giovedì 29 dicembre 2011

Natale dentro

Avevamo tutti una famiglia, bella o brutta. Avevamo degli amici. Qualcuno di noi aveva anche un amore.
Una volta superato quel cancello non avevamo più niente, esattamente come tutti gli altri.

Natale era il periodo che ricordo meglio. C’era spesso il sole. A volte sembrava quasi primavera, ma poi l’inverno tornava bruscamente a riempire di gelo le stanze piene di polvere e i vialetti del cortile.
Partivo da casa e facevo apposta una lunga deviazione per poter vedere il mare guidando. Quella deviazione mi permetteva di tornare in quel posto, giorno dopo giorno.

Le montagne erano piene di neve ed io avevo comprato delle stelle di Natale per l’ufficio. Era stata M., la mia capa, a dirmi di comprarle. Avevo parcheggiato nel grande ipermercato non lontano dal manicomio criminale ed ero sceso, mi ero infilato tra la folla che faceva il pieno prima della Vigilia e avevo comprato le stelle di Natale. Al mio arrivo M. le aveva sistemate nella scrivania dell’ufficio dove ricevevamo le famiglie dei ricoverati. Qualche tirocinante appena arrivato li chiamava “carcerati” o “pazienti”. M. chiariva subito che non erano nessuno dei due, e lo faceva a modo suo. Un modo che i tirocinanti non dimenticavano facilmente.
Le stelle di Natale sembravano ancora più rosse, in quell’ufficio dai mobili scuri e vecchi, i tendaggi pesanti, l’odore di muffa e le sbarre alle finestre. M. voleva un tocco di Natale anche in quel posto, qualcosa che ricordasse che il tempo scorreva anche lì dove sembrava bloccato. Le famiglie entravano, parlavano, piangevano. Non le noteranno mai, pensavo.
Poi una di loro, una vecchietta col figlio ritardato rinchiuso lì da 9 mesi senza che nemmeno l’avvocato ci capisse niente, alzò la testa, fisso le stelle e disse “Sono bellissime”. Sorrise, anche.
Fu l’unico sorriso della mattina.

Non so perchè, ma ho sempre amato le decorazioni dei paesini. Le luci dei viali principali non m’interessavano. Volevo le vie di periferia dimenticate da tutti, volevo il paesino che si svuota dopo l’estate. Mi piacevano quelle lucette che brillavano nel vuoto gelido. Non c’era nessuno a guardarle tranne me. Mi davano un senso di patetico, di drammatico, di intimo.
In alcuni dei reparti del manicomio erano stati addobbati degli alberi. Vicino al primo, uno di quello che puzzava più di piscio, avevano anche montato un presepe con pastorelli Magi e tutto. C’erano le lucette colorate, come piacevano a me. Brillavano nel buio fatto di lamenti, botte, violenze, per poi spegnersi e lasciare il posto all’oscurità.

Là dentro non avevamo niente, solo noi stessi. Ci supportavamo. Era come se il mondo fuori non esistesse, e quello dentro sì.
Quando eravamo fuori, però, pensavamo il contrario.
Ci ritrovavamo nella biblioteca senza riscaldamenti. Battevamo i denti e ridevamo per ogni stupidaggine, e mentre lo facevamo sentivamo quanto era importante. E quando non ridevamo, sapevamo che i nostri problemi si erano mischiati a quelli che non erano nostri e quella sarebbe stata una giornata più lunga del solito.
Non avevamo soldi ma dividevamo tutto. Ci offrivamo caffè su caffè da una macchinetta putrida all’ingresso. Dopo gli incontri di gruppo con i ricoverati siedevamo per ore nella panchina esterna a parlare di tutto, rinviando il momento in cui saremmo dovuti tornare nel mondo di fuori.
Prima delle feste niente auguri, niente baci forzati. Ci salutammo normalmente. Queste erano cose da mondo di fuori.
Lì dentro ci bastava un’occhiata.

