domenica 21 maggio 2017

Io e te, questa sera



Ho una sensazione
-che non dovresti trovarti
stasera
con quest’uomo
troppo folle per
vivere con gli altri

Bevine uno
e anch’io me ne
verserò, non temere
-ecco, brava
bevine uno
per tutte le infinite volte
che questa vita ti pare
sprecata
bevine uno
per ogni volta che sai
che c’è solo questa, e
pazienza
bevine uno
per questa nostra notte
piovosa e senza senso

Non è amore quello che
voglio stasera, lo sai bene
fammi solo riempire il
tuo bicchiere

Bevine uno
per le macchine che
si bagnano fuori
sotto il cielo gelido
fuma pure, se vuoi
e poi bevine uno

Bevine uno
per ciò che ci hanno tolto
e noi sapevamo
bevine uno
per l’ottimo furto
su queste tue labbra così tristi
che non ho voglia di baciare

Bevi, bevine uno
non importa cosa o perchè
buttalo giù
metti un po’ di strada
tra noi e la sfortuna, stanotte
credo che ne berrò
un altro anch’io

Bevine uno
per i maestri sbagliati, gli amici
sbagliati, i programmi sbagliati, i
vicini sbagliati
e poi gli sbagliati eravamo noi
ricordi?
Bevi
non può far male
non più

Non ricambierò il tuo sguardo
quindi smettila di fissarmi
sono troppo stanco per tutto
e quella lucetta mi sembra già più viva

Stai bevendo
per ogni volta
che non hanno capito
perché non potevano seguirci
non dove ci trovavamo
era scomodo, buio
e faceva tanta paura

Bevine uno per me
se puoi
per come mi hanno voluto spegnere
quella cosa dentro
come lava che smette di pulsare
non ho nemmeno voglia di scopare
se ancora non l’hai capito

Bevi
e lasciati andare, per una sola volta
una
dimentica il superfluo
quello che ti hanno detto
quello che ci hanno taciuto
la pioggia là fuori e
bevi
perché io, io non mi lascerò andare
se non molto più tardi
quando sarò solo
coi miei sogni urticanti e
le mie pazzie che girano feroci

Alzati pure, se ti va
puoi anche andartene, in fondo
ma non ti darò un passaggio
non ne ho voglia
bevine uno

Stai lasciando cadere ora
vestiti e inibizioni
e gli orrori che ti hanno cucito addosso
ci voleva poi tanto?
Non dirmi che è il bicchiere, non lo
sopporterei
scommetto che da bambina sapevi ancora
correre

Non dirmi che sono solo arrabbiato
che sono patetico, non rovinare tutto
ho di là uno scrigno
lo aprirò al momento giusto
-quando sarà?-
bevine uno

Ridi, ora
rido anch’io
quanto sono vere queste risate non
me lo chiedo, ne vuoi un altro
ma sì, ma sì, ci andrò piano
quando dici “autodistruzione”
sei quasi buffa

E ora, ora che ho visto i
tuoi seni, e tu hai visto
quanto tempo ho perso? Cosa
succede?
In televisione come fanno
di solito?

Ne bevo uno
perché so che è tutta una ripetizione
un’assurdità
un replay senza inizio e
senza fine
ne bevo uno
lasciamelo fare

Ne bevi uno
e non sai quando i tuoi sogni
sono stati intrappolati
in una rete vicino al cielo
ne beviamo uno
senza sapere se siamo vivi
ancora vivi
non ho proprio voglia di
parlarti, capiscimi
è già stato tutto detto

Provo a berne un altro
sono arrivato
non hai capito
vado a godermi un sonno
ubriaco
anche se sono sobrio
e me lo godo da
solo.



