mercoledì 30 maggio 2012

I poeti non dormono mai, ma in compenso muoiono spesso



“I poeti non dormono mai, ma in compenso muoiono spesso” Alda Merini.

Quando sei in lotta continua contro il mondo, ogni tanto pensi che, per quanto impegno tu ci metta, per quanta rabbia, quanta voglia, quanta forza tu riesca a sprigionare, l’avversario é e sará sempre piú forte. Non si puó che perdere, anche se forse puoi ritardare la faccenda.

Ho sempre ricercato il Difficile, mi sono eccitato pensando all’Impossibile. La vita mi sembrava essere sempre lí dove non ero io.

Ho passato alcune notti intense, da qualche parte. Ne ho ricordo nei capelli bianchi, in alcuni versi, nei tic che non conosco. Ho sempre dovuto andare incontro all’Errore, per capire che era tale –e anche allora, sapevo che sarebbe successo ancora. Dovevo sbagliare per capire. Dovevo capire, per essere libero di sbagliare ancora. Non ho mai saputo che lezioni trarne. Mi sono alzato, in eterno, prima del suono della campanella.

La ragazza dell’autobus era bella di una bellezza banale, quasi noiosa. Rassicurante come una stufa in una sera di febbraio, o un fazzoletto dopo una sega.

Dai 20 ai 30 uomini e donne parlano sempre di amore –amori sbagliati, fuori orario e fuoritempo, amori andati male, amori che dureranno per sempre, amori puri dove si fa l’amore e si condivide tutto.
Dai 30 ai 40 uomini e donne parlano di tradimenti, di come la prenderebbero se succedesse loro, cosa farebbero se si trovassero nella situazione. Si comincia a fare sesso. L’amore si é trasformato? O siamo piú consapevoli delle nostre zone d’ombra, dei nostri appetiti, di quei pacchetti completi che abbiamo ingoiato e dato per scontato perché suonavano bene?

”Qual’é il consiglio che darebbe ai giovani scrittori?”
“Consiglierei loro di bere, scopare e fumare un sacco di sigarette”
“E a quelli piú anziani?”
“Se sono ancora al mondo, non hanno piú bisogno di consigli”
Charles Bukowski

Hemingway sapeva che essere uomini é il mestiere piú difficile. Altri lo sono stati prima di te, ma questo non cambia le cose. Non ci sono coordinate, solo principi confusi che cambiano e che non sono mai gli stessi.
In definitiva tutto quello che serve é riuscire a guardarsi allo specchio la mattina, mettere insieme i pezzi del Sé, quello che si é fatto, quello che si vuole fare, chiudere in un pugno tutte le strade percorse e gli itinerari ancora non segnati, le voci e le vite di chi abbiamo incrociato. Andare incontro ad un serissimo esame di quello che si é, lontani dagli occhi del mondo.
E alla fine di tutto, farsi una sonora risata prima di risolvere la faccenda con un vaffanculo ed una lavata di denti.

Vedere un cane con la testa fuori dal finestrino, la lingua penzoloni, i peli mossi dal vento, e pensare alla Libertá.

Rispetto le regole che gli altri mi hanno imposto e si sono fatti imporre, faccio la fila, svolto quando posso. Poi al semaforo fermo il mio motorino, 125 cc, accanto ad un Suv di quelli che fanno mezzo chilometro con due litri e occupano due parcheggi alla volta. Il conducente mi guarda e anche se é rosso avanza un po’ di piú, e io capisco. Ci siamo dati tutte queste regole, senza cambiare mai di una virgola. Appago la sua piccola voglia di vincere. Probabilmente sará l’unico suo momento della giornata, e lo lascio partire per primo. Tutti devono vincere, prima o poi. Io lo faccio rallentando e arrivando al lavoro col mio passo, cantando quando capita.

Ho troppi conti in sospeso per negarmi il lusso dell’egoismo.

