sabato 9 luglio 2016

Kafka, Hemingway e il mio vicino



Il mio vicino è venuto a vivere qui poco più di un anno fa. Sarebbe difficile definirlo per certo, dal momento che non lo vedo quasi mai. La casa in cui abito è una di quelle vecchie costruzioni da semi-periferia australiana, quelle che spuntano come i funghi e se ti distrai per un paio di weekend poi te le ritrovi sotto il naso all’improvviso. Le pareti di carta, il pavimento pieno di fessure, una mano di pittura data di fretta da una mano inesperta a coprire tutto. La casa è divisa in due, in maniera asimmetrica –io vivo nella parte più grande, il mio vicino nell’altra. Solo uno strato di compensato sottilissimo ci divide, eppure non lo sento quasi mai. Non sapevo nemmeno che faccia avesse finchè un giorno non mi è spuntato all’improvviso alle spalle, mentre mi trovavo nella piccola baracca esterna, in giardino, adibita a lavanderia.
«Ciao» disse, «io mi chiamo Ken»
Passato il momento di palpitazioni dovuto a sentirmi spuntare qualcuno alle spalle in un posto isolato e dove –ai tempi- vivevo da solo, mi presentai. Ebbi il tempo appena di notare che Ken aveva un forte accento australiano ma dei tratti che potevano essere asiatici –nato qui? trasferito qualche anno fa?- che lui già era sparito.
Ken era una presenza più che discreta: evanescente. Dividevamo l’ampio giardino sul retro, ma non credo di averlo mai visto lì. Ogni tanto, se stavo alla finestra della cucina, lo vedevo camminare velocemente, a testa bassa, verso la lavanderia. Dunque anche lui lava i vestiti, pensai. Da quando era lì, non aveva mai usato, nemmeno una volta, il comodo (e patriotticamente australiano) stendino girevole che avevamo in giardino. Le poteva appendere sempre dentro le sue cose, d’accordo, ma perchè farlo quando aveva tutto lo spazio del mondo là fuori, e mentre appendeva i vestiti poteva vedere il fiume poco sopra la palizzata, e osservare la sera di Sydney che si spegneva e lasciava spazio ad un indaco che sembrava un’ultima tregua prima della notte –o un’ultimo sforzo prima della pace?
Facevo le congetture più assurde su Ken. D’altronde, mi riesce abbastanza bene. Lo vedevo tornare quando già era buio e ficcarsi in casa. Indossava una camicia bianca che sembrava sempre la stessa. Quando andavo a buttare la spazzatura nei bidoni che dividevamo, potevo vedergli perfettamente dentro la casa illuminata. L’ex inquilina si era portata dietro le tende, e lui non si era mai preso la briga di comprarne di nuove. Vedevo muri spogli, un vecchio poster del Sydney Morning Herald che ritraeva un bulldog con dei muscoli ridicoli, e nient’altro. Ken non lo vedevo quasi mai. Ogni tanto coglievo la sua presenza mentre si muoveva di fronte alla cucina, ma me lo diceva soltanto l’ombra sul selciato.
Dividevo la casa con un fantasma.
Mi misi in testa che probabilmente Ken era un tossico. Mi venne in mente dopo che una volta bussò a casa mia. Avevo amici a cena e ci zittimmo tutti. Ken non bussava MAI alla mia porta, e di certo non l’avrebbe fatto sapendo che ero con altra gente. Doveva trattarsi di un’emergenza. Mi alzai e andai ad aprire.
«Ehi amico» disse, «mi serve una mano per avvitare una lampadina. Potresti venire un attimo di là?»
Indossava la solita maglietta grigia e pantaloncino blu che indossava sempre quando era a casa. Io avevo addosso una felpa e un jeans, visto che ci trovavamo quasi in inverno.
«Certo» dissi, interrogativo.
Salutai i miei amici con uno sguardo del tipo “se non torno entro 10 minuti, chiamate la polizia” e andai verso casa di Ken. In realtà c’ero già stato, prima che Ken si trasferisse. Pamela, la vecchia inquilina, una volta mi aveva chiesto di badare al suo gatto mentre era a Cuba. Era un po’ fissata col suo gatto. No, Pamela era fissata con molte cose. Comunque quella volta mi fece accomodare nella cucina straripante di mobili vecchi e nuovi, mi fece vedere dove teneva i giocattoli del gatto, mi spiegò come nutrirlo, e come ricompensa mi promise mezza bottiglia di vino bianco che aveva nel frigo.
«Non posso accettare» dissi, sforzandomi di non riderle in faccia.
«Mi offenderei a morte» fece lei serissima.
Una volta entrato a casa di Ken, mi resi conto che era un po’ cambiata da quando ci stava Pamela. In cucina non c’era più nessun mobile a parte il lavello e un vecchio tavolo dalla superficie opaca e incrostata. Il salotto, senza tutti quei mobili, sembrava enorme –una distesa di moquette grigia con al centro un divano, un televisore e un tavolinetto, stop. Non c’era altro. Sembrava così vuota, così messa insieme all’improvviso, che mi chiesi seriamente se Ken avesse un letto sul quale dormire. La luce era ovviamente spenta, quindi la stanza era rischiarata solo dalla tv, messa in silenzioso. La luce della tv illuminava un gigantesco bong piazzato sul tavolino sporco.
«Ecco» disse Ken, «adesso io salirò sul divano e proverò ad avvitare la lampadina. Tu potresti tenermi dalle gambe così non cado?»
Ci misi un po’ a capire quello che mi stava dicendo, perchè ero impegnato a non vomitare per la puzza. Un fetore di chiuso, fumo e marcio si sollevava a zaffate continue, ostinate, dalla moquette e da qualunque angolo della casa. Sembrava che le finestre non fossero mai state aperte, e probabilmente era così. Era difficile respirare. Trattenni il fiato, feci sì con la testa. Ken salì a piedi nudi –neri- sul divano dal colore indefinito. Si appoggiò a me con una mano, con l’altra armeggiava con la lampadina. Mi guardai un attimo da fuori, pensai ai miei amici di là, mollati a metà della cena, e quasi scoppiai a ridere.
«Ecco fatto» disse Ken. Saltellò pesantemente sulla moquette, andò a premere l’interruttore, e finalmente quel grigio squallore fu illuminato per bene.
«Non so come ringraziarti» disse.
«Figurati. Se non ci si aiuta tra noi» dissi. Evitai accuratamente di dargli la mano e tornai alla mia cena. I miei amici concordarono con me: Ken era evidentemente un tossico. Come spiegarsi sennò quei silenzi, con qualche raro sabato sera a notte fonda, con lui che faceva strani urletti, come se fosse impegnato in qualche videogioco o fosse semplicemente fuori di testa?