Marco Zangari © 2003
www.marcozangari.it
Pagina Facebook: Marco Zangari

giovedì 18 maggio 2017

Nel sogno - II parte: nato per rubare rose



Nel sogno mi trovavo in giardino. Era quello di casa, ma allo stesso tempo era troppo vasto per esserlo. Più che vasto, sembrava dilatato. Ogni volta che ne fissavo i contorni, parevano essersi spostati rispetto alla volta precedente. Solo le buche nel prato, le imperfezioni della staccionata me lo ricordavano, come se fosse una versione migliorata del mio giardino.
Un cane era legato alla staccionata, vicino al palo dove stendiamo i vestiti. Il palo era vuoto, nudo come un albero in autunno, con braccia metalliche supplicanti sotto un cielo colloso. L’aria era ferma, la luce uguale e senza colore. All’inizio pensai che fosse il mio cane, ma capii quasi subito che mi ero sbagliato, e mi diedi anche dello stupido per averlo anche solo pensato –come quegli abbagli del sogno, di cui quasi non registriamo memoria. Questo cane era molto più grosso del mio, non ne conoscevo la razza ma era massiccio senza essere grasso. Se ne stava tranquillo, a differenza del mio cane che è sempre in movimento. Quando mi vidi, cominciò a venire verso di me, finchè la corda che lo legava alla staccionata non arrivò al massimo. A quel punto ebbe un sussulto, che fu più di sorpresa che di dolore, e ricadde leggermente all’indietro. Era come se, per un attimo, avesse dimenticato della corda, e adesso la stesse ricordando all’improvviso.
Mi avvicinai con cautela, non sapevo come avrebbe reagito. Il cane invece restò lì, fermo. Quel tentativo sembrava aver esaurito ogni sua energia, perfino ogni sua gioia. Se ne restava lì, immobile e infelice. Ora che ero più vicino, potevo studiarlo meglio. Aveva un corpo voluminoso, ma non eccessivamente. Più che altro, pareva capace di scatti possenti a giudicare dai muscoli delle zampe posteriori.
Era un cane nato per correre, e adesso se ne restava mogio alla catena.
Un corpo atletico, scattante, e poi gli occhi più tristi che si potessero immaginare in un cane. Ci fissammo per qualche secondo, l’uno perso nello sguardo dell’altro. Una volta una mia amica mi avevo detto che avevo occhi da cane triste, intendendo farmi un complimento, ma il cane adesso mi batteva. Era come se tutta la sua consapevolezza di sprinter lasciato lì a marcire fosse nel suo sguardo, che non dava tregua. Dovetti spostarmi dal suo sguardo, non riuscivo più a reggerlo.
Fu allora che vidi la corda che lo teneva legato alla staccionata. Notai che il cane l’aveva mordicchiata nella parte vicina al suo collo, che era quella più spessa. La parte restante della corda, più vicina alla staccionata, era molto più sottile. Pensai che, se solo il cane l’avesse capito, avrebbe potuto mordere quella e liberarsi.
Il cane, però, non lo sapeva.
Lo fissai ancora un po’. Il cane restava immobile, come vinto da qualcosa che gli sembrava troppo più forte. Solo una volta camminò un poco, parallelamente alla staccionata. Andò verso alcuni soffioni che spuntavano dal prato, proprio come nel mio giardino. Da piccolo mi piaceva soffiare forte e far volare quelle minuscole stelle bianche nella luce del sole. La corda del cane decapitò alcuni soffioni, e le stelle bianche si sparsero sul terreno. Il cane si fermò di nuovo, e dopo poco cominciò a dormire.
Nel sogno il giorno diventò notte in un battito di ciglia, come spesso accade. Il cane non c’era più e mi trovavo ancora in giardino. Notai che, nell’angolo più lontano, si intravedevano delle forme rosse nell’oscurità. Mi avvicinai e vidi che si trattava delle rose del vicino. Nel sogno mi chiesi come mai non ci avessi mai fatto caso. Erano semplicemente bellissime. Perfino nel buio sembravano avere una loro luce, col rosso che si stagliava perfettamente nella notte. Anche a quella distanza ne potevo sentire il profumo, che era potente e miracoloso come mai avevo sentito prima di allora. Capii che dovevo prenderne una e mi incamminai. Nel farlo, mi sentii molto inquieto. Non solo erano nell’angolo più lontano e più difficile da raggiungere, non solo appartenevano al vicino e non a me; sentivo che, se mi fossi fatto sorprendere a cogliere quelle rose, qualcosa sarebbe successa. Qualcosa per niente piacevole.
Mi bloccai, incerto sul da farsi. Le guardai da lontano, ne ammirai quella bellezza rara, consolante. No, dovevano essere mie.
Mi avvicinai con circospezione. Non c’era anima viva in giardino, ma sentivo lo stesso che potevo mettermi nei guai. Ero costretto a muovermi come un ladro, nascondendomi alla stessa luna che pendeva su di me. Non potevo farne a meno, perchè solo a vedere quelle rose sentivo un pizzico in fondo alla gola, come di eco di un pianto per qualcosa di troppo bello da poter sopportare. Esistevano solo le rose, e solo le rose potevano riportarmi all’esistenza.
