domenica 29 giugno 2008

L'inclinazione...

L'inclinazione umana all'abbandono totale...

L'inclinazione umana all'innamoramento fatuo...

L'inclinazione umana all'egoismo spicciolo e colpevole...

L'inclinazione umana all'invidia...

L'inclinazione umana alla competizione amorosa...

L'inclinazione umana alla sofferenza gratuita...

L'inclinazione umana al ricordo immotivato...

L'inclinazione umana al pianto irragionevole...

L'inclinazione umana alla scelta di comodo...

L'inclinazione umana al complesso di inferiorità...

L'inclinazione umana al fascino del superiore...

L'inclinazione umana al compromesso...

L'inclinazione umana ai piaceri del sesso...

L'inclinazione umana al placarsi del piacere...

L'inclinazione umana alla morte dei sensi...

L'inclinazione umana al riaccendersi del desiderio...

L'inclinazione umana alla simulazione...

L'inclinazione umana allo sbaglio...

L'inclinazione umana alla fedeltà forzata...

L'inclinazione umana all'infedeltà ostentata...

L'inclinazione umana alle cialtroneria....

L'inclinazione umana al perbenismo ipocrita...

L'inclinazione umana all'esibizionismo...

L'inclinazione umana alla reiterazione dell'azione...

L'inclinazione umana all'inconsapevolezza del dolore...