Tutto intorno a Ken era decadenza & degrado. Non gli importava di niente, al di fuori di quel che faceva nel suo salotto spoglio. Una volta un suo amico venne a stare a casa sua, un weekend che lui non c’era. L’amico, prima di andare via, sciacquò le lenzuola del letto –dico così perchè le immerse in una bacinella di acqua e poi le appese così com’erano- e le stese fuori in giardino. Ken tornò a casa e le lenzuola rimasero lì. Ci furono un paio di settimane di sole abbagliante, e le lenzuola rimasero lì. Al sole seguì un periodo di piogge e... insomma, avete capito. Le lenzuola rimasero appese per più di due mesi. Io e la mia ragazza le guardavamo volteggiare nel vento della sera, o pendere come impiccate poco dopo l’alba gelida. Facevano così puzza che facevamo il giro largo per evitarle. Soprattutto, ci chiedevamo una cosa: ma uno come Ken, quante paia di lenzuola potrà mai avere? E se quello lì appeso fosse l’unico?
See, dicevo, e allora che fa? Dorme sul materasso?
La mia ragazza mi guardava seria, e io non sapevo cosa rispondere.
Quando le lenzuola cominciarono a cadere sul prato, rendendo impossibile anche tagliarlo o muoversi, decisi di andare a parlare con Ken. Gli bussai un buio martedì pomeriggio.
«Sì» fece lui, tra lo scocciato e il sorpreso.
«Ciao Ken, scusa, ma hai presente le tue lenzuola?»
«Che lenzuola?» fece lui, sinceramente sorpreso. Lo ero anch’io. Dicevo alla mia ragazza –ma tu vuoi che che in due mesi, DUE MESI, non si sia mai accorto che quelle lì appese sono le sue lenzuola? Vorrebbe dire che non si è mai affacciato alla finestra in tutto questo tempo!
Possibilissimo, diceva la mia ragazza. Ancora una volta, aveva ragione.
Ken guardò sopra la mia spalle. Disse solo “Oh, yeah”, poi salutò e andò a prendere le lenzuola gonfie di due mesi di sole e pioggia, e tornò nel suo deserto di moquette grigia.