Mi avvicinai con calma, mi guardavo sempre attorno, col cuore in gola per paura che qualcuno mi potesse cogliere sul fatto. Sentivo il peso dell’ingiustizia: qualcosa di così bello che mi veniva proibito. Finalmente fui a un passo dal cespuglio. Mi guardai attorno un’ultima volta. Le case erano al buio, ma sapevo che da lì a poco si sarebbero accese tutte le luci, i cani avrebbero cominciato ad ululare, le porte a sbattere. Non m’importava. Con un gesto rapido, vergognoso ma deciso, estrassi la mano dalla tasca e la usai per strappare uno dei fiori, il più vicino. Poi, dopo aver rubato le rose, ritornai nella parte illuminata del giardino.
Nel sogno le rose sparirono, come aveva fatto il cane, e restai da solo di fronte alla casa immersa nel silenzio. No, non era propriamente silenzio: anche se c’ero solo io, sentivo come una presenza densa, tutto intorno a me. Erano vecchi discorsi, vecchie chiacchiere, vecchie parole che io e altri avevamo detto in quel giardino. Erano intorno a me, indistinguibili ma facili da avvertire, come un tonfo sordo. Sembrava il palcoscenico di un teatro alla fine di una rappresentazione, con le luci spente e gli attori e il pubblico ormai a casa. Nell’aria si sentiva ancora la loro presenza.
Mi incamminai verso la casa. Passai accanto al vecchio edificio della lavanderia, con la finestra sfondata come nella realtà. L’interno era immerso nell’oscurità. Dal momento che mangio film horror a colazione, mi aspettavo che da un momento all’altra passasse di tutto da quella finestra –un demone inquieto, un fantasma distratto, uno zombie sperduto, una presenza malvagia. Invece ci fu solo buio di fronte a me.
Ero dentro casa adesso. Le voci di fuori sembravano avermi seguito all’interno. Anche se erano tante, il fatto che fossero lontane, nello spazio e nel tempo, le rendeva astratte, quasi simboliche, e mi faceva pesare ancora di più il silenzio della casa. Proseguii e arrivai al corridoio. Lo fissai per un attimo.
Nel sogno, il corridoio sembrava più lungo e buio del mio. Non solo: mi ricordava, per qualche motivo, la strada che compievo ogni mattina per andare al lavoro. Come nei sogni, che senza un motivo apparente fanno collegamenti tra luoghi distanti e diversi, cominciai a camminare e ad avere la stessa sensazione che avevo andando al lavoro. Voglio dire, era come se stessi andando lì: come se quei pochi passi fossero come quel tragitto fatto di routine, attese al semaforo, panorami presto dimenticati. Mi guardavo intorno ed era sempre il mio corridoio, pur se più lungo e più oscuro, ma era anche qualcos’altro.
Su un mobile sulla destra vidi un telefono. Era un cordless nero, nella sua postazione, e sembrava funzionante. Mi sarei dovuto sorprendere, visto che nella realtà non possiedo un telefono. Invece allungai una mano e feci per prenderlo. Stavo pensando di chiamare qualcuno, ma poi mi chiesi: chi? Sicuramente stanno dormendo tutti adesso, anche quelli dall’altra parte del mondo. Mi sembrava che fosse notte ovunque.
Nel sogno ero l’unico sveglio, e quello che più di tutti avrebbe voluto dormire –bene, profondamente, a lungo. Tornando indietro passai da una stanza chiusa. Era una stanza che non esisteva a casa mia. Sembrava in tutto e per tutto come se fosse stata sempre là, eppure era la prima volta che la vedevo. Poggiai l’orecchio sulla superficie, ma non sentii alcun rumore. Mi spiazzava. Come negli horror, poteva essere un varco verso una dimensione infernale, un vortice nero che mi avrebbe risucchiato in una notte dal quale non sarei più potuto uscire. Poteva essere il rifugio di un assassino o la dimora nascosta di un povero cristo. Poteva essere una soluzione al mistero – o a parte del mistero di quella notte e di quella casa. Poteva anche essere piacevole, come un po’ di colore, un sollievo, una via di fuga. Dietro quella porta poteva esserci di tutto. Poteva essere decisiva.
Andai oltre. I sentimenti, in me, erano stati così forti e contrastanti da essersi annullati a vicenda. Sentivo di aver perso un’ottima occasione –nel bene e nel male- ma non era la prima volta.
Passai davanti ad una stanza che prima non avevo visto. Questa la riconoscevo. C’era una scrivania, e sopra una scrivania c’era una lampada accesa. La lampada era la prima luce che avevo visto quella notte. Mi avvicinai e vidi che, accanto alla lampada, c’era un vaso, e dentro il vaso, un’unica rosa.
Mi sedetti alla scrivania. Di fronte avevo una finestra. La guardai, e mi resi conto che la notte era finita.


