martedì 27 settembre 2016
Restare lì, seduti, ad aspettare
Un giorno qualsiasi. Estate. Terza settimana.
Le apro lo sportello e poi la aiuto a infilarsi dentro la macchina, resa irrespirabile dall’afa, dopodichè partiamo. Non ci diciamo molto, ma per me è normale non parlare appena sveglio.
Nonostante tutto, nella strada verso l’ospedale sono io che parlo. Le chiedo se vuole un sorso d’acqua, se l’aria condizionata le dà fastidio. Lei annuisce o scuote la testa. La radio che lei mette in sottofondo, con le sue canzoni già scadute e i discorsi sui rientri e sul bisogno di vacanza, pur se a un volume basso sembra comunque un intruso, che ci coglie in un momento che non vorremmo rivelare a nessuno, perchè nessuno capirebbe.
Nessuno, a parte ovviamente gli altri dello scantinato.
Un giorno qualsiasi. Estate. Seconda settimana.
Siamo in autostrada, di ritorno dall’ospedale, e ci mettiamo a cantare. A lei piacciono quelle canzoni vecchie di Ligabue, che ricorda sorprendentemente a memoria (e che a Ligabue dovrebbe far capire molte cose sul suo futuro da rocker). Cantiamo tutte e due, col sole che ci piomba in faccia e il mare che brilla in fondo all’autostrada –e anche se quel mare lo vedremo solo da lontano, ci mette allegria già così, perchè per oggi è finita.
Un’altra mattina è andata.
Un giorno qualsiasi. Estate. Terza settimana.
Ho imparato a conoscerli giorno dopo giorno, quelli dello scantinato, anche se non ci siamo mai presentati. Non ci ho nemmeno parlato granchè. Si chiacchiera da quelle parti, ma non gli accompagnatori come me. Noi siamo un elemento inutile, come il contenitore per il disinfettante perennemente vuoto e l’ascensore che va sempre troppo piano. Noi li portiamo qui, li riportiamo a casa –e fra l’uno e l’altra, navighiamo in un grande mare di zeri. Dopo aver parcheggiato (a fatica), preso l’ascensore (e anche se si tratta di un solo piano, qui tutti lo prendono), percorso un paio di cunicoli, sbuchiamo in questo scantinato privo di finestre o di aria condizionata –una trappola in mattoni che celebra un agosto diverso da quello che tante persone ci affibbiano. L’afa rende l’aria ancora più immota, come stoppata nel tempo –e l’orologio fermo da sempre di sicuro non aiuta.
Ci sediamo, aspettiamo. Non c’è altro.
Un giorno qualsiasi. Estate. Prima settimana.
Navigando tra gli zeri dello scantinato, preferisco immergermi in un libro –il primo che trovo, qualunque cosa che mi permetta di far finta di non sentire i discorsi intorno a me, discorsi che finisco per assorbire a livello subliminale, con un impatto ancor più devastante. Li respiro insieme al caldo, quasi mi bloccano le narici, mi fannno pulsare le vene della fronte, e mentre mi penetrano tra i pori sudati della pelle, capisco che potrei metterci una vita a dimenticarli –e allora, forse, potrebbero diventare i miei.
Ci sono tutti: il vecchietto un po’ rimbambito che ogni mattina sbaglia l’orario e poi si lamenta che gliel’hanno cambiato, che sbuffa e bestemmia e poi si siede accanto a me con le narici che quasi gli fumano, gridando: “SE TORNO A VENT’ANNI MI FACCIO CRIMINALE, PORCO *IO!”; c’è la signora appostata all’inizio dello scantinato, che come un’abile portinaia tiene un bollettino delle condizioni dei vari frequentatori: stabile, un po’ meglio, peggiorato parecchio (inutile dire che l’ultima opzione è la più gettonata); c’è il marito che stringe la mano alla moglie e non gliela lascia quasi nemmeno quando lei deve entrare; c’è la signora cinese che entra con un sorriso e va via sempre con lo stesso sorriso, e sembra ormai la mascotte del gruppo.
Io? Io scompaio dietro il mio libro, che siano pagine piene di Josè Arcadii o elenchi della spesa per l’anima. Per questo non sempre collego le facce alle voci che ormai non mi mollano nemmeno quando ho parcheggiato e richiuso il mare fuori di casa.