Non sapevamo davvero cosa pensare di Ken. Era un fantasma che ogni tanto a notte fonda si muoveva con passo pesante, e che forse si ammazzava di bong e chissà che altro. Però non disturbava e non faceva troppo rumore –qualità che in un vicino sono sempre ben accette. Anzi, era così silenzioso che probabilmente nessuno si accorgeva di lui. Sgusciava tra i marciapiedi, si muoveva a scatti nervosi, e appena poteva si rifugiava nel suo deserto di moquette grigia. Forse io e la mia ragazza eravamo gli unici a chiedersi se fosse tossico o meno –il che era già superiore all’attenzione che sembrava ricevere dal mondo.
L’altro giorno ero seduto in cucina, a guardare il fiume da lontano, quando lo vidi passare come sempre di corsa e mi venne in mente di quando una volta, mesi prima, stavo cucinando sul barbecue e Ken, che era appena tornato dal lavoro, mi salutò e, cosa stranissimo, si avvicinò.
«Sembra buono quello che stai facendo» disse.
«Niente di che» sorrisi.
«No no, ogni tanto sento questo odore, quando cucini qua fuori, e mi viene l’acquolina. Mi chiedo come dev’essere, quello che stai cucinando»
Dopodichè mi salutò e schizzò dentro. Io restai a fissare la sua parte di casa che piano piano si accendeva. Pensavo alle sue parole. Parlava di cibo, ma non si riferiva al cibo. Era come se stesse chiedendosi com’era mangiare qualcosa che non fosse takeaway (si nutriva solo di quello), sedersi a tavola con la tua ragazza dopo una lunga giornata, e permetterti di tornare umano almeno un po’.
Forse non era tossico, o magari solo in parte. Quello che capii è che Ken era, soprattutto, un uomo solo.