Mattina di Oz

Appena suona la sveglia, allungo subito una mano per staccarla. Sono le sei e mezza e nella casa dormono ancora tutti. Il mal di testa è devastante. La sorella della padrona di casa russa piano nel divano accanto. Io mi giro nel materasso per terra, e mi scambio un bacio alcolico con la mia ragazza prima di alzarmi. Solo pensare alla colazione mi fa venire da vomitare. Mi verso un bicchiere d’acqua, poi un altro. La testa che batte. Mangio un cookie. Altra acqua. Poi mi spoglio piano, nel buio, cercando di non fare rumore. Dal piano di sopra, altro russare. La mia ragazza mi saluta e si riaddormenta.
Fosse stato un sabato, magari nella mia Gladesville, sarebbe tutto diverso. E invece esco di casa in una mattina di sole di giovedì, a Ryde, Sydney, Australia. La sensazione di freddo appena esco di casa, e poi quella, infinitamente peggiore, del trovarmi in un tragico doposbronza in una zona che non conosco, in un paese sotto l’equatore, con una vaga idea solo del bus da prendere per andare al lavoro per altre 8 ore di quotidiana follia. Mi incammino piano, con lo zaino pieno e gli occhi pesanti. Non avrei dovuto bere quello shot di Jageirmaister. Se è per questo, non avrei dovuto bere nemmeno quello shot di assenzio. Ma tanto a quel punto, dopo un’intera bottiglia di vino, probabilmente contava poco. Ma è stato divertente, e in questa vita che si misura più a risate che a centimetri di fegato salvati, è questo quello che conta. Un delirio, come sempre. Cose australiane, come sempre.
Insomma, com’è è, arrivo alla fermata. Sarà quella giusta? Odio questa sensazione. Tutti sanno dove cazzo stanno andando tranne me. Guardo gli uomini in giacca e cravatta, i vecchi e i loro bastoni, i ragazzi con quelle uniformi ridicole per la scuola. Mi sale un rutto leggero che sa di rosso di Tambawamba, o come cazzo si scrive.
Salgo e trovo un posto a sedere. Tutto quieto, per fortuna. Tutto, tranne una ragazza che parla a voce alta al telefono. La ascolto, come tutti gli altri 50 nel bus. Italiana. Dall’accento direi siciliana, ma non di città. Sta litigando col ragazzo. Cristo Santo. Mi trovo sul 290 che va verso Parramatta, sfiliamo verso il Macquarie Center, e devo ascoltare una siciliana che urla al telefono mentre sono in doposbronza. Cristo.
Grazie a dio dopo un paio di fermate stacca il telefono in faccia al ragazzo e scende. Io mi godo la pace, e rischio anche di addormentarmi. C’è caldo, nel bus. Si sta bene. Sa di noddles e sigarette. Una ragazza asiatica davanti a me tiene gli occhi chiusi. Ci fermiamo ogni tanto a prendere su qualcuno, e qualcun altro scende. Al 95%, tutti asiatici. In questa zona di Sydney è esattamente come trovarsi a Singapore o Bangkok. Anzi no, a Bangkok è pieno di turisti.
Mi studio un po’ le facce, mi guardo un po’ di panorami. Non ce la faccio a leggere, né a mettermi l’ipod, oggi. Però quel cazzo di agnello ieri era una favola. Peccato che non sia andato giù del tutto. Facce stanche, facce da 7 di mattina. Quello non cambia mai. Facce di chi sta andando a dare il culo per qualche ora. Solo l’abitudine e la necessità permettono di tenere i pezzi insieme, e nemmeno sempre. Qualcuno legge il giornale, qualcuno si addormenta. Arriviamo.
Altra cosa che mi manda in paranoia, la fermata del bus. Quando ne prendo uno nuovo, ho sempre paura di sbagliare. Così cerco di non farmi fregare, scendo prima di quando dovrei, e capisco solo allora che così ho solo peggiorato le cose.
Stavolta scendo quando dovrei. Mi sembra che tutto fili. Peccato che della strada che dovrebbe portare al mio ufficio, nemmeno l’ombra. Eccomi qui, 15000 km lontano dall’Italia, senza sapere dove cazzo andare. Chiamo la mia ragazza, ma lei è già al lavoro e non mi può aiutare. Penso per un attimo di fermarmi lì, magari ricostruirmi una vita. comprarmi una casa, cose così. Ma è una zona troppo costosa per me. Prendo su lo zaino e comincio a camminare.
Vado avanti per un paio di km, poi torno indietro per la stessa identica strada. Le persone alla fermata pensano che sia pazzo. Non posso dargli torto. Avvicino qualche camionista che sta caricando per chiedere informazioni. Il mio inglese da doposbronza e il loro australiano sono più o meno la stessa, incomprensibile cosa. in ogni caso, nemmeno loro sanno dove cazzo sto andando. Almeno mi comforta un po’.
Alla fine, seguendo più l’ispirazione che una vera e propria logica, imbocco una di quelle stradine per pedoni e biciclette che affiancano l’autostrada. Mai fatto prima. Comincio a camminare. Sono solo. Il sole ora batte forte, ma si sta bene. più che inverno, una primavera spettacolare. Nemmeno una nuvola. Rutto ancora un po’, e mi viene da pisciare per tutta l’acqua che ho bevuto prima. Cammino piano, senza essere sicuro di dove andrò a finire, e penso, che cazzo, sei in Australia, ma ti rendi conto? Stai andando al lavoro (o almeno, ci stai provando), in un paese dall’altra parte del mondo. ti sei ubriacato in 2 continenti, e prevedi di allungare la lista. Un anno fa eri ancora a fare avanti e indietro per la Tiburtina. Ora sei a Lane Cove, e stai andando verso Artarmon (o almeno così speri, sennò arriverai al lavoro con un LEGGERO ritardo). In questo momento esatto in Italia stanno andando tutti a nanna, e tu sei qui sotto il sole. Chi se ne frega di doposbronze e orari e tutto il resto. Solo, goditela.
E così faccio. Metto gli occhiali da sole, e cammino piano, con piacere, per le rampe deserte, mentre le macchine mi sfrecciano accanto. Supero palazzi vuoti sotto un cielo blu abbagliante. Poi faccio l’unica cosa logica da fare in situazioni del genere: accendo l’Ipod, seleziono “Riders on the storm” dei Doors, rallento ancora di più il passo, e vado.