Un giorno qualsiasi. Estate. Seconda settimana.
Stamattina non riesco a posteggiare, ma non perchè sia affollato. Capita che delle macchine occupino deliberatamente due, anche tre parcheggi alla volta. Fare una cosa del genere davanti al reparto di oncologia, vuol dire gridare al mondo senza vergogna che sei una testa di cazzo e fiero di esserlo. Sto già pensando a che Paese del cazzo possa educare della gente così, quando si libera un posto. Vado per raggiungerlo quando una Mini fa una manovra del cazzo e quasi mi prende. Non penso nemmeno che potevo aspettare un attimo anch’io, lasciare che la Mini finisse la sua manovra. In quest’abitacolo, col sole che picchia e un mondo giallo e doloroso là fuori che aspetta, non ho tempo da perdere per pensare. Suono il clacson una volta sola, la Mini si ferma e io vado verso il mio parcheggio. Solo mentre mi incammino verso lo scantinato, mi rendo conto che sono stato coglione due volte: una, perchè ho suonato in un ospedale (e non sono tipo da fare queste cose), e due, perchè se quella persona stava parcheggiando lì, forse si trovava in qualche modo coinvolta con lo scantinato –e allora il mio colpo di clacson sudato, arrabbiato, non le serviva di certo.
Mi giustifico con me stesso. Sono stressato, mi dico. Solo io so quanto lo sono. La gente intorno –quella più distratta, quella più concentrata su se stessa- nemmeno percepisce quanto io possa esserlo. E se in mezzo a questo caldo e a questa aria ferma mi scappa un gesto di nervosismo, beh che cazzo, me lo posso permettere.
Un giorno qualsiasi. Estate. Seconda settimana.
Siamo in auto, di ritorno, e mia madre mi dice: ah, sai che la signora X ieri ti ha visto nel parcheggio?
Chi è la signora X?
Quella con la parrucca, dice mia madre. Ci pensa un attimo e si corregge: effettivamente, qui hanno TUTTE la parrucca.
Non trovo niente da dire, resto in silenzio.
Comunque, la signora con i... con la parrucca riccia, biondo scuro.
Che macchina ha?, chiedo.
Una Mini, risponde mia madre.
Poi mia madre continua a canticchiare Ligabue e io guido in silenzio, fissando distrattamente il mare là in fondo, pensando a tutti i luoghi che avrebbero dovuto insegnarmi qualcosa, di quelle che contano davvero nella vita, e mai avrei pensato che un giorno sarebbe toccato ad uno scantinato di merda.
Un giorno qualsiasi. Estate. Prima settimana.
Ammalarsi d’agosto è una pacchia. Nessuno in autostrada, parcheggi quanti ne vuoi. Uno dovrebbe farlo di proposito, a rischiare la vita quando la gente è tutta al mare. Ci sono degli indubbi vantaggi. Grandi zeri invece di salvagenti, per restare tutti a mollo in un oblìo pacifico, necessario.
Mia madre, come al solito, è ciarliera, vispa nonostante le prime sedute e le prime pillole. Io ho ancora nella bocca il sapore di una doppio malto di ieri sera, ma tutto sommato va bene, ho il mio libro e al ritorno a casa chiamerò finalmente la mia ragazza, ho un posto dove tornare, una donna e un coniglio che mi aspettano e tanto cielo ancora da farmi piovere e poi farmi asciugare. Quando l’infermiera esce, gli si avvicina una coppia sulla cinquantina, insieme ad un uomo più anziano dall’aspetto dimesso, triste, quasi imbarazzato.
Ha vomitato prima di arrivare qui, dice la donna, ad un volume che mi fa capire che lei è la nuora e non la figlia. Ho paura che potrebbe fare dell’altro, aggiunge dopo.
