domenica 28 ottobre 2007

L'Italia dimenticata e l'Italia da dimenticare

Cari abitanti dell’Hotel
L’altro giorno, forse con la mente ancora avvolta dal sapone per piatti del mio nuovo lavoro, ho fatto un grande errore. Dopo quasi due mesi che sono qui a Oz, ho letto alcune notizie sull’Italia.
Non so se vi è mai successo, ma quando vi trovate all’estero per parecchio tempo, restando lontani da telegiornali giornali e bar sport, vi viene quasi la tentazione di pensare che l’Italia non esisti. Che sia stata solo il sogno di un pazzo, o l’incubo di un sognatore. Che ci sia da qualche parte un luogo in cui imperversano mandolini, mozzarelle e mafiosi, ma che voi non ne facciate parte. Voi siete fuori. L’Italia è là, pronta a farci fare belli se vince la Coppa, o se si parla di Rinascimento o cibo o alta moda o macchine veloci. E noi facciamo di sì con la testa, fieri, come se ogni giorno indossassimo il nostro più bel Valentino e ci dirigessimo col nostro Ferrari verso il ristorante più vicino (e costoso). Tutto questo, ovviamente, parlando di Dante e Michelangelo e Leonardo e Roberto Baggio.
Oppure accetti un compromesso, e ti dici, sì, l’Italia c’è, ma tutto si è risolto. Tutta quella merda che avete visto, tutti quei coglioni nei posti sbagliati e quella gente che vale anch’essa nei posti sbagliati, non esiste più. Pum!, magia magia. Lontano dagli occhi lontano dal cuore –e anche dal fegato, visto che spesso non si può fare finta di niente. Sport nazionale, il fottersene, ma a volte la faccenda tocca anche il tuo bel culo, e allora cominci anche tu a strillare davanti al telegiornale con quella faccia vecchia –sempre la solita faccia vecchia- lì sullo schermo.


Io avevo cercato di dimenticare l’Italia, in tutta onestà. Era un atto cosciente, deliberato, necessario. Da sempre vivo la schizofrenia di far parte di un Paese e di odiarlo con tutto il cuore. Eppure, quando odi così tanto qualcosa, poi ci resti in qualche modo legato più ancora che se la amassi. Per fortuna qui in Australia nessuno, in 2 mesi, mi ha fatto ancora accenni al Padrino, alla mafia, a Berlusconi che ci frega i milioni. Non so se sono più disinformati o più discreti, ma intanto va bene così.
Però dell’Italia si parlava, e ogni volta che se ne parlava, mi si accendeva una lampadina. Mi dicevo : ricordati di dimenticare. Ne ero fiero, non in modo ottuso, ma vedevo chiaramente dove brillavamo e dove fallivamo –anche se la proporzione tra le due cose è tragicomica. Di qui pensavo all’Italia come a una povera sfortunata, ad una persona nata con tutte le migliori potenzialità ma che s’era ritrovata dei (presunti) genitori di merda, e anche dei nonni di merda. Poi aveva incontrato persone di merda, amici peggio dei nemici, e adesso era proprio col culo a terra. Non è colpa sua, poverina. Ci pensi e ti dispiace, la guardi quasi con tenerezza mentre se ne resta là, stuprata e indifferente. Addirittura, nei suoi conflitti d'identita', non e' del tutto certa di esistere, e ogni giorno questo dubbio aumenta sempre piu'.