Eravamo tanti, e tanti ancora ne sarebbero arrivati. Qualcuno sarebbe anche rimasto. I. ci sapeva fare con i parenti, G. si faceva risucchiare dalle storie, si perdeva negli occhi dei ricoverati. G.M. costeggiava i limiti suoi e degli altri con umanità.
M. guardava tutto questo come un film ripetuto, ma non deviava mai l’attenzione. Era lei che ci riportava nel mondo di fuori un attimo prima che ci perdessimo.
Con N. dovevamo fare il nostro primo giro serale tra i vialetti. Era quando tutti i reparti aprivano e si chiacchierava di calcio sotto gli alberi spennati, fingendo che dentro fosse fuori. Noi eravamo curiosi e anche eccitati perchè il giorno prima avevamo assistito all’uscita di V. –e da quelle parti questo è un evento che non accade spesso. Non capita quasi mai, anzi.
Restammo in manicomio finchè il buio penetrò nella biblioteca insieme al freddo di dicembre, e quando fu l’ora ci avviammo verso l’entrata, ma la guardia non ci fece passare. Emergenza, disse. Uno dei ricoverati aveva avuto un infarto. L., uno dei più anziani. Stava lì da quasi vent’anni per un reato che non era nemmeno un reato. Da quasi vent’anni passava il Natale là dentro. Morire a Natale sembrava molto facile, là dentro.

I ricoverati raccontavano alcune storie sul Natale, ma preferivano farlo a tu per tu e non insieme al gruppo. Erano una piccola debolezza che in posti come quello, con le sbarre e le guardie coi manganelli che fanno male, diventavano un lusso. Noi ascoltavamo le loro storie, storie di passati fagocitati da quel terribile presente, storie di momenti felici, storie magari inventate, perchè tutti avevano bisogno di una casa a Natale, anche quelli che non l’avevano mai avuta.
Natale per molti voleva dire poco. Alcuni se ne sbattevano. Altri erano eccitati per la messa, il pranzo, per la visita dei volontari. Una giornata diversa in mezzo ad altre tutte disgustosamente uguali.
Altri pensavano che erano lì dentro. Che non sarebbero stati a casa. Che a casa non sapevano nemmeno quando (o se) ci avrebbero rimesso piede.
Che la sera del 24 era un’altra sera da far passare.

Mi capitò di lavorare anche il 24. Avevo il mio laboratorio di pittura. La direzione e le guardie, nella loro magnanimità, concedevano ad uno dei ricoverati, un vecchio pittore, di poter dipingere per qualche ora alla settimana. Ci davano una stanza sporca e gelata con la porta socchiusa, e un cacatoio sporco. Pennelli e pittura erano a carico del vecchio.
Io dovevo aiutarlo, ma in realtà il vecchio andava come un treno anche senza di me. Era un artista, di quelli veri. Lo fissavo affascinato mentre ascoltavo le sue ciarle e i suoi lamenti e i mille discorsi da finto scorbutico. Quando le medicine facevano effetto, alternava la calma agli scoppi di collera.Quando facevano TROPPO effetto, era intontito fino all’ebetismo.
Aveva i suoi problemi, come tanti. Mi raccontò della sua famiglia, mi disse dei suoi vagabondaggi sulla Rive Gauche ai tempi d’oro, di quando si pagava da bere coi suoi quadri.
In quel periodo provavo a diventare uno scrittore, e vedere uno come il vecchio rinchiuso lì dentro mi faceva pensare a tante cose. Come avrei reagito io, se mi avessero tolto anche quello?
M. dirigeva il laboratorio di pittura prima di me. Aveva fatto in modo che il vecchio passasse dai toni scuri dei primi quadri a quelli più colorati dei recenti. Ancora una volta, M. sapeva il fatto suo. Quei quadri pieni di cielo, turbanti, fiori e ballerine gli miglioravano l’umore enormenente. Aveva quasi cominciato ad affezionarsi a me e M. Ci aveva promesso due quadri tra i più belli –che poi qualcuno rubò da una stanza nella quale solo gli agenti avevano accesso.
Quel giorno non aveva voglia di dipingere, però. Era di pessimo umore. Si fece offrire un caffè, cominciò a inveire contro le guardie, i ricoverati, il mondo intero. Non riuscivo a tranquillizzarlo. Non era successo niente, non aveva avuto liti. Le medicine erano le stesse. Non capivo.
Andò a pisciare nel cacatoio con la porta aperta. Sentii tutta la pisciata. Faceva freddo. Un piccione sbattè contro le sbarre. Il vecchio si richiuse la patta e si avvicinò alle sbarre. Guardava il presepe di sotto. Non disse niente per un pezzo, poi sputò.
Andò al tavolo e gettò i colori per terra.
Per quel giorno avevamo finito.
Lo riportai nella sua cella, lo salutai. Non mi rispose. Passai dal metal detector, ripresi i miei effetti personali, andai verso il cancello. Mi sentivo solo.
Aprii il cancello. Nel mondo di fuori era la Vigilia. Salii in macchina, misi in moto e partii.