Seduto in cucina, col sole che scendeva sul fiume, cercai di ricordare se l’avevo visto mai con qualcuno, se qualcuno –a parte l’amico delle lenzuola- era venuto a fargli visita. Sì, forse qualche volta era successo, ma raramente. Non abbastanza perchè un uomo non facesse di un deserto di moquette grigia il suo rifugio dal mondo.
Visto che stavo provando a scrivere, pensai ad altri grandi scrittori che in vita erano stati uomini soli rinchiusi in una stanzetta male illuminata. Mi venne in mente Bukowski, ovviamente, ma soprattutto mi venne in mente Kafka –forse perchè sto rileggendo i suoi racconti per ora. Kafka mi ha sempre dato l’impressione dell’uomo solo che, dopo una lunga giornata di grigiore e sopraffazioni, si rinchiude nella sua stanza e si mette alla scrivania per cavare un po’ di senso da tutto quel vuoto, da quella confusione. Mettere ordine, cercare di capire, ma anche trovare compagnia dopo una giornata solitaria. Trovare conforto. Kafka tornava da un lavoro che odiava e la sera si perdeva tra righe piene di corridoi oscuri, stanze vuote, personaggi implacabili e penombre significative. Non c’era amore per i suoi protagonisti, e non ce n’era nemmeno nella sua vita, costellata di fidanzamenti interrotti e donne perdute. Alla sua morte, era così deluso che aveva ordinato al suo amico fidato di bruciare i suoi romanzi incompleti (tra cui “Il processo”, oggi diventato classico della letteratura), perchè non ne era contento. Era arrivato infelice, se ne andava infelice.
Kafka mi ha sempre fatto pensare a qualcuno che si svegliava da un sonno agitato pieno di incubi, che poi cercava di dimenticare durante la giornata senza mai riuscirci. L’unica cosa che gli restava da fare era tornare a casa la sera, nelle stanze solitarie, e provare a mettere quegli incubi su carta –inchiodarli, imprigionarli, forse perfino capirli.
Lo immagino correre schivo e veloce per le strade di Praga, guardando di nascosto gli abitanti, tutto teso al suo ritorno a casa. Così geniale, così solo. Non so se Ken sia geniale –tutto è possibile- ma ho rivisto nelle sue camminate, nelle sue nottate solitarie, quelle del buon Franz. Come lui, a portarsi dietro incubi che non riesce mai a sciogliere, nemmeno in mezzo ad altre persone.

Ho fatto un respiro. Il sole stava ormai scendendo. Forse ad alcuni scrittori quella stanzetta è servita come ispirazione –anche se il prezzo da pagare è stato spesso troppo alto. Guardando il fiume, ho pensato ad altri che in quella stanzetta sembrano non esserci mai stati. Hemingway, per esempio. Non se ne sarebbe stato mica seduto come me lì, no, lui sarebbe sceso al fiume, avrebbe camminato a lungo, magari si sarebbe messo a pescare nella sua maniera esperta e virile, avrebbe preso un tonno da 20 chili a mani nude, avrebbe incontrato qualche personaggio brillante come lui, avrebbe preso come sempre la vita per la gola e l’avrebbe baciata con foga, e poi avrebbe riso con tutto se stesso. Avrebbe irradiato positività e forza, curiosità e voglia di avventura. Niente in lui era solitudine e incubo.
E allora perchè era finito in una stanzetta anche lui, con un fucile puntato alla testa? Dopo le corride, i viaggi, la boxe, gli incontri, le donne, i successi, perchè aveva scritto un romanzo banale come “Il vecchio e il mare” per liberarsi da tutto quell’orrore?
Perchè anche lui aveva incubi e si sentiva solo –come Kafka, come Ken, come me, come te. E forse lì al fiume avrebbe fatto tutte quelle cose, o invece si sarebbe svuotato una bottiglia di rosso e avrebbe visto il sole spegnersi in fondo, così come faceva a Parigi dopo le corse, quando ancora era giovane e tutto sembrava nuovo e ancora i sogni superavano gli incubi. Prima che gli incubi avessero la meglio sui sogni.
Che poi, probabilmente, sta tutto lì.
Così, mentre la sera scendeva, ho pensato che scrivere fosse, forse, riuscire a prendere un po’ di questi sogni che Hemingway faceva volare nell’aria mentre dormiva ubriaco in riva al fiume, riuscire a far sì che i sogni di Hemingway e gli incubi di Kafka non smettessero di fare il loro giro. Riuscire a vedere tutte la luce e tutto il buio, riconoscere la desolazione di chi ci vive accanto e la speranza di chi ha sempre combattuto e ancora combatte.
Poi mi sono aperto una birra, sono uscito fuori, ho acceso il barbecue e sono andato a bussare alla porta di Ken.