Non ho mai saputo gestirmi il tempo, né so incanalare le mie emozioni. Quando straripo, bisogna starmi lontano. Ma non sono efficiente come calcolatore, gli stimoli mi sovrastano, si accumulano e finiscono per annullarsi a vicenda.
Cosí leggo di quel padre in Italia che aveva perso il lavoro e si é gettato dal balcone con i due figli, tutti e due poco piú che neonati, e sono pietrificato. Sono pietrificato dal fatto che l’orrore che dovrebbe impadronirsi di me, in realtá non c’é –e non perché io sia particolarmente cinico, ma perché SIAMO ABITUATI. É un titolo di giornale dopotutto, che leggiamo a colazione tra una schermata di Facebook e una di Hotmail, e poi ce ne dimentichiamo. E mentre noi siamo andati avanti, quelle persone, quei bambini, sono andati per sempre. Ma nel 2012 possiamo decidere dove indirizzare le nostre emozioni. Possiamo commentare una di queste notizie in ufficio e subito dopo chiedere cosa si fa per pranzo –esattamente come fanno i chirurghi in sala operatoria col paziente ancora aperto sul tavolo. Possiamo uscire e andare al cinema e scegliere di pagare per vedere qualcuno che ci suggerisce per cosa emozionarci, cosa davvero ci importa, anche se non é vero, e nemmeno sembra vero.
Condividiamo su Facebook, ci rattristiamo per 5 secondi, ci chiediamo dove stiamo andando a finire. Poi voltiamo pagina.

Come fa la gente a leggere tutti i libri che vorrebbe, a studiare quello che vorrebbe, a vedere tutti i luoghi, a conoscere tutta la gente, a bere tutti i tipi di birra che vorrebbe? Dove va a finire il nostro Tempo? Cosa ne é della nostra Anima –qualsiasi cosa sia- quando torni a casa con la voglia di ubriacarti e lasciar perdere?

Sulla facciata di un istituto di medicina cinese: “Non dirci quello che hai. Noi lo scopriremo e te lo diremo”
Beh, buona fortuna.

Chicco era il gatto nero di mia nonna. Dormiva sempre sul divano con lei, vicino ai suoi piedi. Non era molto sveglio, ma dormire con lei le piaceva.
La notte che lei morí, lui era lí sul divano ad aspettarla. Avevo appena ricevuto la telefonata dall’ospedale, era notte fonda. Lui stava lí a guardarmi. Avrei voluto spiegargli, ma non c’era niente da dire. E non solo perché lui era un gatto e io no.

“I poeti vogliono solo essere lasciati in pace” Marco Zangari


Intuisco il seguito

La vita scorre lenta tra i rumori dei broadcast e Nicole Kidman che dice di voler scopare, è bella lei, ho un rifugio nel corpo statuario della mia lei che nulla ha da invidiarle e così mi sento fortunato, una scomoda notte in bilico tra sonno e veglia, quella merdosa stantia veglia che porta poche cose buone e troppi pensieri, mentre va a puttane la mia idea di 15 giorni a Berlino e maledico Cristo che in fondo non c'entra nulla, ho voglia del suo abbraccio, i film mi rendono nostalgico e i broadcast mi mettono tristezza, quasi paura ma li affronto e affronto la nuova Berlino e affronto a muso duro me stesso, quella pallida molle forma depositata sul letto, rischio di assorbire anche la mia voglia di combattermi, mi intorpidisco è una dura lotta quella contro se stessi e dubito ne uscirò vincitore ma anche un pareggio andrebbe benissimo dai, sono disposto ad accontentarmi, voglio vivere con lei e volevo un'estate pigra, pigra non è il termine esatto, diciamo pronta e invece devo risvegliarmi e non è facile anche se potrebbe farmi bene, sembrano ninne nanne elettroniche ma le parole insensate in me oppongono resistenza. Una guerra civile, non si può definire altrimenti. Il mio io scisso in due schieramenti che non sono in grado nemmeno di creare una metafora, che si agganciano inevitabilmente alla monotona parola "bello/a" e superlativi, triste analogia in comune, per il resto sono in guerra, una guerra sterile che mi inaridisce, chi avrà ragione e perchè non posso avere entrambi in una quieta alternanza bipartitica? Rassegnato, ma poi mi risveglio, dopodichè mi rassegno ancora, poi si vedrà, ma DEVO ma l'elastico non si spezzerà e io continuerò a decodificare emozioni fino alle vene ma dalla corteccia cerebrale nè dalle mie parole uscira una degna qualità di resa e non posso che accettarlo, per il momento. 