domenica 25 dicembre 2011

les II

mercoledì 21 dicembre 2011

Come un'alba

L'alba è di un blu anomalo, un po' elettrico ma neanche tanto, cola sulla parete, entra dalla porta del terrazzo. Quest'alba blu dissipa i miei pensieri, dalle persiane entra improvvisamente un rivolo di luce bianca come fosse l'ambasciatore del giorno nascente. Sotto le coperte medito sul panino con marmellata di fragole che ho divorato in un'anelito di sopravvivenza. Dopo una notte insonne.
Prima odiavo le mie notti bianche. No, non le ho mai odiate. Ma da qualche tempo hanno un sapore, una fragranza diversa. Questa sa di Kerouac, di Beat ma d'accordo, è pure una mia fissazione. Ecco che blu era, blu Kerouac, blu anni '50 sulla strada, blu cielo che risveglia dolcemente su una spiaggia come se a far danzare quell'orchestra fosse un coreografo di Hollywood, accanto a te il fuoco spento della sera prima e sopra la padella con i fagioli in scatola consumati, e il mare e Dio sopra. Chi mi coglie la licenza poetica? Ecco il colore dell'alba, visto dalla mia tana oscura sotto le coperte. E pensare che mi sono addirittura alzato in questa notte folle; e non per pisciare, non solo cazzo! Anche per mangiare e trovarmi di fronte quel blu folle come la notte. Mi guardava insolente provocante come la mia amante, in un certo senso me la ricordava, le cose belle si somigliano tutte o forse è l'armonia che genera il loro passaggio nella nostra anima a essere analoga o forse addirittura c'è un'armonia cosmica, un'essenza comune alla bellezza. Non si spiega altrimenti la nostra predilezione per essa. La bellezza dev'essere felicità, perché l'uomo ricerca con eguale foga soltanto la felicità e la bellezza, saranno la stessa cosa, o forse la bellezza è una sottocategoria. Comunque io posso assaporarla, e gioisco della mia fortuna. In realtà io ne sono soltanto consapevole. Tutti potrebbero, invece ci riescono solo i barboni e qualche insonne che vede il colore dell'alba mentre tenta di rimorchiarlo. Non è così male.
Coricarsi, voler guardare un film ed esserne impediti da un cerchio che circola chiuso in se stesso, scaricarlo e attendere e scoprire nel frattempo che devi cercare più attentamente e che hai paura di macchiare la dignità della tua ragazza se ti lasci fare una pompa o una sana sega spagnola, beh amici esiste ancora chi la pensa così. Ma lo guariremo, certe discussioni aprono gli occhi, la solita storia della consapevolezza.
Se la caverna di Platone fosse stata una figa la filosofia sarebbe morta lì dentro.
E insomma, due ore a parlare di sesso e imparare perché a insegnare il sesso possono essere solo e soltanto le donne. E sono le 3 di notte, nessuna ombra di Morfeo che probabilmente ha trovato un foro segreto della larghezza nominale di 56 mm nella sua lira e ne sta scaltramente approfittando, e inizio quindi a guardare American beauty, gran bel film, è nella lista del Vate Zango quindi tanto male non dev'essere ed effettivamente due cose mi colpiscono, le splendide meravigliose tette di Jane (è incredibile quante tette simili a quelle della mia amata sto incontrando, e quanto ogni paio di tette metta in risalto l'unicità di quei primissimi istanti di vita dell'universo, i seni hanno sempre qualcosa di materno anche quando sono l'inizio di tutto) e poi se vogliamo anche il senso generale del film. Però c'ero già arrivato a tutte quelle cose, non mi hai detto nulla di nuovo Kevin Spacey.
L'uomo è un paradosso. Vive tra condanne e infinito. Percepisce ovunque l'infinito. Prendete la morte. Io non riesco a capire cosa di noi muore. Qualcosa muore, d'accordo, muore l'insieme, la nostra zoè, forse trapassa la psychè, e il bios? Lui continua beato a esistere, solo obbedisce alla regola aurea dell'universo per cui nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Non un solo atomo del nostro corpo andrà perduto. Il nostro corpo, la linea della nostra esistenza, parallela coincidente a quella della nostra vita (che tuttavia può essere assente) non subisce alcuna variazione quantitativa, solo strutturale e nemmeno nella sua quantistica, ma semplicemente a livello molecolare. Cibo, energia, altra vita, è assurdo trovare una coincidenza perfetta tra reincarnazione e monoteismo all'occidentale. Eppure è così. Qualunque sia il destino della nostra anima, della nostra zoè-psychè, la vita eterna noi la lasciamo nel corpo, idolo dell'apparenza funebre, colui al quale si consegnano ricordi felici turbandoli per sempre, insieme ai sogni di tanti uomini tristi. Quell'orribile ghigno che sora morte ci posa in volto diventa la nostra ultima, definitiva parola, e i nostri atomi ci provano a urlarci NO NON E' COSI' RIFLETTETE SUL SENSO PROFONDO DELLA MORTE E NON SU QUESTO CADAVERE SCHIFOSO!
Ma noi non ascoltiamo, ciò che vediamo è l'apparenza più illusoria della morte. Quella di un putrido orrendo cadavere ghignante.
Non capiamo che la morte legittima la nostra stessa vita, che senza essa non avrebbe senso. La vita è un'incognita compresa tra l'amore nel suo stato più alto di amor di sè e percezione dell'altro come limite al nostro ego, e la morte limite alla nostra esistenza. Il gioco del quadrilatero. La vita trova ragion d'essere nell'altro, nella persona che sarà capace di rappresentare la carezza-limite all'infinita possibilità di espansione del tuo ego, e allora due esseri che racchiudono l'infinito formeranno un finito perfetto, in loro rifletterà la Sacra Luce e non dovranno far altro che percepirsi per vivere. La morte è il limite della nostra esistenza, i carati del nostro ammasso informe di luce, quello che comunemente definiamo corpo. Provate a far saltare uno solo di questi elementi e vi smarrirete nel vostro stesso infinito. Chissà quante notti ancora ci vorranno prima che io riesca a collocare Dio in questo casino infinito.
La morte è un'opportunità.
Il mondo è dentro di noi.
Ecco perché la verità non può essere fissata, perché essa è divenire e nessuna fotocamera riuscirà a fissare il divenire. Non esiste il frammento, il fotogramma. Tutto è infinitamente divisibile fino al suo cerchio magico, alla sua stringa di luce.
L'universo è il circolo ermeneutico della luce.
Neanche il tempo di finire le mie elucubrazioni che suona la sveglia, e tutto diventa giocoso, mio fratello si sveglia e deve prepararsi per andare a scuola, io mangio una Kinder Delice e pane con marmellata di fragole, prima vedo la sensuale alba blu beat, poi torno a letto e sento il bisogno di scrivere.
A fare da sfondo a tutto questo, il mio limite, chiaro e definito.
A proposito, le ho scritto qualcosa, una poesia o non so bene. Ora la ricopio.