L’uomo mantiene lo sguardo basso. All’inizio penso che si vergogni, ma non è così. Non c’è proprio niente di cui vergognarsi qua sotto. Dovremmo vergognarci noi accompagnatori, portatori (poco) sani di quel mondo là fuori, quel mondo becero, urlante, superficiale, quel mondo che al momento mette le chiappe a mollo e se ne fotte di tutto il resto, quel mondo che combatte scaramucce e le scambia per epiche battaglie, e non sa –e nemmeno vuole sapere- che qui in uno scantinato reso ardente dalla canicola, ci sono uomini e donne che con una pistola di legno in mano combattono guerre enormi di cui solo loro e i loro cari sapranno mai.
No, lo sguardo dell’uomo non è di vergogna, ma di stanchezza. Combattere è una fatica mostruosa, troppa per uomini e donne che all’improvviso devono farsi le spalle larghe e lo stomaco d’acciaio, che fino al giorno prima credevano che avrebbero vissuto per sempre, che il loro grande giorno, anche se avanti con l’età, sarebbe arrivato, e ora il grande giorno è solo quello successivo, e quello dopo, e quello dopo ancora.
Non sapevo che avrei rivisto quello sguardo in mia madre, quando qualche settimana più tardi non sarebbe riuscita a mangiare, non sapevo che avrei rivisto quella fatica sovrumana.
Leggevo. Galleggiavo. Aspettavo.
Come tutti.
Un giorno qualsiasi. Autunno. Quinta settimana.
Questa domenica ci trasferiamo all’improvviso, rapidamente, nella casa in città, per essere più vicini all’ospedale. Mentre saluto i miei amici che partono per Milano e percorro il lungomare che, come da copione, si scurisce di nuvole come fronti pensierose, rifletto: l’estate finisce sempre così, di botto. Non è questione di calendario, ma di volume di emozioni, di colori che cambiano totalmente.
Poi ci penso meglio: l’estate, in fondo, non è mai arrivata. Lo so, l’ho sempre saputo. Abbiamo saltato un turno. C’è chi lo salta per molti anni, a volte tutta una vita.
Lo sapevo, e lo sapevano gli amici a cui l’ho detto, quelli che hanno capito. Non l’ho detto a tutti, e non perchè fosse un segreto. Chiunque mi conosca, sa che conservo un certo pudore nelle mie tempeste. Il dolore, per me, è più sacro di un dio –quel dio che in queste settimane era in fila in autostrada verso l’ennesima spiaggia, e la condensa del suo motore faceva piovere gocce distratte su noi pendolari inconsapevoli. Il dolore va rispettato, se si vuole in cambio rispetto. Non tutti quelli a cui l’ho detto hanno capito, ma sapevo anche questo. Lo capisco anche: la gente non sa mai cosa dire, come comportarsi. Non capisce che non bisogna dire nè fare niente di particolare. Non ci sono parole, i gesti stanno a zero -come gli zeri dello scantinato che avvolgono tutto e svuotano ogni consuetudine del suo significato, denudandola, irridendola. In questi casi, l’unica cosa è far capire: io ci sono. Perchè in quei zeri, certi giorni, si rischia di annegare. In questo autunno prematuro, in queste nuvole che promettono pioggia senza ascoltar ragioni, io rischio di annegare.
E allora non chiedermi come sto. Lo sai come sto.
Chiedimi piuttosto: ti va di prendere una birra?
Di birre ne sono arrivate, ma di compassione, quella quanta ne vuoi. Non c’è deserto più arido di quello del compatito.
Mi lascio il lungomare alle spalle ed entro dentro una nuova stagione della miei 37 anni.
Un giorno qualsiasi. Autunno. Ottava settimana.
Sono al portatile del salottino, sul sito di Alitalia. Trovo il giorno, l’orario. Ogni tanto lancio un’occhiata a mia madre, che da più di un mese ormai si trova su quel divano. Penso per un attimo a chi dice a quelli che partono, che fortuna che avete, ma lascio perdere. Inserisco i dati, clicco invio.
Mi controlli a che punto è la flebo?, mi chiede mia madre.
Io la vedo anche da qui ma mi alzo lo stesso, la osservo e poi le ripeto la frase che più uso con lei in questi mesi.
Ci siamo quasi.
Un giorno qualsiasi. Estate. Terza settimana.
Sappiamo tante cose, qui nello scantinato. Che nel bagno non ci sarà il sapone come al solito. Che quando pioverà, l’acqua comincerà ad infiltrarsi tra le mattonelle e a gocciolare, tanto che dovranno mettere sotto tutti i posaceneri che riescono a trovare.