Prendi in mano la tua vita o
lasciati condurre per mano dalla tua vita
oh se provi a scoparla
non ti piacerà
devi passare sul suo
corpo
non della vita
del suo tramite
tramite fantasie che
inevitabilmente
si stagliano sul suo etereo sentimento
 che trapassa il bosco
come rugiada combustibile
brucia cosa poi cosa
dovrebbe bruciare brucerà
ciò che manca
            ciò che è mancato
                            ciò che mancherà
e non ci sarà che
un lieto fine ad attenderti
cos'altro pretendi?
Pretendi di prendere in mano la tua vita.
ma in fondo
   ne vale la pena?




lunedì 28 maggio 2012

Where did you sleep last night?


Eccoci di nuovo qui, all’ hotel morgana, al primo piano, nella mia stanza 117, sulla poltroncina che odora di spezia, tabacco, muffa, ma se avete un buon olfatto potete sentire anche il profumo di donna, si una in particolare, ovviamente, sempre Lei.
Si Lei; perché nella vita si dice che si deve andare avanti, "the show must go on!"
Ed è vero cazzo ma quanto è difficile farlo in certi casi.
La vita è corta... è breve... fugge... 
Vaffanculo! I luoghi comuni li conosciamo tutti e fare i maestri con le vite degli altri siamo tutti bravissimi.
Me per primo, mica sono immune da questa cazzo di mania del “so tutto io!”
Poi invece ti ritrovi una mattina, in un letto, sfatto, con i confini delle cose distorti dal fumo di una canna, con un maledetto martellare in testa ad ogni battito del cuore e non riconosci l’odore che hai accanto a te.
O meglio, sai che quell’odore non è quello che vuoi e ad un certo punto tutto si illumina. 
Come un coltello che lacera una tenda scura con la quale ti sei nascosto finora.
Come se fosse un bozzolo di farfalla. 
Ma in  realtà sei ancora bruco, anzi sono più bruco che mai e non voglio diventare farfalla.
In quel momento, ti accorgi che ti sei preso per bene per il culo, che in realtà non è mai andata via dalla tua testa, è sempre presente in ogni singola parte del tuo corpo.
O forse, anzi sicuramente, sono io ad essere rimasto dov’ero mentre Lei andava per la sua strada.
Allora ti guardi intorno con occhi diversi, malinconici.
Riconosci appena i confini anche se rischi che le lacrime appannino tutto.
Capisci che chi hai accanto non c’entra niente né con te né con lei.
La guardi dispiaciuto perché ti senti di averla usata, o forse no, del resto tu sei stato chiaro...  poco importa comunque.
Quello che importa adesso è che hai capito che sei solo un coglione che si è fatto prendere per il culo da se stesso.
Ti giri dall’altro lato, chiudi gli occhi, e speri che almeno nei tuoi sogni lei sia davvero li con te e che il resto sia solo un brutto incubo.
Ma dove cazzo ho dormito la scorsa notte? 
http://www.youtube.com/watch?v=mcXYz0gtJeM 

Re:

Chissà se questo è il posto giusto, per scrivere. Chissa se poi ne esiste uno. In fondo ogni posto è buono e, anche se questo non è il tuo indirizzo email, so che magari mi leggerai.

La notizia del tuo arrivo ha fatto scattare un timer. Magari non pensi di essere tanto determinante nella mia vita, ma in fondo, da qualche tempo, una volta l'anno io so che magari passi di qui e ci facciamo qualche chiacchiera fra tante birre. La verità è che sei una parte di me, una di quelle che preferisco.