domenica 15 giugno 2008

Sympathy for the devil

Una delle canzoni che sento spesso andando al lavoro –grazie ai bellissimi cd che mi ha dato un’amica tempo fa- è “Sympathy for the devil”. Bella canzone. Il diavolo per me era davvero un simpaticone. Solo che tutti gli danno addosso sempre, poverino –povero diavolo. Ha creato lui tutte le cose divertenti della Terra, eppure al momento dei conti ci giriamo dall’altra parte, come se non lo conoscessimo. Ha fatto cambiare lui il mondo, mica il suo collega. Anche quando gli eserciti avevano la croce, c’era sempre lui dietro. Dove c’è uomo c’è diavolo, in fondo. Solo che noi non vogliamo averci a che fare, perché cosi ci hanno insegnato da piccoli. Così facciamo le cose e ce ne pentiamo. Sentiamo senso di colpa per qualcosa che noi pensavamo giusta ma qualcun altro ha definito sbagliata. I tuoi istinti fanno il tifo per il povero diavolo. Poi arriva la sua controparte, e rovina la festa.
Anche nel peggiore dei doposbronza, non ho mai detto –mai più. Quella è una frase che si aspetta il me stesso con l’aureola. Io sapevo che sarebbe successo ancora, e che mi sarebbe piaciuto ancora, e allora che bisogno ho di fare stare zitta la mia coscienza con promesse che tanto non rispetterò?
Male e bene, e io non sono un satanista, non me ne frega niente di religioni e surrogati vari. Ma non ho mai creduto alla storiella del male male e del bene bene. non esiste nessun buono davvero buono. C’erano santi, nel cattolicesimo, che scopavano, ammazzavano, si ubriacavano. Papi che sono andati in battaglia. A quel tempo qualcuno aveva detto che era giusto così. Sant’Agostino era quello che voleva castità –ma non subito, Signore, aspetta un po’. I cattolici hanno dimenticato che l’albero da cui Adamo ed Eva avevano mangiato non era l’albero del male, o del bene e del male. Quello proibito era l’albero della CONOSCENZA del bene e del male. La differenza è di una parola, ed è immensa. Il buon Dio ci voleva nell’ignoranza, e tanti cattolici ci sono anche riusciti nell’impresa (senza generalizzare, please). Quello che rende quindi l’uomo davvero umano è il conoscere questi limiti, non fare sempre la cosa giusta. Conoscere le proprie ombre prima ancora che i propri colori.
Il male in sé non vuol dire niente. È tutto e niente. L’uomo è nato per ferire e uccidere l’altro uomo, non per abbracciarlo. La sua natura è animale. Il passo successivo è far convivere questa sua natura con la coscienza che c’è il giusto e c’è l’errore. Per istinto sono sempre stato attirato dalle persone che hanno fatto grandi errori, nella loro vita, perché spesso quello è l’unico modo che hanno avuto di trovare la cosa giusta –la LORO cosa giusta. Mi sono sempre stati simpatici i falliti, i caduti, quelli che hanno perso tutto, quelli che l’hanno presa nel culo, quelli che sono a terra con l’arbitro che comincia già a contare. Laggiù si possono avere le idee molto più chiare, credetemi. Si vedono le cose con qualche velo di ipocrisia e superficialità in meno. Si capisce meglio. Si mangia di nuovo quella mela lì.
Non sempre, ovvio. Non tutti quelli che cadono si rialzano, e non tutti quelli che lo fanno sono persone migliori, illuminate. C’è chi torna incattivito –e spesso ha tutte le ragioni per esserlo. È umano anche questo.
Gli altri hanno forzato i loro limiti, e sono andati avanti. Si sono spinti fino all’Inferno, e forse hanno scoperto che non esiste nessun Paradiso, o che non è quello che ci aspettiamo. Ma anche lì, era quel buon diavolo a guardarli con pena, non il suo collega. Il diavolo non li giudicava, non era lì a dirgli che stavano sbagliando tutto. Il diavolo capiva. E loro capivano lui.
Come diceva Twain, il paradiso lo preferisco per il clima, l’inferno per la compagnia. E così, lasciamo le nuvole ai primi della classe, sempre puliti belli bravi e buoni –e noiosi, dio mio. Noi ce ne stiamo lì sotto a fare casino ancora un po’.
PLEASE TO MEET YOU, HOPE YOU GUESS MY NAME!

domenica 8 giugno 2008

Sul pulire il bagno e sulla virtu'