6:04 21/12/2011
A: Elena Berliner

Il silenzio è come un abito di bellezza che tu indossi
sembra di carta trasparente
è così tanta bellezza che dapprima cerco in tutti i modi
in tutte le carezze
di averla,
ma è come voler possedere l'oceano
e allora capisco che non posso possedere l'oceano
che devo nuotarci
galleggiare
lasciarmi trasportare dalle correnti.
La tua bellezza è un oceano,
è nudità
silenzio
che scivola come raggi di luna sul tuo viso,
un lenzuolo innocente,
e il tuo viso è l'anima della bellezza fatta carne per la nuova ed eterna alleanza, per salvare, per
salvarmi.
Tu
bellezza salvifica
che ho il terrore di violare
tu sei l'armonia con la bellezza del cosmo
simbolo e significato,
specchio
ed essenza.
Smetterò di scrivere di te quando Dio o chi per lui strapperà dalla terra e dall'universo intero le radici del mio amore per te
e se questo non basterà a renderti felice
non vorrò altro che donarti Dio stesso
disintegrarmi
e amarti perfettamente
quando la mia imperfezione non basterà più.
Sino ad allora, ego è tutto ciò che ho da offrirti.
Ma risplenderai di luce accecante
divina
d'amore puro
come l'eterna promessa dipinta nel tuo sguardo innocente.