Sappiamo anche quando qualcuno è entrato nella fase critica del trattamento. Lo sappiamo, anche se non ce lo diciamo. Ho visto gente arzilla fino al giorno prima, arrivare quasi strisciando fino alle sedie della sala d’aspetto. Donne combattive con bandane e mariti spaventati, uomini che si appoggiavano ad un bastone, un passo alla volta.
Adesso tocca a mia madre. Il percorrere i corridoi a braccetto, che prima era piu che altro un gesto carino, è diventato una necessità.
Come va signora?, chiedono le altre quando lei si siede, sapendo già la risposta. Mia madre gliela da comunque. Sa anche lei che solo là sotto potranno capirla. Là fuori tornerà in un mondo dove devi urlare che stai male per poter essere ascoltato davvero –senza renderci conto che se stai davvero male, allora urlare è l’ultimo tuo pensiero.
E poi, in un mondo dove tutti lamentano le ingiustizie e le sofferenze più atroci, chi ha più ragione? E’ davvero rimasto qualcuno che sta male davvero?
Allo scantinato ne sanno qualcosa.
Quando mia madre entra, mi ritrovo seduto accanto alla signora X (quella della Mini) e un’altra donna, una di quelle con la bandana invece della parrucca. Non conosco bene la signora, ma è di quelle che vedo sempre vivaci, quasi allegre –per quanto si possa esserlo qui sotto, comunque.
Adesso la signora sta parlando alla signora X.
Io non credo di farcela, dice in tono basso, da confessione.
Ma che dice, signora? Certo che ce la farà. Mi creda.
No, io lo so che non ce la posso fare. Io... è troppo.
La signora X si prende un attimo, senza scomporsi. Queste piccole sedute di auto-aiuto sono comunissime qui sotto. Abbiamo reso gli psicologi oncologici un lusso, e ognuno si arrangia con quello che ha.
Si deve fare forza, dice X, con un tono pacato ma resoluto. Lo deve fare per i suoi figli, per suo marito.
Lo so che ci sono loro...
E allora!, dice la signora X, fingendo buonumore.
La verità, riprende l’altra, è che io ho paura. Tanta, tanta paura.
Quando la signora finisce la frase, è come se gli zeri intorno a noi si aprissero in gorghi di silenzio che ci tappano le orecchie fino a far male, ricacciandoci ogni parola in gola. E’ come un’oscurità fredda, minacciosa, apertasi all’improvviso lì tra le sedie sporche del Policlinico, che lascia tutti attoniti –la signora X, perchè alla paura della signora pùo rispondere solo con la sua paura, che non conosce parole ma le inonda le vene ogni giorno; io, perche mi sento un maledetto intruso, per essere stato lì in quel momento poetico e devastante, così intimo da farmi vergognare, così spiazzante da farmi sentire piccolo come mai in vita mia.
La paura della signora dello scantinato, che non sa se mollare o andare avanti. La sua paura senza voce riempie lo stanzone, l’ospedale, la città intera. La sua paura, quella che ci ha condotti attraverso ere ed evoluzioni, e che non abbiamo mai imparato ad affrontare –che ci spoglia, che piscia su tutto quel poco che abbiamo piantato, che ridicolizza qualsiasi cosa, e che ci rende così fragili che il solo pensiero ci è intollerabile.
Le persone dello scantinato sono come punti di demarcazione di una coscienza potente e inascoltata, che guida un corpo che ormai sembra completamente scollegato da essa.
Poi mia madre esce. La riprendo a braccetto e usciamo, un passo alla volta, dall’ospedale.
Un giorno qualsiasi.
Perchè è sempre un giorno qualsiasi, quando stai male. Il dolore mischia il prima e il dopo, le cause con gli effetti, fino a non farti capire più niente, a rivestire di una patina metallica le ore e i minuti, le facce e le voci. Perchè non importa nemmeno il quando, dal momento che viviamo sotto un cielo che promette tempesta, e nonostante tutto ci facciamo cogliere sempre impreparati dal temporale, e più ancora dal fulmine che, talvolta, sembra colpire qualcuno di noi. Ma il dolore non è per alcuni, purtroppo. Resta una delle costanti dell’uomo, mentre quello che cambia è il modo in cui ogni uomo può affrontarlo. Io, che qualche esperienza intensa l’ho avuta, ho costruito un’autodifesa simile ad una fortezza medievale, dove tutto penetra ma niente fa male fino in fondo –anche se col tempo ho capito che il sangue trova vie alternative per uscire, ma deve comunque uscire. Necessariamente.