Sono sempre stato dell’idea che tutti quelli che non hanno mai vissuto almeno per un po’ da soli, con un posto tutto loro, si sono persi alcune delle esperienze fondamentali che fanno parte di ogni esistenza. Una di queste è la pulizia del bagno.
Australia o Italia, poco importa. il cesso è il cesso, punto. E quando lo dividi con qualcuno –che sia un coinquilino, la dolce metà, o un ospite- l’esperienza del bagno diventa qualcosa di tosto. Concreto. Eppure, allo stesso tempo, assolutamente mistico.
Pulire il bagno è come avere a che fare direttamente con la propria mente. Ti apre nuovi orizzonti. Mentre sei lì piegato a passare la spugna intrisa di candeggina su superfici luride, capisci un po’ meglio chi sei. è un viaggio dentro te stesso che non solo non ti costa niente, ma ne guadagni in salute mentale e igiene. La casa gioisce con te.
Sul bagno ci sono diverse storie. La gente tende a non volerci avere a che fare, di solito. Pazzi, dico io. non sanno cosa si perdono.
Ci sono quei coinquilini che li devi pregare, scongiurare di strappare le ragnatele alla tazza, di togliere un po’ –non tutta, ma almeno un po’- della muffa che si è depositata nella doccia. Loro sbuffano, ti guardano male. Pensavano che tu fossi uno fico, uno rock, che se ne sbatteva di queste cose. Per loro è incredibile che uno come te si formalizzi per fare i suoi bisogni in un cesso che ha lo stesso odore di un orinale di un pub di venerdi sera. Che ti dia fastidio che il tuo spazzolino si immerga in due dita di acqua verdognola, stagnante, che odora di vomito di neonato. Si guardano intorno, cercano per la mamma, per qualche filippina che faccia il lavoro al posto loro. Quando vedono che tutte le speranze sono finite, che quel periodo meraviglioso chiamato infanzia si è infranto sopra un cumulo di capelli e peli ammucchiati sul fondo della vasca, allora si tirano su le maniche, sbuffano, e cominciano.
Ognuno ha il suo modo. A me, per esempio, piace tenere distinte le spugne per il lavandino da quelle per la tazza. Ho questa assurda fobia del non volere che qualcosa che ha pulito il mio piscio pulisca anche il posto dove mi lavo i denti. Ma a ciascuno il suo, come si dice. C’è chi lava il cesso e poi va a tavola senza lavarsi le mani. C’è chi usa la stessa spugna che poi userà per lavare i piatti (storia vera). Anch’io una volta, col lavandino della cucina rotto, ho dovuto lavare per qualche tempo tutte le stoviglie nel lavandino del bagno. Una di quelle cose che eviti di dire ai tuoi ospiti –specie se vuoi averne ancora, di ospiti, nella tua vita.
Intendiamoci, non è che faccia i salti di gioia. Quando c’è da lavare lo scopettone del cesso, beh ragazzi miei, lì ti chiedi il perché di tante cose. Poi pensi che se c’è qualcuno che lavora nelle fogne e poi lo stesso può avere il suo pranzo, tu puoi fare altrettanto. Basta non guardare e non respirare. Anche sullo scopettone ci sarebbero tante e tante storie da raccontare, che hanno a che fare con ospiti e strane indigestioni, ma sono buono e ve le risparmierò.