giovedì 7 luglio 2016

"Doctor Sleep" - Stephen King


L’Overlook Hotel è uno di quei luoghi in cui, che avessimo letto il libro o visto il film, mai pensavamo che saremmo tornati. Eppure, dopo 35 anni, è successo nuovamente.
Mai dare niente per scontato, specie quando di mezzo c’è il Re.
Nel 2012, infatti, Stephen King, dopo una consultazione via internet con i suoi fans –e un’idea che gli girava in testa da qualche anno- ha deciso di scrivere il seguito del leggendario “Shining”. Il compito, ovviamente, non era di quelli propriamente semplici. “Shining”, uscito nel 1977, ha venduto milioni di copie, facendo entrare i Torrance e l’Overlook (gemelle comprese) nell’immaginario di tutti –complice, ovviamente, l’omonimo film girato da un altro Re, Stanley Kubrick, nel 1980. Il film di Kubrick è ancora considerato uno dei grandi classici della filmografia horror (e non solo) –anche se, come molti sapranno, a King non è mai andato troppo giù, per motivi che ha esposto più volte ad intervistatori che lo guardavano costernati.
Insomma, tornare all’Overlook –ripreso in mille riferimenti e parodie, dai Simpson a Caparezza- era un’operazione molto rischiosa, di quelle che fanno temere sempre il peggio ai fan storici. Timori, alla fine, abbastanza infondati, per quanto mi riguarda.
Doctor Sleep” (Sperling & Kupfer) comincia proprio lì dov’era finito “Shining” (il libro, non il film, che ha un finale diverso), con Danny e Wendy Torrance che cercano, con fatica, a riprendersi dalla tragedia che il padre Jack aveva causato, spinto dai fantasmi dell’Overlook. Fa uno strano effetto ritrovare gli stessi personaggi (fa una breve comparsa anche Dick Hallorann, l’inserviente amico di Dan che, a differenza del film di Kubrick, nel libro precedente si era salvato), un bel senso di familiarità, come tornare a casa. King trasmette l’attaccamento che ha a certi suoi personaggi, nonostante dopo qualche pagine ritroviamo il piccolo Danny cresciuto, diventato ormai Dan, alcolizzato come il padre e che vive alla giornata. Per soffocare la “luccicanza” che gli permette di vedere e sentire al di là di quello che normalmente percepiamo, Danny infatti si è costretto a sopire questo suo potere con alcol e droga, finché un giorno non capisce di aver toccato il fondo. Decide quindi di trasferirsi in una cittadina del New Hampshire, a cui arriva casualmente (ma niente capita casualmente alla famiglia Torrance), e ricominciare daccapo nonostante i suoi fantasmi. Il piano sembra funzionare, finché nella sua ormai tranquilla routine non fa il suo ingresso Abra Stone, una ragazzina inseguita da un gruppo di strani individui che gira l’America da centinaia di anni, e che si fa chiamare Vero Nodo. Inutile dire che le speranze di tranquillità di Dan vanno a farsi benedire, così come non è difficile immaginare che l’Overlook tornerà a far visita (ma non aggiungo altro per non spoilerare).
“Doctor Sleep” è un libro piacevole da leggere, in puro stile King. La storia scivola via bene, i personaggi sono ben tratteggiati, e Dan Torrance, nonostante i timori, non delude. Il Vero Nodo funziona bene come “cattivo”, e la linea che, tramite la luccicanza, unisce Dan a quello che è avvenuto nello scorso libro, è interessante. Non l’ho trovato pauroso come altri libri del Re, ma come lui stesso scrive nella post-fazione del libro: Adoro illudermi di essere ancora piuttosto bravo in ciò che faccio, ma niente può essere all’altezza del ricordo di un forte spavento, e sottolineo niente, specie quando si è giovani e facilmente impressionabili. (…) E poi la gente cambia. L’autore di “Doctor Sleep” è parecchio diverso dall’alcolista pieno di buone intenzioni che ha scritto “Shining”, ma entrambi sono interessati a una sola cosa: raccontare una storia formidabile.
Beh, direi proprio che il Re c’è riuscito ancora una volta.
Buon ritorno all’Overlook a tutti.


