieme da tanti anni senza arrivare mai a conoscersi del tutto. Anche se vivi in una città da milioni di abitanti, finisci per vedere sempre la stessa strada, gli stessi posti, e anche le stesse facce. Roma è un tentativo malriuscito. Roma è un grande paesino. Roma è bellezza sprecata. Roma è migliaia di speranze messe insieme, che non sempre vengono esaudite.


Ma più ancora che Roma, o la Tiburtina, sarà dura salutare il mio nido per otto anni. Qui, in questa casa con la carta da parati color vomito e i mobili vecchi e cadenti, è successo tutto quello che si può spesso trovare in una vita intera, o nemmeno lì. Vedo ancora me stesso così pivello arrivare qui, con le mie valigie e le mie cose da imparare, quasi un secolo fa. In mezzo tutte le sbronze, le facce, le risate, le incazzature, le scopate, le tristezze e i casini che hanno fatto di questa casa un posto intriso di vita, merda e sogni –un riparo quando fuori pioveva da troppo tempo –un museo di Noi Stessi e un’astronave lanciata nello spazio –una nuvola leggera leggera e una camera con vista. Tutta questa è stata Welldone, casa mia. Davvero, casa mia.
Non c’è un modo non banale e non patetico per salutare questa casa, e quindi non lo farò.
Invece mi affaccio e fisso dritto davanti a me, cielo e cimitero –sole e ombra in un’unica occhiata. Questa, in fondo, è Roma.
Marco

Un blog per chi ha scelto di partire. Ma non solo. Il Morgana è un hotel di gente che va e viene e a volte resta e occupa le stanze molto a lungo. Il viaggio ha certamente una suo volto romantico, il viaggio ti crea delle aspettative, ti da la forza di andare avanti. Quando si parte le motivazioni, le ambizioni future, le aspettative tendono a coprire tutto ciò che rimane alle spalle, delle volte perché ciò che si lascia non mai avuto l’odore di casa, altre volte semplicemente le “ragioni del viaggio” sono più forti di qualsiasi altra cosa.

Ma se è vero che chi intraprende il viaggio si lascia, per forza di cose, i dubbi alle spalle una volta partito, chi resta è sempre incastrato tra una vagonata di domande alle quali è difficile rispondere. Molto facile appigliarsi ai ricordi, provare un senso di incompiutezza, la sensazione di non essere riuscito a dire qualcosa che andava detto, di risolutivo, di definitivo. Scontato e un po’ patetico ovviamente. Ma vero.

Chi rimane si trova a fare quadrare il bilancio di una vita oltre ad affrontare il dubbio che sia più giusto andare piuttosto che no, così, anche solo per il gusto di vedere cosa c’è lì fuori, di provare e di vincere quella vigliaccheria che incatena al posto in cui si è nati.

Nella maggior parte dei casi ci si trova a fare i conti con una quantità di cose come affetti, lavoro, studio; forse solo scuse, appigli a una vita sempre uguale a sé stessa e fatta di quotidiano, forse tutti alibi per non ammettere che si ha paura di rischiare, forse alle volte reali motivazioni per rimanere.

Senza dimenticare che ci vuole moltissimo coraggio per mollare tutto, sono però altrettanto convinto che ce ne voglia altrettanto per rimanere, soprattutto se questa scelta è dettata da una lunga riflessione, dalla consapevolezza che non è ancora arrivato il tuo momento e mai dalla paura di metterti in gioco.

Perché nella vita , bene o male, l’occasione arriva per tutti. Mi auguro di riconoscerla quando arriverà.

In bocca al lupo a chi parte e a chi resta.
Lunga vita al blog!

Sergio.

lunedì 3 settembre 2007

Primavera dopo l'Estate. Capitolo 1: Road to Oz. Il treno ha fischiato...





“Che cos’è quella sensazione quando ci si allontana dalle persone e loro restano indietro sulla pianura finchè le si vede appena come macchioline che si disperdono?... E’ il mondo troppo vasto che ci sovrasta, ed è l’addio. Ma noi puntiamo avanti verso la prossima pazzesca avventura sotto i cieli”
Jack Kerouac