Leggo la data del tuo passaggio e penso "cazzo, la mia vita si fosse mossa con tipo 2 mesi di anticipo a questo punto avrei potuto davvero ospitarlo da me". Saresti stato indubbiamente più scomodo, saremmo crepati di caldo, ma avrebbe avuto tutto un altro sapore. Però mi guardo dietro e vedo, al di là del romanzo di formazione a cui accennavi tu, che negli ultimi due anni ho macinato strada sufficiente a concedermi, oggi, di essere fiero di me per almeno 5 minuti.

L'altra sera pizza fuori con alcune persone, con un famoso assenteista che tu puoi immaginare chi fosse. Puoi anche immaginare quanto poco mi abbia sorpreso la sua assenza e ancora di più quanta tristezza mi abbia fatto notare invece che, negli ultimi due anni, alcune cose fallate non si siano aggiustate nemmeno un pochino. Ad ogni modo c'era questa cena e ti ho pensato. Hai presente quando a volte la conversazione - tra semi sconosciuti che si stanno semi conoscendo - vira di colpo sull'artistico? Bè il più delle volte questa cosa non accade, ma l'altra sera è successa. Una ragazza ha detto di essere una scrittrice. Io mi sono meravigliato perché poco prima aveva affermato, con la stessa certezza, che lavorava come segretaria in uno studio legale. Allora ho pensato che magari avevo capito male. Lo ha detto con una tale fierezza che mi ha incuriosito tantissimo. Un ragazzo, affascinato dall'argomento, le ha chiesto cosa scrivesse, ed è venuto fuori che lei ha pubblicato una raccolta di racconti, e poi forse qualche altro racconto qua e là. Poi - maledetto il tipo che ha innescato la sua parlantina - è venuto fuori che sapeva tutto sul mercato editoriale, sul fatto che in realtà i racconti tirano tantissimo, sul fatto che tante case editrici fanno a gara e a volte a botte tra loro pur di aggiudicarsi raccolte varie etc. E pensare che per i primi 45 minuti aveva parlato pochissimo.
Poi c'è stato un effetto a catena, e molti altri artisti nascosti - insospettati scrittori, pittori. scultori etc seduti al nostro tavolo - hanno cominciato ad alzare le mani.
Ho seriamente avuto paura che il morbo si estendesse a tutta la sala.

Se fossi stato a quel tavolo, alle prime parole della ragazza ci saremmo lanciati uno sguardo d'intesa. Poi magari le avremmo chiesto di spiegarci meglio, di raccontarci tutto di lei e del suo talento. Anche se non c'eri, comunque, quell'occhiata d'intesa mi è sembrata di scambiarla ugualmente. Sarà forse per quella parte di me, calcata ad immagine del tuo spirito, che mi porto sempre dietro specie se so che andrò a fare due passi, a respirare un attimo, per poi tornare a casa a piedi nel cuore della notte.

A presto.

lunedì 21 maggio 2012

La notte in cui cominciammo a perdere




Mercoledi’ saranno trascorsi 20 anni esatti dall’attentato a Giovanni Falcone e la sua scorta. Sono sicuro che per il ventennale tutti tireranno fuori i fazzoletti e qualche frase retorica, un piccolo ricordo, una banalita’ loffia e due e tre promesse dal sapore di cazzata che si perderanno nel vuoto dei prossimi 20 anni.
Immagino che le foto di Falcone siano dappertutto, trasformate in gadget e magliette e foto ricordo –che suonano un po’ strane, visto che a noi italiani non piace ricordare. O meglio, ci piace ricordare a modo nostro.
Non sono un fan degli anniversari. Primo, non me li ricordo mai, e secondo, non ho ancora ben capito a cosa servano. Eppure questo ventennale mi da’ un’idea atroce e potente del tempo che e’ passato, molto piu’ di altre morti, altri anniversari, altri ricordi. Non so bene come mai. Forse perche’, nel caso di Falcone, ti rendi conto di quanto tempo puo’ passare senza che niente cambi davvero. Di come te lo possano cambiare quel tempo, come te lo possano deviare. Come te lo possano rubare, in ultima analisi, e tu che ancora cerchi di capire come hanno fatto.