Marco Zangari © 2017
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martedì 16 maggio 2017

Notti nel bush



Anni fa ho lavorato in una farm in Queensland, in un posticino scordato da Dio, dalle mappe e dal GPS a tre ore di macchina da Cairns. Io e Valerio, mio amico d’infanzia, raccoglievamo lime e mango e dormivamo in una piccola capanna a ridosso della piantagione. Erano giornate piene, faticose fino allo stremo, sudate da non dire.
Di quelle giornate ho già scritto ampiamente in “Latinoaustraliana”, il mio romanzo. Non penso spesso a quel periodo, ma quando lo faccio, è sempre con piacere –come se dimenticassi la fatica, gli insetti, gli orari massacranti e il caldo omicida, e trattenessi solo i momenti speciali, come quando, alla fine di una lunga giornata, con le braccia graffiate e marchiate dal rash, io e Valerio ci sedevamo sulla piccola veranda della capanna con una birra in mano, luce spenta per evitare gli stormi assassini di zanzare, e restassimo lì a dirci poco o niente sotto quello sperpero di stelle infinito.

Ogni tanto mi capita di ripensarmi su quella veranda nella notte australiana. Provo a rivedermi adesso, con tutti gli anni i chilometri le facce e le corse che sono passati in mezzo, lì seduto su quella veranda con in mano una Carlton o una Cooper’s. Mi chiedo come mi sentirei adesso, a starmene seduto lì. Provo a pensare quei pensieri, a farmi passare addosso quell’aria notturna.
Lo faccio perchè seduto lì, in quelle notti nel bush, mi sembrava di potermi finalmente focalizzare sull’Australia, su quell’enorme massa di terra che in altri momenti mi sembrava impossibile da cogliere tutti insieme, e di riflesso, mi pareva di vedere anche me lì in mezzo. Erano attimi in cui il tempo rallentava e non c’era alcuna distrazione. Nella capanna non esisteva internet, nè tv, nè telefono, niente di niente, solo un letto e un ventilatore a pale sul soffitto che aiutava a combattere l’afa delle notti tropicali così come la solita potato salad in lattina avrebbe potuto placare la nostra gigantesca fame di fine giornata.