Lavare il cesso però è un’esperienza che ti purifica. Ti pulisce dentro. Di solito metto della musica quando lo faccio, ma poi quasi non la ascolto –tanto sono preso da quello che sto facendo. La tua mente scivola piano piano in una dimensione parallela fatta di sapone, capelli e bianco che riappare. Ogni volta che il lavandino mostra il suo antico splendore, ti senti come rinascere un po’. Ti pieghi a 90 col sangue che ti va alla testa e il sudore che ti cola dalla fronte e ti metti a strigliare il fondo della vasca –e mentre sei così, con le vene che pompano e i peli pubici che si attaccano alla spugna, ti sembra di afferrare il senso vero delle cose. Hai delle illuminazioni. Capisci che hai vissuto in maniera sbagliata, fino a quel momento. Basta con i vizi, basta con gli eccessi. Quella è la via da seguire. Giù di gomito, sudore, pulizia. Spazzi via i tuoi peccati. Strappi i capelli che si sono legati nello scarico della vasca, e ti sembra di liberare il tuo Io più vero e profondo, quello che non hai mai il tempo di ascoltare. Strofini bene il bordo, che da grigio nebbia diventa bianco, e capisci che per troppo tempo hai vissuto nell’oscurità, e già vedi una speranza. Rivedi i tuoi sogni fare capolino, li ritrovi come vecchi amici vicino al bagnoschiuma vuoto da mesi che nessuno ha ancora buttato. Le aspirazioni che avevi lasciato lungo il tuo cammino peccaminoso risalgono una ad una mentre provi a togliere il calcare dalle tubazioni.
Ma è quando arrivi al momento della tazza che tutto viene al dunque. La lotta tra il tuo Es e il tuo Io raggiunge il culmine. Tutti i tuoi incubi, le tue paura più nascoste, i tuoi dubbi che non puoi confessare a nessuno sono lì, lungo il bordo. Un po’ più sotto, in zone a cui solitamente eviti di pensare, ci sono i tuoi tabù, i tuoi terrori ancestrali, immotivati, le tue perversioni nascoste, le tue follie momentanee. C’è chi non le affronta mai, in tutta una vita. tu sì. Tu hai il tuo Anitra WC, e tanto basta. Non credevi che bastasse così poco, ma quando quel getto verde circonda l’interno della tazza, ti sembra come risvegliarti da un coma volontario. Sei stato battezzato una seconda volta. La Luce e la Gloria sono con te.
Mentre strofini il bordo della tazza, in un aroma inconfondibile che associ con tutto ciò che vedi di sbagliato in te, capisci che stai andando verso il fondo di tutte le cose, che la tua mente si sta aprendo. Stai pulendo i canali di comunicazione. niente più ostruirà la tua vista interiore. Diventare uno zero assoluto, e ripartire da quello.
E poi, dopo tutto questo lottare con sé stessi, l’ultimo tocco dello straccio passato per terra, con quell’ultimo cumulo di capelli che non ti vuole lasciare, come un residuo della notte che non cede il posto all’alba –ma anche quello ha i secondi contati. Secchio, strizzata, e tutto va via.
Ti rialzi sudato, puzzolente, soddisfatto. Guardi tutto quel lavoro, odori a pieni polmoni quel pulito e ti dici, finalmente. Sei puro, come appena nato. Non esiste più alcun timore né cattiveria dentro di te. Sei nuovo. Guardi il bagno e dici, mai più come prima. Ti commuovi da solo e quasi ti scende una lacrima. Mai più, ti ripeti.
Poi metti via stracci e spugne in un cassetto e te ne dimentichi fino al mese dopo.
Provate anche voi.
Un cesso pulito può salvare la vostra anima.