L’altra sera volevo sapere qualcosa di lei. Forse mi illudevo, come dicevo prima, che non sapendone niente, tutto si fosse aggiustato. Ovviamente, non era così. Neanche il tempo di connettermi al sito, e già la merda tracimava dallo schermo, arrivando dappertutto. Non solo non era guarita, povera Italia, ma adesso stava pure peggio, se possibile. Politica, cronaca, economia, ce n’era per tutti. Avevo voglia di strillare di nuovo, come facevo un tempo, ma qui era notte mentre lì era giorno, e tutti dormivano. Anche in Italia, però, mi sa che dormivano.
L’unico che, cercando, mi è sembrato un poco sveglio, è stato Beppe Grillo. Eccola lì, povera Italia, che per piangere trova la spalla di uno che fa ridere. E non è tragico, questo? Eppure, tra le tante cose che dice, tra quando si fa prendere la mano e quando si parla addosso, ho trovato del buono. Ho trovato una spinta a persone che se la passano male, e si danno forza. A quelli che ancora ci credono, nonostante che il ghigno di chi sta sopra diventi sempre più ottuso e osceno. Vi invito, tra le altre, a scaricare gratuitamente, dal suo sito, "Schiavi moderni", una raccolta di testimonianze di persone che hanno e cercano lavoro nella povera Italia. Esagerato? Non credo proprio. Agghiacciante, è la parola giusta. Nessuno ve le dice, queste cose. Solo quando capita a vostra sorella, il vostro ragazzo, a voi, ve ne accorgete. E allora, siete troppo stanchi per poterci fare qualcosa.


Andate su quel sito, ma fate anche presto. Ho già letto da qui di quella bella legge che sta per arrivare. Levi-Prodi. Il primo non lo conosco, il secondo sì, purtroppo. Il secondo dimostra quanto Orwell sia sempre stato nel giusto. Uomini e animali. Comunque, se ho capito bene, passata la legge, finiti i blog. Una cosa partita per colpire una persona, così come succede spesso in Italia. Un Paese grande, e così infinitamente piccolo. E nel frattempo tutti gli altri cazzoni come me, come voi, che vogliano starsene semplicemente qui, ogni tanto, a raccontarsi qualche stronzata, per ridere o per pensare, dovranno sbaraccare. Eccola la mia Italia, l’Italia che non mi manca, l’Italia che tanto odiavo.
Più probabilmente se succederà questo, in un Paese dove il Primo Ministro è indagato e invece si fa una legge contro un comico e la libertà di pensiero, l’Hotel potrebbe diventare clandestino. Non mi va di pensare che qualcuno possa permettersi di dire cosa devo o non devo scrivere. Non mi va di chiedere il permesso a nessuno. Mi va invece di pensare che, per quanto ci provino, non possano vincere, alla fine.


Allora buon riposo, odiata povera Italia. Noi resteremo qui, nelle nostre stanze, fino a quando non sentiremo battere forte alle porte, e resteremo qui con la nostra birra in mano, fermi, anche dopo che saranno entrati. Intanto, buon Hotel. Sentitevi liberi di fare quello che vi pare, come sempre. Soprattutto, sentitevi liberi.

