martedì 23 febbraio 2016

L' Amerigo Vespucci, la nave dei sogni italiana compie 85 anni

Un omaggio all'Amerigo Vespucci con un ricordo datato settembre 2010

Siamo tutti eleganti, ma in otto con un solo invito. Ci scrutano un po' prima di farci salire ma è fatta. Timidamente saliamo la passerella di imbarco e siamo dentro. 

L'Amerigo Vespucci è maestosamente bello. Qualcosa di troppo bello per saperlo davvero ben descrivere. Tutto intorno a noi è una danza continua, nel mix di odore di vino e odore di sale. Tutto è lucente. Dal tek anni '30 che abbiamo sotto i piedi agli alberi maestri imponenti che ci sovrastano. Ci perdiamo tra i lunghi tavoli imbanditi e siamo subito con un bicchiere di vino bianco in mano. La prua è tutta una sala da ballo. E già pienissima di gente. 
Tacchi alti, vestitini leggeri da un lato. Divise bianche e blu dall'altra.
I marinai italiani sono dietro ad ogni donzella. In qualche modo, siamo tutti nella rete più affascinante che ci potesse pescare.
Mi perdo tra i dettagli in legno del ponte di comando e le montagne di corde avvolte su se stesse. Mi faccio servire bicchieri di vino fino a farmi aprire quello più buono. Il maresciallo mi porta sulla poppa e mi aiuta a capire perchè il Vespucci sia tanto bello. Cos'ha di speciale. Il suo odore di pulito contrasta con quello delle corde in cima agli alberi. Il suo mix è quello che il maresciallo preferisce ad ogni altra cosa. Sono sei anni consecutivi che ci viaggia e ancora non si stanca.
Mi fa accorgere di quanto in realtà ci sia poco legno nel Vespucci. Ne ha quanto basta, solo nei suoi dettagli. Gli alberi maestosi, splendenti, sono in realtà di metallo. Di un marrone senape. Simile al legno, ma impeccabile e lucente.
Passiamo tra le danze frenetiche della prua per vedere la scialuppa di salvataggio del capitano. Sotto c'è ancora il "giardino" che si usava fino alla fine della Guerra Mondiale. Lì si piantavano pomodori e spezie. E così sembrava che al Vespucci non mancasse proprio niente.
Un altro bicchiere di vino. Grazie. Un altro ancora. Grazie.
Intorno a me ci sono centinaia di marinai. Anzi, per l'esattezza 140.
Parlano italiano, cercando di farsi capire dalle spagnole in tacchi alti.
E' un tripudio di mondanità.
Una festa perfetta.
"Se domani passi nel pomeriggio, chiedi di me e ti faccio vedere la sala congressi.".
"Davvero?"
"Certo. E' una promessa. Anche se una promessa di un marinaio..."


"Rituali quotidiani" - Mason Currey


Sei quel che sei, non sei Fitzgerald e nemmeno Thomas Wolfe. Se vuoi scrivere, ti siedi e scrivi. Non c’è un luogo o un’ora particolare, ti adatti a te stesso, alla tua natura. Posto che uno sia disciplinato, il modo in cui lavora non ha importanza. Se non si è disciplinati, non c’è magico alleato che tenga. Il trucco è crearsi il tempo, non rubarlo, e produrre narrativa. Se le storie arrivano, le scrivi e sei sulla strada giusta. Alla fine ognuno trova la via migliore per sé. Il vero mistero da risolvere sei tu.
Bernard Malamud