Così, ogni tanto mi capita di vedermi lì. Sono gli unici attimi in cui capisco, fino in fondo, che mi trovo in Australia, e in nessun altro posto. Non che sia una cosa universale, intendiamoci: ognuno ha il suo posto speciale, quello è il mio. Sono però convinto che sia complicato coglierlo a Sydney o Melbourne, città che sembrano provinciali venendo da altre capitali europee, e sfavillanti megalopoli una volta usciti dalla zona “rural” dell’Australia. C’era gente, lì in farm, terrorizzata da Sydney. Quella massa di gente, dicevano con occhi sbarrati di terrore come se si trattasse di chissà che girone dantesco. Chiunque abbia dovuto vivere un tot di tempo in una città come Roma, come è capitato a me, sa che Sydney sembra più una placida cittadina di mare che un incubo di grattacieli, ma li capivo.
Lì era diverso.
In quella veranda sull’infinito, potevo sentire i rumori intorno a me. Potevo stupirmi quando c’era luna piena e gli alberi di mango venivano fuori dall’oscurità come se fossero carichi di oro tra i rami. Potevo gustare ogni sorso della birra che stavo bevendo, anche quella merda di Carlton. Potevo sentirmi le mani attaccati ai polsi, sentirmi pensare, ritrovarmi umano in quel susseguirsi di giorni e anni, di lavori e doveri, di relazioni e liti, di distanze e viaggi. Ero lì, presente, in quel momento. Non capita spesso. Sono uno che vive, come tutti, sempre connesso, quindi non posso disprezzare la tecnologia –ma lì era diverso. Le facce della tua vita erano concrete, le vedevi quasi, le potevi osservare da fuori, e quando ti mancavano, lo facevano fino a toglierti il fiato. Non potevi parlarci, ma lo stesso riuscivi a dir loro tutto quello che serviva. Allo stesso modo, ti rendevi conto di quante cazzate ti circondavi, persone e abitudini di cui avresti potuto fare benissimo a meno, zavorra che ti portavi dietro solo perchè è così e basta.

No, non eravamo diventati dei santoni zen su quella veranda. Ci mancavano le ragazze, ci mancava un pasto decente, una birra migliore, una temperatura più umana, cose piccole e grandi. Però ci rendevamo conto di quanto quel momento fosse importante. Lassù alla farm, in quei luoghi isolati, c’era un ritmo fuori dal mondo che conosciamo. Ogni gesto sembrava importante, ogni persona incontrata sembrava dovesse far parte della tua vita per sempre. Era tutto estremo e leggero allo stesso tempo. La gente si fermava, parlava con noi, ci raccontava le sue storie. Se c’è una cosa in cui gli australiani eccellono, è proprio nelle storie che sanno tirar fuori –divertenti, assurde, malinconiche. Di solito lo fanno con un tot di bottiglie vuote davanti, ma conservano sempre un’ironia che li protegge anche quando le storie diventano più grandi di loro. E’ un popolo che sa ridere di se stesso, e forse l’ironia è l’unico approccio possibile per non soccombere a questo Paese così vasto e così imprevedibile.
C’era bellezza, in quelle notti. Certo, venendo dall’Italia ci cresciamo con la bellezza, la vediamo ad ogni angolo di strada finchè non diventa normalità e finiamo per dimenticarcene. Questa era una bellezza diversa, e non solo per quella straordinaria scenografia di stelle e valli. Nemmeno in Italia scherziamo, in quanto a bellezze naturali, e da siciliano ne so qualcosa. Ma lì, in quel momento, era come se la mente provasse a immaginare cosa ci fosse dietro quella scenografia luccicante, cominciando a vagare per le migliaia e migliaia di chilometri che vanno da un oceano all’altro, una massa buia di deserti e spiagge, paesini e città, di vuoto assoluto e foreste inesplorate, finchè la mente stessa non vacillava e si perdeva, perchè era troppo. In quell’oscurità, lo sapevamo, si nascondevano panorami magici e assassini, come il serial killer dei backpackers. C’erano chiari di luna sui canyon e animali capaci di ucciderti in pochi secondi. Era un buio primordiale e primitivo, come non siamo più abituati a pensare, e in quel buio ci sentivamo persi, e forse anche un po’ vivi. Perchè lì, nella veranda, diventavamo coscienti di quant’eravamo piccoli in quella terra enorme, quella terra benedetta e stronza, piena di regole e di angoli selvaggi, di mostri e di sirene, di fortune e maledizioni, quella terra che da lontano si esalta e si odia, con le distanze che separano, che uccidono, e col sole che ogni mattina è lì come se non fosse successo niente, e mentre pensavamo questo, buttavamo giù un sorso di quella pessima birra, e ci sembrava la cosa più buona che avessimo mai bevuto.
Ecco perchè mi mancano, quelle notti nel bush.