lunedì 22 ottobre 2007

Un momento


C’è stato un momento.
Stavo tornando dal mio precedente lavoro, quello alla multinazionale. Nove ore piene, tra capi stronzi e malditesta e ore interminabili. Avevo preso il treno, con la faccia stanca che si mischiava a tutte le altre facce stanche del vagone. Non avevo nemmeno voglia di leggere il libro che avevo. Volevo solo arrivare e dimenticare quella giornata. Avevo preso come al solito l’autobus che dalla stazione taglia in due la foresta, fino ad arrivare a casa. Intorno solo buio, e qualche luce che comincia ad accendersi. Sepolto nel mio sedile, guardavo fuori il nero che scorreva. Tirando a indovinare, in mezzo a tutto quel nulla, ho prenotato la fermata. Ho fatto la fila, ho ringraziato l’autista come si usa fare qui e sono sceso. Qui ho avuto il mio momento.
Era una calda sera di primavera e noi eravamo in una zona così vicina al centro, e llo stesso tempo tanto distante da essere quasi campagna. Allora per un secondo mi sono scosso dal mio torpore post-lavorativo e ho visto me insieme a queste persone in giacca e cravatta, con la valigetta, in tailleur, che insieme ci incamminavamo sull’erba leggera, illuminata, circondata dagli eucalipti e dall’odore più buono che si possa immaginare –l’odore che solo la Primavera può avere. Era una scena fuori dal tempo, quasi grottesca, eppure il suo ritmo oincideva perfettamente col ritmo di questa terra baciata da Dio e da lui subito dopo dimenticata –per la fortuna della terra. Per questo nella stesso paese ci sono creature dal volto di demone, e assassini su sei zampe e con zanne, insieme agli uccelli dai colori impossibili e alle ragazze piu' belle che si siano mai viste.
Così mentre uomini e donne pestavano con le loro scarpe costose l’erba fresca, ho sentito davvero che ero in Australia –in Australia, cazzo!- e che quello era un gran bel cazzo di posto dove vivere. Un posto dove la città non riesce, nemmeno volendo, ad ammazzare tutta quella maraviglia che la circonda. Un posto dove convivono tantissimi estremi, e lo fanno anche nel modo migliore. Un posto dove non ci si stupisce di trovare ancora delle cose buone.
Mi sono incamminato anch’io, ma piano. Ho lasciato che l’aria mi accarezzasse la faccia, quell’aria calda e dolce, da riempirti il palato con gusto e cancellarti via le ore passate in un ufficio. Poi ho alzato lentamente la testa, mentre le macchine passavano in quel sogno ad occhi aperti, e lì le ho viste.
Non ricordavo se a Roma le avevo mai viste così. Non ricordavo se le avevo mai viste così e basta, in una città, anche se in periferia. Le stelle brillavano come tanti buchi nell’infinito, erano una luce con un suono basso che cadeva su tutto, e benediceva tutto. Passeggiavo tra erba e stelle e dimenticavo. Non solo la giornata lavorativa, dimenticavo tutto. Il passato, qualsiasi cosa fosse, non esisteva più. Era semplice qualcosa che mi aveva portato ad essere lì, e quindi non doveva essere tutto da buttare. Qualsiasi colpa avessi avuto, qualsiasi crimine avessi mai commesso, adesso ero redento, pulito, benedetto. La mia fedina e la mia memoria erano pulite.
Per il resto mi sentivo un essere nuovo in un paese nuovo, qualcosa non creato, non definito, ma pronto ancora al colpo di scena su uno scenario grandioso e imprevedibile. Quella era la terra sognata da mio nonno, sognata da tanti, e io c’ero. Vivevo nel sogno di tanti, e anche nel mio. Le macchine passavano piano, mentre le stelle continuavano a ronzare. Australia, mi dicevo.
Un gran bel momento.

martedì 16 ottobre 2007

Factotum in Oz


"Le griglie erano pesanti. Bastava sollervarne una per stancarsi. Se si cominciava a pensare che bisognava farlo per otto ore, centinaia di volte, si lasciava perdere in partenza.
Lavori del genere stancano gli uomini. Di una stanchezza che va al di là della fatica fisica. Si dicono cose folli, brillanti. Fuori di me, imprecavo, parlavo, cantavo e sfornavo una battuta dietro l’altra. L’inferno ribolle di risate"

Charles Bukowski, "Factotum"


Comincia un po’ più tardi delle solite sei del mattino. Ho deciso di prendermela più comoda, anche in vista di quello che mi aspetta. Arrivo a Chatswood, nel mio solito grattacielo, alle dieci, con tutta calma. Saluto tutti quelli che sono rimasti. Alcuni sono già partiti, altri stanno per prendere il volo, in giro per questo continente che sta per diventare caldo caldo caldo. Siamo diventati amici, in queste settimane, complici di furti alla cucina dell’ufficio e compagni di sbronze nelle pause-pranzo (sì, abbiamo fatto anche questo, e anche spesso). Ci diciamo che ci ritroveremo, però, qui da qualche parte, nel deserto o dalle parti di Cairns, su e giù la costa Ovest, a sinistra di Byron Bay o tra Melbourne e la Tasmania. Il lavoro è stato stressante, nove ore battenti ogni giorno, ma tutto sommato sopportabile grazie anche al nostro cazzeggio di sopravvivenza e ai nostri tè ogni dieci minuti. Qualche scazzo con la capa, ma le persone si sa, sono quello che sono, e non migliorano mai nemmeno se vanno in Australia.