Dello stesso autore ho recensito:
-Revival
-La storia di Lisey

lunedì 4 luglio 2016

A volte scendi e spingi


Mi è venuto un pensiero l’altra notte, tra la quinta e la sesta birra. Mi è venuto da pensare che non dovremmo mai credere al nostro Presidente, al nostro Dio, al nostro Sistema di Rappresentanza, al nostro Capo, al nostro Idolo delle Masse, al nostro Grande Artista.
Non per motivi ideologici, no, non per anarchie o ribellioni adolescenziali.
Non dovremmo credergli perchè, anche se sono nostri, di noi non sanno niente. Non sanno una beata mazza di cosa ci passa per la testa una notte che non dormiamo, quando montiamo in macchina verso nessun posto, ed esattamente a metà tragitto, in piena oscurità e senza nessun cartello stradale, ci rendiamo conto di aver finito la benzina.
A questo punto, in questo buio senza respiro che nè il Presidente nè Dio nè il Grande Artista condividono con te, ti viene da pensare solo una cosa.
E adesso?

Ho scritto l’ultimo pezzo per il Morgana (recensioni a parte) ben 4 mesi fa. Dopo, più niente. Avrei dovuto scrivere della vita, e invece la vita è spuntata di notte mentre provavo a dormire & dimenticare, mi ha fatto vestire in fretta e mi ha detto di salire in macchina, senza troppe spiegazioni.
Mentre guidavo, all’inizio, ho cercato di pensarmi altrove. Il sonno mi aiutava ad immaginarmi camminare su un campo erboso, perfettamente curato, mentre in una mano reggevo un vassoio pieno di ostriche, nell’altra tenevo un contenitore con ghiaccio e vino, sulla spalla una salvietta bianca immacolata, e intorno a me esplodevano colpi di mortaio. Io li scansavo senza pensarci, prendendo traiettorie zigzaganti, assolutamente casuali e piene di grazia, mentre le schegge mi finivano sul braccio e sulle gambe ma non spostavano di un mllimetro le ostriche o il vino. Il sole splendeva alto ed io camminavo senza meta, circondato da piccole sorde esplosioni. Era sempre andata bene, perchè non sarebbe dovuta continuare così? Impari un trucchetto e poi lo utilizzi ogni volta con gli stessi risultati.
La vita, seduta dietro, ha cominciato a ridere. Mi sono voltato, e in quel momento ho capito di aver messo qualcosa sotto.

Sono sceso e ho controllato. Naturalmente non c’era niente sotto, nonostante il buio lo capivo lo stesso, ma qualcosa c’è sempre comunque. Può essere il tuo tempo, o qualche ideale ammaccato, o quella cosa che ti piaceva fare –quella persona che ti piaceva pensare di essere. Qualcosa, in questo buio, finisci sempre per metterla sotto.
Sai come va: la gente intorno comincia a guardarti male –riesci a distinguerla anche in questa oscurità che stordisce. Non sono interessati alla tua versione, non gli interessa sapere se eri entro i limiti o se ti hanno attraversato all’improvviso: vogliono un colpevole per le loro sere fredde, e adesso ce l’hanno. Qualcuno che valorizzi ogni loro sorriso forzato con un po’ di dolore reale.
Niente, ti conviene risalire in macchina e partire. Inutile stare lì a spiegare: c’è così tanto buio che potrebbero non capire.

In macchina cominci a raccontare qualche storiella per far passare il tempo. Provi a ridere di qualcunque cosa, e ti riesce sempre meno a poco a poco che i chilometri aumentano. La strada è piena di fossi, alcuni così grandi da non crederci, ma tu scherzi e questo sembra farti sentire meno i colpi, sembra ammortizzare le botte che arrivano –ma che bisogno c’è di essere seri? Ridi, dai, ridi! Oggi siamo qui in giro, domani chi lo sa! Ahahahah! Ridi passando panorami deserti, case con le luci spente, auto ferme e con la batteria ormai scarica –e tu ridi!- mentre fai finta di non aver visto che il livello della benzina sta scendendo, che la batteria non è messa benissimo –ridi, dai!- come hai sempre fatto, un altro trucchetto che ha funzionato alla grande, finchè un sobbalzo non ti fa sbattere contro il volante, e adesso sorridi e senti sulla lingua il sapore del sangue, e negli occhi seri, un po’ umidi, quel buio che sembra non finire mai.