Marco Zangari © 2017
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lunedì 8 maggio 2017

Nel sogno - I parte: la festa



Nel sogno c’era tanta gente vestita bene, in una villa sfarzosa ma non eccessiva. Doveva essere una festa, anche se non sapevo in occasione di cosa. L’idea era quella di un after-party dopo una presentazione, una prima, un evento in qualche modo importante. Come nei film , ma non esattamente: la gente non indossava smoking e non camminava con calici di champagne. Anche loro, come la casa, sembravano eleganti senza sforzo, in maniera non ricercata. Mi aggiravo tra un gruppetto e l’altro, riuniti a discutere di diversi argomenti che non sapevo cogliere. Erano discorsi lontani da me, ascoltavo qualche parola e mi sarebbe piaciuto poter capire il senso generale del discorso, ma non ne ero in grado. Mi spiaceva, perchè intuivo che non si trattava delle odiose chiacchiere vuote delle feste, quello “small talk” infarcito di storie avventurose e qualche battuta che fungono da palcoscenico per chi vuole farsi notare. Non importa, pensavo, ho pur sempre la scrittura. Parlare è per gli insicuri, per quelli che hanno un’idea su tutto e poi non ce l’hanno su niente. Scrivere è diverso. Filtri l’universo in un bicchiere e poi butti giù quello che resta.
Così mi consolavo, e scivolavo piano tra i gruppi, senza dolore e senza piacere. Ero fuori da tutto.
Ad un certo punto, qualcuno si rivolse a me.
«Abbiamo saputo...» disse, ma persi il resto della frase.
«Scusa?»
«Si parlava di... Com’è andata?»
Era come una conversazione al telefono con la linea che andava e veniva. Gli altri del gruppo, che adesso avevano puntato gli occhi su di me, sembravano aver ascoltato tutta la frase. Ero l’unico, là in mezzo, che non capiva. Era spiacevole, perchè era chiaro che si trattava di qualcosa che mi coinvolgeva direttamente –addirittura, qualcosa che forse avevo fatto io – quindi dovevo esprimermi. Che fare? Come ti capita quando ti chiedono qualcosa in una lingua straniera e tu non capisci al volo, cominciai a parlare e, contemporaneamente, a mettere insieme i pezzi di frase per estrarne un minimo di senso.
«Mah, sai come vanno queste cose, ci sarebbe stato molto altro da dire e fare, ma come sempre uno poi non riesce, quindi... Però ho fatto quel che potevo, in quella circostanza»
Parlavo velocemente –troppo velocemente, lo sapevo, e mi odiavo un po’ per questo, perchè era la fretta che mi veniva quando ero a disagio, l’imbarazzo del non sapere e di provare a nasconderlo dietro un muro di parole esitanti, masticate male. Era un imbarazzo che veniva da lontano, dai tempi della scuola, delle interrogazioni alla cattedra di cui non mi importava niente, ma mentre ero lì e l’Autorità mi fissava, sapevo che dovevo dire qualcosa, ma non sapevo cosa. L’orologio che ticchettava, il tempo che si faceva sabbia mobile, gli occhi su di me come fucili pronti a fare fuoco sulla mia autostima.
Nel sogno, mi guardai intorno velocemente, per leggere sugli sguardi dei presenti se l’avevano bevuta oppure no. Avevano strani sorrisetti, che non riuscivo a interpretare come intesa e solidarietà. Stavo diventando paranoico, cominciavo a sudare. Rimpiangevo il camminare piano tra i vari gruppi, l’essere fuori da tutto.
«Quindi, che ne pensi alla fine?» mi chiese di nuovo la stessa persona. Era un uomo che non inquadravo bene, sicuramente non lo conoscevo, era solo un collage sfumato di volti conosciuti, altri incrociati per strada e immagazzinati senza saperlo e forse qualche faccia vista in tv –come spesso succede nei sogni.
Non mi andava di essere pressato in quella maniera. Sentivo che le motivazioni di quell’uomo non erano del tutto sincere. Era uomo di mondo e ne sarebbe uscito bene, lui, sia che avessi risposto, sia che avessi fatto scena muta. Era pronto a ridermi dietro, così come ad annuire e approvare quel che avrei detto. Per lui era indifferente, avrebbe vinto comunque. Quel gruppo era il suo gruppo.
«Che sarebbe potuto andare meglio – che può sempre andare meglio»
Una banalità di circostanza, parole svuotate. Mi stavano spingendo verso qualcosa che non faceva parte di me. Li odiavo. No, mi odiavo per averglielo permesso. Non dovevo dar certo conto a queste persone. Eppure, non potevo fare a meno di parlare.
«... nonostante tutto, credo che alla fine sia andata meglio rispetto alle aspettative. Non era semplice, sai, e quindi mi sono dato da fare con quel che avevo in mano...»