In giro aria da ultimo giorno. Non si sa se continueremo o se finisce qui, nemmeno la capa lo sa, o semplicemente non ce lo vuole dire. Io faccio il mio, come sempre. Mi spostano in un altro ufficio. Ribecco tutti giù, alla pausa pranzo, col solito panino e un’insolita tempesta che spazza via i tavolini. Scambio di numeri, foto, alcune ragazze straniere che vedevamo sempre ci rivolgono la parola, alla fine, anche solo per dirci ciao. Un italiano divide un tiramisù con me. Dice che non vuole tornare a casa, in Italia. Dice che ora forse va in Nuova Zelanda. Io torno su, al mio piano, per le mie ultime 3 ore di lavoro qui.

Alle 4 salto sulla sedia, prendo le mie cose e prendo il volo, con un salernitano che mi augura buona fortuna, qualche altro saluto e ancora tanto da fare. Vado giù in strada, mi dirigo verso i taxi, ne prendo uno. Provo a parlare un po’ col tassista, ma non andiamo al di là del tempo. Non è in giornata. Io invece guardo tutto con occhi curiosi. Tagliamo in due la città, passando anche sopra l’amato Harbour Bridge. Corriamo anche sopra un altro ponte, l’Anzac, e subito dopo siamo arrivati. Pago l’uomo –tutti soldi che mi verranno restituiti- e mi guardo intorno. Vedo Balmain per la prima volta. Non mi sembra questo granchè, ma il cielo è nuvoloso, e non voglio giudicare. È ancora troppo presto, così mi faccio un giro per le stradine, per conoscere un po’ la zona. Tutto sembra ronfare col ritmo tipico del primo pomeriggio. Mi siedo ad una panchina e mi leggo un po’ del mio "Giovane Holden" in inglese, che mi porto sempre appresso. L’ultimo momento di pace, ma io ancora non lo so.

Entro al ristorante alle 5 in punto, come da accordo. Saluto, stringo mani, ascolto nomi che subito dimentico nella fretta delle cose. La capa –un’altra capa- comincia a vomitare raccomandazioni, indicazioni, proibizioni. Oggi dovrò sostituire, in via eccezionale, il lavapiatti, che sembra sia sul piede di guerra sindacale. Avevo detto di sì, preparandomi al peggio.
Ovviamente, è stato ancora peggiore.
Ancora stordito, mi infilo un enorme grembiule di gomma. Ascolto metà delle cose che mi vengono dette. Non ho tempo nemmeno di scoprire dov’è il cesso, di bere un bicchiere d’acqua, niente. Mi dicono, lì ci sono i guanti. Li prendo. Mancano un paio di dita. Chiedo per altri guanti. Ci sono lì quelli usa e getta. Li prendo. Una busta di plastica farebbe più spessore. Non ti preoccupare, mi dice la capa, usane quanti ne vuoi. Detto ciò, si comincia. 6 ore di lavoro al mattino, ancora con le mie Puma ai piedi, e ora mi ritrovo a sgrassare pentole e posate unte e bisunte. La capa aveva detto un milione di cose tutte insieme, di fretta, ed era tornata ai cazzi suoi. Il tizio accanto a me, che sembra sui 35, mi spiega cosa fare. In sostanza, dopo aver lavato i piatti devo metterli in questa lavastoviglie bassa, dove l’acqua, precisa, è a un milione di gradi. Da lì li prendo e li metto su un mobile, poi li asciugo, li metto al loro posto, e da lì torno a lavare altri piatti, poi lavastoviglie, mobile, asciugatura, sistemazione, e di nuovo. Questo senza contare che in un momento di caos ci possono essere 40 piatti tutti insieme e pentole e tutto il resto. Questo senza contare bicchieri e posate, che hanno bisogno di altri trattamenti, e che poi devo portare di là, in sala, ed asciugare uno per uno –e per favore, precisa la capa, quando vai in sala ad asciugare togliti i guanti, ok?
Lavo e faccio la prima lavastoviglie. Quando finisce la apro. Il vapore caldissimo mi appanna gli occhiali –cosa che si ripeterà migliaia di volte quella sera. Nella semi-cecità afferro i piatti. Sono incandescenti. I guanti usa e getta, che ne posso usare quanti ne voglio, non servono a un cazzo. Comincio a sudare. Lo spazio e' strettissimo.