Te lo prometto.

lunedì 5 dicembre 2011

Il rapporto morboso tra il caso e la bestemmia: rewind

Ok. Ci può stare che la macchina sia croce e delizia delle tue giornate, serate, cazzo, roba così. Forse ci può anche stare che sia la tua fedele compagna di assimilazione, quando l'eroina ricciola schiavizza le tue arterie catalizzata dagli Opeth, quando pensi all'ultima cilecca e non sai risponderti, quando invece ti senti un Dio in terra. I nervi mi fanno scrivere come un ragazzino che non ha un cazzo da fare. D'altra parte potrei anche essere tale.
C'è qualcosa di odioso nella congiuntura di legamenti rotti, batterie scariche e mai un euro in tasca.
C'è qualcosa di meraviglioso nel contatto pressoché assoluto dei nostri corpi sempre più sudati e ansimanti.
Un involucro di seta e piacere
ci avvolge
come bachi.
L'auto ingoia l'asfalto, mi allontana, non vedo che il tuo corpo danzante.
Dio mio è tutto ciò che riesco a pensare.
La rotazione, le leggi della fisica e della statistica. Ma chi sarebbe talmente dissennato da rinunciare ai tuoi morbidi baci?
Non c'è nulla da dire. Nulla da dire adesso, in questo stato. Ma qui, in questa fottutissima dimensione degli spigoli di mobile contro il tuo alluce, sei come la luna di stasera, luminosa quasi a volermi rivelare la verità.
E dietro la tua nudità, quell'angolo di pelle oscuro che lascia intuire l'infinito.
Il tuo respiro è vita, anche il mio è vita, ma io non so respirare.
Una volta sapevo scrivere, adesso vedo solo un nastro che fissa fotogrammi, succedersi e succedersi. E' merito di Marco. Il mio oriente, la mia Sheerazad.
Il mio oriente, la mia Sheerazad.
La macchina si accende, e solo grazie al lavoro di una ragazza con un tatuaggio sopra un culo stratosferico, che alla mia cara bodhidarma sembra troppo grosso.
Se lo dice lei..

venerdì 2 dicembre 2011

introspettiva....

cinque giorni a casa,
in vista di un luuuungo ritiro pre-esame a Palermo....
lontana da qualunque impegno....
ascolto liga in ogni sua versione....
penso di averne proprio bisogno....
tipo sto passando dal Liga del 1990 a quello del 2011
non scartando assolutamente niente...
live, in studio, acustico, rock... tutto...

"nemmeno un gesto così, tanto per, così!"
("Ci sei sempre stata" - Arrivederci, Mostro!" - Ligabue)

mi ha sempre colpito sta frase...
niente di non previsto, niente di buttato lì, così.. quasi senza motivo... c'è sempre un motivo anche sconosciuto...

sono gelata... gelida... e non è solo una questione di pelle...
sembra essere cambiato tutto in pochi giorni...
o forse non è cambiato proprio nulla negli utlimi due anni...

ho da studiare una materia orribile, noiosissima,
ho da incontrare qualcuno, forse me stessa...
ho da salutare qualcuno, idem come sopra...
ho forse bisogno di star lontana da me stessa...
ho bisogno di un viaggio mentale...
no, no, non un sogno...
un viaggio mentale... attraversare posti, nel silenzio del mio animo...
ho decisamente bisogno dic omprendere tutto quello che mi gira intorno...
e ho bisogno di capire il "centro di questo vortice"....

...incredibilmente...
...magnificamente...
...inverosimilmente...
...splendidamente...
...straordinariamente...
...illogicamente...
...inconcepibilmente...   io...

"c'è chi corre e chi fa correre, e c'è chi non lo sa!"
(Quando tocca a te - Sopravvissuti e sopravviventi - Ligabue)

tenete botta 

Sogno albe di New York

Sogno albe di New York
dai muri grigi, i cassonetti pieni
grida silenziose che attraversano le
strade deserte
Sogno fogli di poesie portati dal
vento
appiccicati contro i semafori
danzanti sui tombini
Sogno mani di grattacieli
che dilaniano i miei sogni
Sogno di sussurrare cose piccole &
sagge & perfette alle
orecchie del mondo
tra le gambe di
sconosciute
Sogno sassofoni drogati
in mezzo ad un coro di perche’
Sogno di tutto buio
e solo una stanzetta illuminata
lassu’, da sola, lassu’
ed un altro Cristo che crea &
muore
Sogno di poterti consegnare le mie
memorie prima di schiattare
Sogno begonie & aurore boreali
affettatrici & macchine fuori produzione
abbracci secchi & dolci
e Sogno di incontrarmi
per caso
in questa Babele abbandonata
e riconoscermi, per un
attimo,
prima di
continuare
a
sparire.

Marco Zangari © 2011