Potevano essere diversi questi 20 anni. Ora possiamo solo guardare a quello che non e’ stato.
20 anni fa ero nella mia stanzetta di Big Sur, calda serata di maggio, e avevo solo qualche vaga idea di chi fosse questo Falcone. Per me, appena 12enne, era solo uno dei tanti nomi che senti al telegiornale, tra un pasto e l’altro. Poi quel giorno i telegiornali impazzirono e quel nome venne ripetuto mille volte.
Io ne sapevo poco, dico la verita’. Sapevo quello che dovevo sapere, e tanto mi bastava. Mi chiedo quanti sono rimasti cosi’, in questi 20 anni.

Ricordo una cosa di quella sera, una sensazione molto vaga: quella di fare parte, per la prima volta, di un’isola piena di ombre. Il sole lo vedevamo tutti, ogni giorno –e quel 23 maggio sembrava gia’ estate. Ma delle ombre non sapevo che quello che vedevo in tv. Poi la tv si era aperta ed era diventata la nostra realta’, squarciata dal tritolo, dai commenti, dai pianti in diretta, dalle edizioni straordinarie.

Bene, ho pensato, ci siamo tutti su questa barca. Non e’ solo un tizio lontano saltato per aria. Questa cosa, lo sentivo, ci riguardava tutti, in qualche modo che non riguardava solo il ’92 o la lotta alla mafia. C’era di mezzo l’Isola che ride e uccide, che ti fa innamorare ma non perdona. Di qualcosa di pulito, che ormai non lo era piu’.
Qualcosa cominciava a finire, quella sera. Nell’aria la minaccia era che l’avremmo pagata cara per quello che era successo. Avremmo smesso di sentirci cosi’ fortunati, cosi’ immortali. Qualcuno avrebbe sempre messo un ostacolo ai nostri sogni. O con noi o contro di noi, ci dicevano quella sera.

I conti sarebbero arrivati, in quell’Isola dalla quale a volte si deve partire, senza poi essere cosi’ sicuri che esista un posto al quale tornare. Quei conti li avrebbero pagati sempre quelli sbagliati. Gli altri, per 20 anni sono rimasti dov’erano.
Da quella sera avremmo continuato a provarci e a farci il culo per questa terra perche’ qualcosa ci univa, come un trauma in comune che non avremmo mai superato.
C’erano delle lezioni, in quello che era successo quella sera, ma nessuno di noi aveva voglia di imparare.
Il tempo, poi, ci ha bocciato in tanti.
E non parlo solo di bombe, di morti: parlo di tutto quello che ci siamo lasciati fare, in nome di una cultura, di una mentalita’, di un silenzio che non sono mai stati i nostri, ma che abbiamo ingoiato e poi ci siamo fatti una granita che ne lavasse via il sapore.

Ci siamo sempre vantati di essere diversi da tutti, di essere speciali, di vivere tra la Bellezza. Abbiamo pure chiuso il cratere a Capaci e ci abbiamo messo sopra una bella targa, per dimenticare piu’ in fretta.
Come se niente fosse mai successo.
Come se niente succedesse mai.