domenica 1 giugno 2008

Sorrow 2006


C'e' chi dice no

Ascoltavo quella canzone di Vasco, “C’è chi dice no”. Quella dove canta, “c’è chi dice no/ io non ci sono/ c’è chi dice no/ io sono un uomo”.
Buffo, se ci pensi. Buffo perché Vasco in realtà c’è, e anche troppo. Lo trovi in televisione, sui giornali. Lo trovi nella pubblicità delle macchine e dei gioielli –ma lì ovviamente poi ha detto NO, un NO forte e chiaro. Dopo aver intascato i soldi, certo, ma l’ha detto. le sue canzoni non possono sporcarsi con quella merda, eh no, che diamine!
Lo trovi a Sanremo, che canta davanti ad una platea da 2000 euro a poltrona, e parla di vite spericolate, di Steve Mcqueen, e ti accorgi che sa sempre meno di cosa sta parlando –semmai l’ha saputo. Ti chiedi perché è lì –ma forse l’errore l’hai fatto tu, perché lui lì c’era già stato, anni fa. Forse uno che diceva di pensarla in un certo modo non ci andava nemmeno la prima volta, a Sanremo. Ma eri giovane, allora. È molto facile fregarli, i giovani.
Lo trovi che stringe le mani ai professori, sorride ai fotografi e prende in mano una laurea AD HONOREM. Lì, ecco, proprio non capisci. Già ti fa incazzare abbastanza, perché il fatto della laurea ad honorem mentre tu sei a combattere con professori teste di cazzo e burocrazie e ritardi, ti suona come un passare avanti senza merito. Ma lasciamo perdere. Però guardi quel ciccione tutto contento e ti dici, perché? Gli serviva DAVVERO una cosa del genere, arrivato a questo punto?
Poteva dire no, e restare coerente con tutto quello che ha cantato per una vita. poteva mandarli affanculo, ed uscirne alla grande. Aveva soldi, successo, niente più da perdere ormai. Poteva farlo. Poteva dire di no, ed essere un uomo, come diceva nella canzone.
Invece l’ha presa, mentre i presidi sorridevano contenti della pubblicità, pronti per la prossima laurea a Valentino Rossi, al mago Zurlì, a Lino Banfi.
La critica applaudiva. Sapevano bene come lo sanno tutti che i dischi di Vasco sono ormai pieni di urletti, di stronzate, di ripetizioni sbiadite di qualcosa che è andato. Vasco si è giocato i neuroni, Vasco non ha più niente da dire. Eppure ogni volta che fa una scorreggia, i giornali impazziscono, le televisioni si fermano. È finita la capacità di giudizio. Vasco vende, il resto che si fotta.
In quel caso ammetto che restare coi piedi per terra è difficile. Quando tutti ti leccano il culo, devi essere davvero un uomo per restare un po’ ancorato al terreno. Sei ormai lontano, a quel punto, dalla gente comune, dai loro problemi, da loro che aspettano l’autobus sotto la pioggia, da loro che non trovano da lavorare, da loro con le loro vite senza respiro. Sei passato dall’altra parte, ma non sono i soldi, non è il successo. Sei tu E tutte queste cose.
Penso a Fabrizio De Andrè, ovviamente. A lui che non ha mai avuto problemi coi dindini, e lo stesso ha cantato dei poveri come pochi hanno saputo fare. Ipocrita? Demagogo?
E se invece avesse avuto una sensibilità diversa? Se invece fosse stato davvero un uomo, a dispetto dei soldi e della fama?
Penso a lui che, invitato a cantare con Dylan in occasione del cinquecentanario della scoperta dell’America, rifiuta, perché sa che l’America non è stata mai scoperta, che c’erano gli indiani prima, gli stessi indiani che aveva cantato nelle sue canzoni, e adesso gli indiani non c’erano più e da celebrare non c’era proprio niente. C’è chi dice no, come vedete.
E dall’altra parte c’è Vasco che invece cita Spinoza e parla di quelli al potere, e non puoi fare a meno di ridere. Potere? Lui ha più spazi sul Tg1 delle proteste contro la spazzatura e i terremoti in Cina, e parla di potere? Ma dio mio, è LUI il potere, e ancora che fa finta di andargli contro. Ancora a giocare la parte del ribelle, con la pancia che straborda e le canzoni che hanno smesso da tempo di dire qualcosa. Qualcosa come quell’altro vecchio di Ligabue.
Lì il problema è che Ligabue ha finito le cose da dire anni fa, ma continua lo stesso a ripeterle. Escono live, doppi, speciali, libri, poesie, interviste, siti web, concerti con dieci palchi, suonerie nel telefonino, e sono tutti basati sulla stessa cosa: niente. Assolutamente niente. Però anche lui è diventato il potere, e quando va a fare le interviste con quell’aria da grasso miliardario texano, comincia ogni risposta con un sospiro come a dire, senti stella, non vedi che ho da fare?
Loro sono il potere, e quindi a mettersi contro il potere non ci pensano nemmeno. In tempi sbagliati come questi, dove la merda rischia davvero di tracimare e travolgerci, loro sono al riparo nelle loro belle ville e poi ogni tanto vengono fuori e propongono la stessa canzone d’amore con le stesse parole a cui hanno cambiato l’ordine. Persino il riff è lo stesso. E tutti applaudono.
Liga ha fatto successo davvero quando ha smesso di scrivere qualcosa che avesse un senso. I numeri gli danno ragione, alla fine. Se al pubblico piace la merda, che merda sia. È un pensare molto comune, in Italia.
Qualcuno penserà che è invidia, che è facile sparare sui pezzi grossi. Forse. Però io a quei concerti c’ero. Anch’io c’ho creduto. Anch’io ero pronto a dire no. Anch’io sono stato fregato, come tutti.
C’è chi dice no, c’è chi dice no, io sono un UOMO!
Quando la musica è finita, spegnete le luci.
Ci si vede al prossimo Festivalbar.

Ode alla vita

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,chi non cambia la marcia,chi non rischia e cambia colore dei vestiti,chi non parla a chi non conosce.Muore lentamente chi evita una passione,chi preferisce il nero su biancoe i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,proprio quelle che fanno brillare gli occhi,quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,quelle che fanno battere il cuoredavanti all'errore e ai sentimenti.Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,chi e' infelice sul lavoro,chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,chi non si permette almeno una volta nella vitadi fuggire ai consigli sensati.Lentamente muore chi non viaggia,chi non legge, chi non ascolta musica,chi non trova grazia in se stesso.Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicita'.da Poesie d’amore e di vita,
2001Pablo Neruda