La gente comincia ad arrivare. È venerdì sera, che qui è il giorno più incasinato, e questo venerdì sarà anche più incasinato del solito. I ragazzi della cucina –loro simpatici, va detto- mi dicono che è una guerra. I piatti si accumulano in pile impossibili da smaltire. Ce n’è sempre una e una e una. L’acqua mi arriva dappertutto, sui jeans, sulle scarpe. Devo usare quella bollente per sgrassare, e la temperatura sfiora i climi tropicali. Mi arriva sulla braccia, sugli occhiali. L’orologio è proprio dietro di me, ed è una tortura. Mi obbligo a non guardarlo, ma poi commetto lo stesso l’errore. I secondi durano anni. Il tempo non passa mai. I piatti si accumulano. Più veloce, mi dicono. In sala servono piatti. Poi i bicchieri. Corro, tolgo i guanti e vado ad asciugare i bicchieri. In quel momento, mentre guardo i tavolini pieni, realizzo che ancora non ho visto nemmeno il locale –e credetemi, è un buco. Sto lavando non-stop dalle 5. Non riesco nemmeno a pensare a quanto tempo è che non mi siedo, o anche solo che mi fermo un istante a tirare il fiato. Ho troppo da fare.
Continuo a lavare, infilare nella macchina, ad asciugare. Una furia. Non c’è tempo per pensare. Il tizio sui 35 mi porta un bicchiere d’acqua per pietà, e quando la bevo mi sembra la cosa più bella del mondo.

Alle dieci in teoria il ristorante chiude, ma è venerdì e la gente non ha voglia di andar via. I piatti continuano ad arrivare. Mi servono bicchieri, mi dicono, mi servono posate. I guanti sono tutti bucati, ho acqua dappertutto. A forza di abbassarmi per mettere le cose dentro la lavastoviglie migliaia di volte mi viene un maldischiena micidiale. A forza di tirare fuori i piatti bollenti mi si bruciano tutte le punta delle dita. Perdo la sensibilità in alcune parti del corpo. Un paio di momenti le cose da lavare sono così tante, che ti viene voglia di pensare che mollare tutto e andartene tanto è impossibile farcela. Alla fine poi la prendi come una scommessa con te stesso, come una sfida, come una semplice follia e lo fai. Non devi pensare, sennò sei fottuto. Il trucco è tutto qui. Lo fai e basta. È questo che vogliono, e tu glielo dai. La differenza tra te e la lavastoviglie a un milione di gradi è che la lavastoviglie non si ferma mai, tu sì. Non ci vuole molto a capire a cosa tengono di più, lì.
Con le mani ustionate, sudato, con centinaia e centinaia di piatti, pulendo la merda che altri hanno lasciato, cominci a scivolare nella pazzia. Comincio a canticchiare, a borbottare, a parlare con gli altri o anche solo con me stesso. Penso a me stesso con quel grembiule e rido, scuotendo la testa.

Anche l’ultimo cliente va via. I piatti però non smettono di accumularsi. Trovo il tempo di parlare un po’ col tizio 35enne mentre cerchiamo di smaltire tutta quella catasta. Parliamo di Australia, donne, visti. Mi dice che ha il working-holyday. Ma quanti anni hai, chiedo.
26, risponde lui.
Lo guardo in faccia. La serata è finita.
La capa mi dà i soldi del taxi, più le mance. Nemmeno li guardo. Ho dimenticato che ero qui solo per loro. Mi dice che domani farò il cameriere di sala, ma che domenica dovrò sostiuire per l’ultima volta il lavapiatti. Domenica. 48 ore.
Esco di lì col proposito di godermele tutte. Corro verso la fermata dell’autobus –perso quello, posso solo fare l’autostop. Tutti i muscoli mi fanno male. Sono bagnato, sono sudato, sono stanco. Non mi siedo dalle 5, e ora sono le 11 passate. Nell’autobus sprofondo, mentre alcuni ubriachi si raccontano le loro storielle. Poi ancora mezzora di treno.
Alla fine, forse, a casa.