Parlavo ancora troppo velocemente, senza staccare gli occhi dal mio interlocutore –era un modo per fargli capire che, se anche le mie parole sembravano sfuggenti, io ero lì e non mi sarei mosso.
Poi, improvvisamente, capii. Si trattava di me, come avevo intuito. L’uomo di mondo mi aveva chiesto di qualcosa che avevo appena fatto –la presentazione di un mio libro, come avevo intuito, o forse una lettura. Non ero sicuro che quella festa fosse collegata direttamente al mio evento, ma ero certo, senza possibilità di smentite, che si trattasse di me. Fu un’illuminazione improvvisa, e una salvezza. Finalmente avevo in pugno la conversazione. Finalmente sapevo cosa dire e come dirlo. Rallentai il ritmo, scelsi bene le parole. Eravamo nel mio terreno adesso, potevo farne quel che volevo.
In quel secondo, però, mi resi conto che una donna, in mezzo a quel gruppo di volti anonimi, mi stava fissando e sorrideva beffarda. Era una chiara presa in giro. Sapevo che non doveva essere dovuta alle mie parole, perchè finalmente avevo trovato le cose da dire. Seguii allora lo sguardo della donna, fino ai miei pantaloni. In quel momento mi resi conto che stavo indossando i vestiti che di solito avevo in casa – il pantalone di una tuta, una felpa. Sentii il sangue che mi arrivava al viso, pronto ad esplodere verso ogni capillare. Una patina di sudore mi rivestì completamente. Cosa ci facevo vestito a quel modo, in mezzo a quella festa? Come avevo potuto non accorgermene fino a quel momento?
Non erano i vestiti in sè. Mi piaceva star comodo a casa e quelli, tra l’altro, erano gli indumenti che indossavo quando scrivevo, alla mia solita scrivania. Non gli davo nessuna importanza, erano simboli privi di valore per me.
Nonostante questo, in quel momento sentivo la disparità tra il mio abito ed il loro. Come andare ad una festa in maschera ed essere l’unico mascherato. O forse era l’esatto contrario.
All’imbarazzo si aggiunse la rabbia. Proprio adesso che mi potevo esprimere come desideravo, venivo colto in fallo, indicato per qualcosa che non aveva nulla a che fare con quello che avevo da dire.
Ricominciai a balbettare, a parlare troppo velocemente – stavolta per sviare l’attenzione da quella mia scoperta vergognosa – finchè non fu un altro uomo del gruppo a metterlo sul tavolo.
«Ma scusa, quei vestiti... ?» fece, con un sorrisetto malizioso.
Eccolo. Aveva nominato l’innominabile, il re era nudo. Adesso non potevo più far finta di niente. Come uscirne?
«Ma sì, sai, volevo star comodo...» buttai lì, nella maniera più rapida possibile. Volevo che venisse fuori come una battuta, ma ero troppo nervoso per suonare divertente. Li investii ancora con le mie parole, come se quello che avevo da dire li potesse distrarre da tutto il resto.
«E quelle scarpe?» disse qualcun altro, con un tono che si spingeva sempre piu fino allo sfottò.
Abbassai lo sguardo, cercando di non essere teatrale. Vidi che indossavo delle ciabatte usurate, con quella destra che aveva una linguetta che pendeva per aria come la molla di un orologio che si sia arreso. La linguetta era mangiucchiata.
«Ah, il mio cane, sapete» dissi, e sorrisi. Dentro di me, lo stupore si univa all’imbarazzo. Ero davvero arrivato fin lì, in quella casa, con quelle scarpe tutte rotte? Com’era possibile? Finsi disinvoltura e tornai a parlare, ma era come se mi avessero visto il bluff ed io ancora cercassi di dimostrare che gran punto avessi. Mi avevano spogliato, loro eleganti, e avevano riso della mia nudità. Non potevano attaccare le mie parole, e quindi avevano usato i miei vestiti. Non capivo se l’argomento non li interessasse (allora perchè chiedermelo?) o se in qualche modo volevano che non ne uscissi bene (per quale motivo?). Fatto sta che ora, soltanto ora, il gruppo era soddisfatto. Minimizzare le scarpe o i vestiti non era servito. Non ne avevano nemmeno riso, perchè quella festa, in fondo, era dannatamente seria e non c’era posto per un sorriso vero.
Non mi vergognavo dei vestiti. Erano quello che sono, facevano parte di me. Mi infastidiva il contrasto con loro, quell’indicare, quel non stare ad ascoltare, quel trovare l’elemento secondario che potesse distrarre.
Non avevo, di nuovo, più cose da dire. Lasciai il gruppo e camminai in mezzo alle altre persone, cosciente di me stesso, cosciente della festa, cosciente di essere, ancora, fuori da tutto.