Mia madre, invece, fino a quando il dolore non si è fatto così estremo da possedere un odore e un colore tutti suoi, immediatamente riconoscibili a lei e a tutti quelli intorno, ha fatto quello che sa fare meglio, e che ha insegnato anche a me: ci ha riso sopra. Ogni giorno, facendo avanti e indietro da quel maledetto scantinato, in quel micuglio di giorni che erano tutti uguali e tutti ugualmente infiniti, riusciva ad amare, a sorridere, perfino a ridere –di me, di noi, di tutto. Il coraggio che ho visto in lei era così assoluto e spiazzante, che mi sembra qualcosa di troppo bello da non condividere. Non sono solito parlare di queste cose, ma ho capito che non era questione di pudore: se non posso scrivere anche della bellezza e della forza che incontro, specie nei posti meno prevedibili, allora preferisco non scrivere affatto.
Le parole servono anche a celebrare, ed io oggi le voglio usare per il sorriso di mia madre, anche quando il dolore ha provato a piegarlo verso il basso, senza mai riuscirci.
Voglio usare queste stesse parole per ringraziare chi mi è stato accanto in questi mesi complicati, a partire dalla mia ragazza che mi ha sostenuto lungo il cammino anche a 15.000 chilometri di distanza, per passare dal ruolo importante di chi mi è stato accanto tra Sydney e Messina –e caro Bro, non saprai mai quanto quelle serate assurde a cantare ubriachi gli 883 in piena campagna mi siano serviti in quei momenti pieni di zeri.
Alla mia famiglia voglio solo dire: avete avuto due coglioni così.
Ora so da chi ho preso.
A chi non ne sapeva niente: come avrete capito, mi è più facile scrivere di certe cose piuttosto che parlarne. Per loro e per tutti gli altri, sottolineo che non volevo esibire un dolore: volevo provare a capirlo, e, se possibile, a smontarlo.
A provare ad averne meno paura, come la signora dello scantinato.
Perchè in quello scantinato, presto o tardi, metaforicamente o meno, ci passiamo tutti –perchè il dolore, come l’energia, non si disperde mai, ma trova sempre nuovi modi di trasformarsi. Possiamo imparare a conviverci, cercare di gestirlo, e qualche volta, quando ci dice bene, perfino a dimenticarlo.
Poi a volte diventa troppo, e tutto quello che possiamo fare è restare lì, in quella sala d’aspetto.
Restare lì, seduti, ad aspettare.
Un giorno qualsiasi. Estate. Prima settimana.
Siamo di nuovo in autostrada, rilassati. Le prime sedute sono andate bene, tanto bene che pensiamo che forse, se siamo fortunati, la botta non sarà poi così terribile come immaginavamo. Mia madre è contenta, felice che io sia qui e non dall’altra parte del mondo.
Voglio venire a trovarti in Australia quando starò bene, dice lei.
Assolutamente. Il mio coniglio non vede l’ora di conoscerti.
Mi bastano già i nostri sei gatti, ride lei.
Che altro vorresti fare quando starai bene?, le chiedo.
Lei ci pensa su un po’, prima di cominciare una lista disordinata di crociere, viaggi, ristoranti, spiagge, cene. Le brillano gli occhi mentre parla e sogna, ed io sogno insieme a lei, e improvvisamente non siamo più di ritorno dallo scantinato, ma in partenza verso quel mare che vediamo lì in fondo, brillante sotto quel cielo d’oro, quel mare blu che inghiottirà tutte le nostre ferite, che ci avvolgerà e ci farà restare in silenzio, sospesi come neonati, pronti ad una vita finalmente senza più dolore.
Mi dirigo verso quel mare blu con un groppo in gola, gli occhi lucidi.
Sono felice.
Marco Zangari © 2016
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