Faceva molto caldo sulla nave, affollata di bambini e turisti della domenica e vecchi soli con la pancia di birra. Da lì a poco però sarebbe piovuto. Poi, di nuovo sole. Niente di tutto questo poteva stupirmi, nella mia prima tappa vera verso l’Australia, la mitica Oz. Nemmeno il nome della nave, che potete leggere nella foto qui sopra, mi ha sorpreso più di tanto. Il destino s’era messo in moto di buon’ora, quel giorno, e in ogni cosa si vedeva che stava facendo il suo sporco lavoro.
E così alla fine ho lasciato il mio buon vecchio Bucodiculo per andare a dare un’occhiata al mondo. Ancora non riesco a crederci. Non mi sembra vero. Non mi sembrava vero neanche prima, come ho già scritto, proprio perché non puoi mmaginare di stare per attraversare un paio di oceani e di continenti quando il panorama che vedi dalla tua finestra è lo stesso di quando eri alto un metro e un cazzo. Anche se avevo il biglietto in mano –biglietto quanto mai sudato, lasciatevelo dire- era tutto impalpabile. Irreale. Capita sempre così, quando realizzi un sogno.
Credevo che avrei scritto di più, lì al Bucodiculo. Credevo che avrei pensato di più. Ricordato. Invece niente. Forse la mia mente era già in viaggio, o forse, come credo, sapevo nel profondo, lì nelle budella, che era ormai tempo di andare. Quando finisce il primo tempo di un film non puoi passare tutto il tempo a pensarci su, o non capirai niente di quello che succede dopo. No. A quel punto devi puntare dritto al secondo tempo, preparato e libero a goderti tutto quello che può capitare, che sia o meno in sintonia col già visto.
Io e il Bucodiculo siamo stati amici, poi ci siamo odiati di brutto, e alla fine abbiamo provato a portare avanti una convivenza più o meno civile. Abbiamo cercato di fare la pace senza mai riuscirci del tutto. Anche ieri, prima di andare definitivamente, mi sono affacciato al balcone, ho fissato un po’ la massa blu lì dietro tetti e case ammuffite, ed ero indeciso tra mandare un bacio e alzare il dito medio.
Alla fine ho optato per un sorriso.
Ho cercato di non guardarmi indietro, di non cadere nella trappola della nostalgia che colora il grigio e cancella la merda. Sono sempre stato uno in lotta coi propri ricordi. Da una parte sono d’accordo con chi dice che ci si lega ai ricordi non può andare lontano, dall’altra so che senza quelli perdi semplicemente la tua identità. Per quanto schifosi siano, sono stati loro a mettere su il tizio che vedi ogni giorno allo specchio.
I ricordi sono come quegli anziani saggi che non la smettono più di parlare: devi ascoltarli rispettosamente, ma non troppo.
Sulla nave Morgana non ero solo. Un amico mi ha voluto accompagnare fino a Villa San Giovanni, in Calabria, da dove avrei preso il treno per Roma –la prima e unica fermata nella strada verso Oz. Abituato a partire da solo, mi ha fatto effetto. Sono sempre stato un drammatico e gli addii, anche per pochi mesi, mi hanno sempre lasciato una malinconia da settembre piovoso ed estate finita. E stavolta non si trattava nemmeno di pochi mesi.
Lasciatevi dire che gli addii sono la parte più brutta di ogni viaggio. Banalità sacrosanta. Non importa quanto tu abbi desiderato quel viaggio, quanto sia vitale per te, e nemmeno se i rapporti che avevi con le persone che lasci non sono sempre stati idilliaci. No. Quando la nave molla gli ormeggi, quando il treno comincia a muoversi, quando l’aereo prende la rincorsa, tutto quello che vedi sono, come dice Jack, persone che si fanno sempre più piccole fino a scomparire. Anche questa è una trappola, come la nostalgia, e non puoi evitarla. Proprio per questo le stazioni sono tra i posti più tristi al mondo.
Tutto quello che dovete fare, a quel punto, è prendere un grande respiro e guardare sempre fisso avanti a voi. Non lasciatevi fermare dai saluti, dalle facce, da quello che è stato. Farà male, molto. Per rinascere infatti bisogna sempre morire un po’, prima. È atroce, e inevitabile. E in fondo è anche un bene che ci sia, questo dolore. Indica che l’organo è sano e pulsante, che c’è rimasta ancora della vita, nei ricordi e nelle speranze.
A meno che il viaggio che state per fare non è uno a cui siate state costretti da ragioni materiali o di vita e di morte, ci sarà sempre il momento in cui penserete –ma perché tutto questo?
La domanda è umana, ma dovrete allora avere il coraggio la forza l’incoscienza di darvi una risposta altrettanto umana: perché sì.
Troppo semplice? No, per niente. Perché dirselo vuol dire non farsi prendere. Non fatevi ingannare da questo dolore, dal fatto che il vostro corpo si faccia all’improvviso così pesante. Lui vuole restare lì, è ovvio. Lì c’è nato e cresciuto, lì ha le sue abitudini e i suoi punti di riferimento. Quello che c’è dentro il corpo però non ne ha, di punti di riferimento. Non ha nazionalità, non gli servono documenti, non assomiglia a nessuno. Quello che c’è dentro vuole vedere quello che c’è fuori, oltre quei palazzi e quelle strade che ormai conoscete a memoria.
Tenete a mente questo: la vita va avanti. Non nel senso dell’andare oltre le tragedie, ma proprio nel significato letterale della frase. La vita va avanti. La vita si muove in avanti. Il corpo può restare fermo quanto vuole, ma la forza che lo anima spinge e spingerà sempre in avanti. La vita si muove fisicamente in avanti, e nemmeno il corpo può fare troppo finta di niente, perché i capelli che cadono, le tette che scendono, tutto vi ricorda che anche se voi vi ostinate a restare fermi in cerca di una sicurezza che in realtà non arriva mai, la vostra vita si sta muovendo, come un cavallo imbizzarrito che ogni tanto va lasciato correre a perdifiato.
Non credo sia possibile restare fermi. C’è un’eternità intera, per farlo, una volta schiattati per bene. Nel frattempo credo che la vita debba seguire le rotte delle strade e dei binari, e perdersi in quelle scie bianche lasciate dagli aerei in cielo.
Detto tutto questo, non è lo stesso facile salutare, dirsi addio. Non va mai come nei film. Non ci sono frasi storiche da dire, sguardi che restano impressi, gesti marziali. Nella realtà c’è impaccio, imbarazzo, e molta molta tristezza che segna gli occhi e fa tremare la voce. Momenti in cui pensi che i marinai sono i veri santi sulla terra.
Avrei voluto dire molto di più, esprimere molto di più a tutti, ma la Morgana accende i motori e non c’è più tempo. Prendo le mie valigie e salgo sul treno, alla fine, chiedendomi se è stato lo stesso Dio a creare il mondo e le distanze.
Sollevo un’ultima volta la mano mentre fuori settembre è in ogni goccia di pioggia che finisce per rigare il finestrino. Mi metto comodo pensando solo di sfuggita alle prossime 6 ore di treno. In realtà sto pensando che il viaggio è cominciato e ancora mi aspetta l’addio più doloroso.
Alzo gli occhi e guardo le mie valigie. Adesso sono piene. Sono in movimento.
Era ora.
Marco