Marco Zangari © 2017

venerdì 5 maggio 2017

Doppia recensione: "Tony Pagoda e i suoi amici" di Paolo Sorrentino, "La vendetta" di Agota Kristof


I libri si accumulano e il tempo per le recensioni si restringe, quindi ho deciso oggi di mettere insieme due libri che non hanno in comune praticamente nulla, a parte il fatto che sono entrambi una raccolta di storie (non solo di racconti, soprattutto nel caso di Sorrentino). E’ un’accoppiata quantomeno curiosa, ma in fondo si possono anche abbinare, se volete cominciare con qualcosa di più leggero prima di appesantirvi definitivamente.
Il libro di Paolo Sorrentino, “Tony Pagoda e i suoi amici” (Feltrinelli), è infatti una lettura veloce, da tre fermate dell’autobus, da 10 minuti da ammazzare prima di cena. Non per sminuire il libro in sé, che è stato anche una sorpresa. Abituato al passo cinematografico di Sorrentino (che trovo spesso interessante, ma non sempre di mio gusto), sono stato piacevolmente preso dalle storie di questo libro –che sa essere molto divertente (leggere la storia dell’onorevole in Corea, per credere), così come può dar vita a riflessioni amare sull’esistenza, la vecchiaia, l’amicizia, che sembrano richiamare a volte le lunghe scene de “La Grande Bellezza”.
Il libro si divide in (pseudo)interviste a personaggi più o meno famosi, come Carmen Russo e il marito Enzo Paolo, un’affettuosa presa in giro del meglio e del peggio del nazionalpopolare; e poi le riflessioni di Tony Pagoda (che non potrete non leggere con la voce di Servillo, fidatevi), dove il tono si fa più serio, quasi lirico, e sicuramente costituiscono la parte migliore di un libro che si legge velocemente, e potrà intrattenervi quanto basta.
Diametralmente opposto è il registro di “La vendetta” (Einaudi), raccolta di racconti di Agota Kristof. Avevo amato parecchio il suo “Trilogia della città di K.” (finale escluso), ed ero curioso di vedere come se la cavava nel racconto. Le storie sono brevi, a volte brevissime come piccoli abbozzi, schizzi improvvisi, lampi improvvisi che lasciano subito lo spazio alle tenebre che si richiudono su di noi, una volta arrivati all’ultima frase. Più che minimale, una scrittura minima, che non lascia niente al caso, alla descrizione psicologica, agli aggettivi ridondanti (un po’ come asserivano di voler scrivere i due gemelli della prima parte della “Trilogia”). A prescindere dalla lunghezza, le storie della Kristof spiazzano, catturano in poche righe (cosa non semplice), e lasciano sempre qualche strascico una volta arrivati in fondo. Più di tutto, riescono a ricreare quell’atmosfera gotica, disperata, che permeava già la “Trilogia”. In un mondo senza nomi, senza connotazioni geografiche precise, senza tempo, sembra di attraversare, uno dietro l’altro, degli incubi che sul momento non sappiamo (o non vogliamo) interpretare, ma che lasciano una striscia di inquietudine dietro di essi.
Una raccolta che, anche questa, può essere letta in un’unica seduta, preferibilmente al lume di una lampada mentre fuori è notte. Fortemente consigliato ai fan della “Trilogia”.

Di Agota Kristof ho già recensito:
-“Trilogia della città di K.