Va bene, adesso basta. Hai provato a far finta di niente, hai provato a ridere, ma ne hai abbastanza di girare a vuoto senza meta. La vita è ancora seduta dietro a guardare fuori dal finestrino, in silenzio, tutto quel nulla.
Ti poni una meta in mente, la prima raggiungibile –una cena, un viaggio, il primo giorno di ferie- non dev’essere grande, solo fuori da questo nero. Cominci a dirigerti, a progettarla e poi a desiderarla, a vederla come oasi, come sosta in tutto questo guidare senza meta –e una volta lì, capisci che finalmente ti potrai fermare, scendere, sgranchirti le ossa, cominciare a respirare. Distogliere la vita da quel finestrino che osserva con morbosa compassione. Sali di marcia e vai, vai, cazzo vai. Ti torna quasi il sorriso. Uscirai da quel buio, è deciso.
Poi vedi qualcosa davanti a te. Cavalletti, transenne, fiaccole. Di qui non si passa. E’ successo qualcosa, più avanti. Cosa? Una malattia, un licenziamento, una donna, un litigio, i soldi che non ci sono. A volte un piccolo tamponamento, a volte qualcosa di molto peggio –sufficiente sempre, comunque, per farti fare una deviazione. Solo che tu quella deviazione non te la puoi permettere. La prendi lo stesso perchè non hai alternative, e a un certo punto finisci la benzina.

Sei fermo lungo la strada. Forse la cosa migliore è aspettare che passi qualcuno, perfino che arrivino i soccorsi. Intanto guardi il fuoco alto, lì sopra le transenne, che danza nel buio illuminando rughe trucchi e facili rimedi. Ti lasci quasi ipnotizzare da quel calore, da quell’orrore. La tua possibilità di fuga e di ristoro è andata. La cosa migliore è aspettare, ti dici.
Qualcuno, alla fine, dovrà pur passare.

Probabilmente il nostro Presidente, il nostro Dio, il nostro Capo, il nostro Grande Artista, sapranno molte cose –ma sono abbastanza sicuro che non sappiano cosa provate in quella macchina ferma a bordo strada, lontano dalla salvezza, persi nel nero e con l’incendio che minaccia di bruciare tutta la foresta.
Allora io preferisco tenermi le Cose Piccole, quelle che danno gioie che è difficile spiegare a chi non è tornato a casa un giovedì sera con le ossa a pezzi e ha trovato una sedia e un sorriso, o a chi si fa prendere dall’esaltazione di una domenica mattina di sole che parla con parole di canzone, o di gente che sta bene a stare seduta intorno ad una tavola senza bisogno di molto altro.
Le Cose Piccole, che ho cantato e spero di continuare a cantare, nel poco che ho pubblicato e nel tantissimo che ho qui sepolto, nato per piacere e necessità, e che mi ricorda dove ho le braccia, dove le gambe, dove la testa, dove tutto il resto.
Le Cose Piccole, come un sorriso di passaggio in un giorno che sembra la fine del mondo.

Potresti aspettare, certo. Potresti invocare, pregare, potresti incazzarti, mandare tutti affanculo, potresti prendertela con qualcuno, con gente a cui vuoi bene, potresti essere ingiusto come i Grandi, distante come i Grandi. E a volte resti lì bloccato per ore e anni, incapace di fare un passo, in eterna attesa.
A volte, invece, scendi e spingi.
Massacrante, perfino insensato. La vita resta seduta a fare zavorra. In più ti allontani dalla strada che sai, non sai se raggiungerai la salvezza che ti eri prefissato e intanto l’incendio sembra squarciare la notte dal di dentro.
Tu però continui a spingere.
A volte, è tutto quello che ti resta da fare.