Al ventennale diranno tante cose, perlopiu’ vuote e stupide, ma non diranno quello che noi sentiamo da allora: e cioe’ che quella bomba non ha mai smesso di fare rumore, nelle nostre orecchie.
C’era della speranza che finiva, quella sera di maggio.
Pochi mesi dopo tocco’ a Borsellino.
Ma questa, come si dice, e’ un’altra storia.


giovedì 17 maggio 2012

Angeli e dee

Era un supermercato. Mi chiedo come cazzo si faccia ad ambientare un sogno pseudoerotico in un supermercato. Comunque c'era una luce strana, sembrava che gli scaffali della merce si trovassero in una piazza cittadina, il sole tramontato ormai da un pezzo, al posto delle stelle alcuni fari inclinati, l'aria tersa della sera. In un supermercato. C'è folla, ma la mia attenzione si focalizza su Valentina. Indossa un vestito nero un po' scollato, la sua pelle bruna come una colata d'Africa sulla morte. E' stupenda, altera, una dea, conserva in viso un'espressione d'attesa. A volte sembra più vicina, a volte si allontana tra la gente, ma a cambiare è la mia prospettiva, lei resta al centro di un inconsapevole palcoscenico. E' allora che Mariaelena la raggiunge. Valentina risplende di luce bruna, è in armonia con il cielo crepuscolare; Mariaelena è colorata, una pennellata di vita su quella strana tela dinamica. E proprio come un pittore mi sembra di dipingere il susseguirsi di carezze delicate tra gli angeli, una candida mano scivola su di una spalla d'ebano, scopro che non era attesa, era desiderio che espira pudico dalle loro labbra appena dischiuse, la spallina del vestito scivola giù per il braccio, la mano dell'angelo s'insinua nel caldo seno dell'infelice dea, il loro abbraccio è triste e l'amore sembra nebbia che offusca il lieto fine... Un sogno un po' strano, d'accordo. Mi piacerebbe cancellare la tristezza dalle vostre vite.

martedì 8 maggio 2012

Roads

Strade... Il tram traballa. Ha un viso carino, truccato, da bambola, capelli rossi curatissimi, labbra accese dal rossetto, maglia e jeans viola, lacci fucsia. Ah, anche un cerchietto che sembra una corona da miss. Una principessa urbana. Bella, ma ha le mani di una 35enne, stonano col suo aspetto quasi da adolescente. Una bella, altera, anonima principessa urbana. Sotto gli occhiali noto che tiene gli occhi chiusi. Sta dormendo. Di fianco a lei un'altra ragazza sembra un elfo, ha dei bei denti, sembra addirittura armonica. Il confronto tuttavia non regge. Tra loro si siede un bambino. Porta i segni del suo futuro, è già un po' sovrappeso, ha l'espressione del popolo, quello vero, fatto di grasso e sguardo semiassente, di denti strani e tratti anomali. Poco dopo arriva sua madre, un donnone che indossa una maglietta rosa aderente. Il popolo, i suoi diritti. Suona l'assenza, disattenzione sociale, rapporti asettici. Racconti di arti marziali giapponesi. Quale strada bisogna percorrere se tutte sono sbagliate? Ho dimenticato forse la leggerezza del non pensarci, del lasciar fluire, tutto si aggiusterà. So ancora farlo, ma con quanta fatica. E non voglio capirne i motivi. Un furgoncino passa, l'uomo che guida sembra totalmente assorbito dai suoi affari. Mi chiedo cosa importerebbe a quell'uomo di me, dei miei problemi, delle mie sofferenze. Mi chiedo cosa importerebbe a me delle sue. Nulla. E' davvero un'utopia l'identità sociale comune? Ci chiedono di essere unici, in realtà non fanno altro che deframmentarci in infiniti piccoli pezzi di merce che acquisteremo, e la nostra unicità è l'eterogeneità del qualunquismo consumista. E dobbiamo rassegnarci? Non abbiamo niente di meglio della democrazia? Quant'è grigia la vita a Messina, bisogna cercare conforto nelle facce dei ragazzi filippini, sembrano l'unica speranza. Come si combatte contro la vita? Fermo nel fluire, continuo a chiedermi cosa siano tempo, spazio, e se abbia un senso chiederselo. Sento il torpore dell'estate penetrare la mia schiena, la stanchezza del sesso è olio per i pensieri, la presenza costante del volto dell'amore, del respiro dell'amore. Cosa resterà di tutto questo?