domenica 7 ottobre 2007

Stolen words

I have been waiting something that doesn’t exist
Than just a miracle: I have not stopped dreaming
Than just a miracle: I can’t help hoping
And if there is a secret : just do everything as you could see only the sun
Do everything as you could see only the sun
and not something that doesn’t exist

[I wish I could have written something like that]

Pensieri rubati

Ho aspettato a lungo qualcosa che non c'è
E miracolosamente non ho smesso di sognare
E miracolosamente non riesco a non sperare
E se c'è un segreto è fare tutto come se vedessi solo il sole
Un segreto è fare tutto come se vedessi solo il sole
E non Qualcosa che non c'è

[non scrivo di chi è perchè poi mi cacciate dal blog, mi piaceva l'idea di potere tornare ogni tanto all'hotel e leggere queste parole... tutto qui...]

lunedì 1 ottobre 2007

Un Siciliano a Sydney /1



Dopo i primi giorni, dopo aver visto l’oceano per la prima volta, ho finito per prenderci gusto e nella mia prima settimana mi sono lanciato a togliere il fiocco e far uscire dalla scatola questo sogno chiamato Australia.
Per cominciare, come ogni bravo turista a Sydney, sono andato subito alla Circular Quay, uno dei posti semplicemente più belli che vi possa mai capitare di vedere. La prima cosa che vedi appena sceso dal trenino, lì tra il mare e il cielo così colorati e tersi, è l’Opera House, che con quel suo bianco accecante, che brilla e luccica in mezzo a tutto quel blu, sembra davvero un veliero folle in mezzo all’oceano. Anche se l’avete vista e rivista in mille foto, quando siete lì dal vivo è proprio tutta un’altra cosa. Ti ricorda esattamente dove sei, e anche che cosa ci fai lì.


Subito dopo l’Opera House, proprio a sinistra, in una vicinanza che non poteva essere più scenografica, compare l’Harbour Bridge. Solo un ponte, direte voi. Nient’affatto.
L’ Harbour non è appariscente come l’Opera House, e sicuramente nelle mille foto che avete visto non ci avete prestato granchè attenzione, ma a vederlo da lì, passeggiando tra il brillare della baia e ristoranti lussuosi, lì tra le viuzze dei Rocks e le fontane e i koala di pelouche per i turisti, i finti ristoranti italiani e le pubblicità della birra e il sole, è proprio bellissimo. Non sai perché, ma ti piace. Almeno, a me ha fatto quest’effetto. È imponente senza essere colossale. È vasto ma riesce ad esserti subito familiare. Non ha nessuna pretesa, e invece te lo trovi sempre lì, in ogni foto e tramonto.
L’Harbour al tramonto è una cosa che si ricorda.


Mi sono concesso una Carlton Draught –la mia birra preferita- in un bar all’aperto proprio sotto l’Opera House. Ne ho visto le mattonelle bianche, che da vicino la fanno sembrare ad un’enorme tartaruga. Le ho baciate, un po’ sperando che funzionasse come la fontana di Trevi a Roma, un po’ come per sentirmi benedetto e finalmente cosciente di questo sogno. Ho pisciato nei suoi bagni lussuosi, ovviamente.
Poi mi sono seduto –anzi, sdraiato- nei muretti che percorrono parte della Circular Quay e lì, fra turisti giapponesi che cercano la posa perfetta e ragazze australiane in short nonostante il freddo, mi sono totalmente lasciato andare. Avevo il ponte di là, l’Opera di qua, il mare, il tramonto, qualche nuvola, e non poteva esserci niente di meglio. Una vista meravigliosa e rilassante allo stesso tempo –ed è strano pensare che tutto questo mondo fuori dal mondo esista proprio nel cuore di una città da 4 milioni di abitanti. Alle nostre spalle ci sono i mega-grattacieli della City, il centro pulsante della città, persone in giacca e cravatta che corrono e stringono mani. Qui questo non esiste. Qui ci sei solo tu, quelle due meraviglie, un paio di centinaia di turisti perlopiù asiatici, e basta. Qualche minuto lì, a far posare pigramente lo sguardo ora sul ponte, ora sull’Opera, e ti dimentichi davvero di tutto.
Una sensazione meravigliosa.
Marco