Ho scoperto per puro caso questo “Rituali quotidiani” (Vallardi), e me ne sono appassionato al punto tale da bermelo in un pomeriggio. Un pomeriggio nel quale avevo, come sempre, una rigida tabella di marcia, che ho finito per non rispettare per l’ennesima volta.
Ed ecco perché mi sono appassionato tanto a questo libro.
“Rituali quotidiani” è una raccolta, a cura di Mason Currey (con delle aggiunte per l’edizione italiana sugli scrittori nostrani, da Eco a Calvino) delle abitudini di lavoro di più di 150 tra artisti, filosofi e scienziati. Non si tratta del contenuto delle loro opere, ma solo ed esclusivamente della loro “metodologia”, se così vogliamo chiamarla.
Questo libro mi ha colpito al punto tale che ne ho scritto già una lunga riflessione sulla Yellow House (la potete leggere qui), che prende in esame anche alcuni punti di questa raccolta –in particolare il fatto che molte di queste storie, a prescindere dalla diversità temperamentale ed artistica, sembrano mostrare tanti punti in comune.
In “Rituali quotidiani” non si da, infatti, troppo peso alla stranezza, non si scade mai nel gossip. Currey è cosciente del fatto che sappiamo già quasi tutto da quel punto di vista. E anche quando si accenna alla sessualità iperattiva di un Simenon, ad esempio, che si vantava di aver avuto diecimila amanti (ma la moglie lo ridimensionò ad un “semplice” 1200), lo si fa per far capire meglio il loro approccio alla creazione (Simenon era infatti così energico che riusciva a concludere un romanzo e cominciarne subito uno nuovo, durante la stessa sessione).
Non mancano le stranezze, come le ossessioni-compulsioni di Truman Capote, che poteva scrivere solo in certi giorni o avere un massimo di tre sigarette nel posacenere, o le nudità di Victor Hugo. Per il resto, però, troviamo persone che svolgono quasi un orario da ufficio, cercando di portare a compimento le tante idee che sorgono nella loro mente.
Non esisteva un impiegato di città più metodico e ordinato di lui; nemmeno l’attività più monotona, tediosa e ordinaria poteva essere svolta con maggiore puntualità e regolare efficienza di quella che lui riservava al lavoro creativo della sua fantasia”.
Così l’autore di “Oliver Twist” e tanti altri classici, Charles Dickens, veniva descritto dal figlio.
Storie simili sono molto frequenti all’interno del libro, tanto da far riflettere su quanto doveva essere complicato vivere accanto a questi uomini di genio (dalla moglie del compositore austriaco Mahler, che doveva attenderlo in silenzio per ore se lui veniva colto dall’ispirazione durante le loro passeggiate nella foresta, ai familiari di Picasso che si ritrovavano a pranzare con un uomo silenzioso e di pessimo umore, tutto preso dal quadro in corso).
Molti di loro si svegliavano presto al mattino, facevano colazione con la famiglia, facevano qualche esercizio fisico e poi iniziavano la loro attività. Chi scriveva in piedi come Hemingway, chi si drogava di caffè come Balzac, ognuno di loro aveva i propri rituali.
La lettura procede con una uniformità che è quasi ipnotica, priva di picchi di rilievo, e che in qualche modo riesce a farti entrare dentro le routine di questi personaggi.
Ho già spiegato ampiamento, sempre nel post della Yellow House, il perché questo libro mi abbia attirato. Al di là della curiosità da groupie, per me è stato un modo di vedere come altri e più grandi avevano risolto una della mie battaglie ricorrenti, quella contro il tempo. Da sempre faccio piani che non rispetto, vivendo di eterni lunedì dove mi riprometto mille cose che non arrivano mai a vedere sorgere il sole del mercoledì.
Questo libro può quindi dare qualche dritta a chi vuole sapere come persone di ingegno hanno risolto (se l’hanno risolto) il loro problema col tempo, a prescindere che si tratti di un’attività creativa o semplicemente della gestione delle proprie ore, sempre più soffocate da impegni, tecnologia e cazzeggio.
Ognuno di loro ha affrontato la propria balena bianca. Ognuno si è dato un orario per combattere contro i propri demoni, per portare avanti la propria opera.
E in fondo anche trovare la propria abitudine era un modo per trovare se stessi, come diceva Malamud.
Perché era una lotta ma poteva dare i suoi frutti, e loro non lo dimenticavano mai.
Tutto sommato, il lavoro è sempre il modo migliore per fuggire dalla vita!”, scriveva Flaubert.
E come dargli torto?

domenica 21 febbraio 2016

Elogio della vita noiosa: di artisti, orari e tutti a letto presto


Ho da poco letto “Rituali quotidiani” (Vallardi), una raccolta ad opera del giornalista Mason Currey sulle abitudini di vita, ma soprattutto creative, di più di 150 tra artisti, scienziati e filosofi (potete leggere la mia recensione qui).
Il libro parte subito con W.H. Auden, che riferendosi alla proprie abitudini, dice: “Uno stoico moderno sa che il modo più sicuro per disciplinare la passione è disciplinare il tempo: decidi cosa vuoi o cosa devi fare durante il giorno, quindi fallo ogni giorno alla stessa ora, e la passione non ti darà alcun problema”.
Non sembra molto divertente, vero? Chiunque si immagini un’orgia ininterrotta di alcol, sesso, droghe, viaggi e figli illeggittimi, resterà deluso. Non perchè questi personaggi non abbiano fatto ANCHE questo –semplicemente, non è stato questo (o solo questo) a renderli quello che sono, a farceli conoscere per come sappiamo.
Di tutti i personaggi del libro, pochi hanno retto un ritmo di dipendenze, feste, incontri e ispirazioni all’improvviso –e tra questi, non sono in tanti ad aver superato la quarantina. Certo, ci sono sempre le eccezioni: per ogni Keith Richards nella musica, c’è sempre un Charles Bukowski che dissemina il suo cammino verso i 70 anni di bottiglie, sigari e letti sfatti.
E quella in fondo è l’idea che, volenti o meno, ci siamo fatti degli artisti, specie dei grandi. Una vita fatta di sregolatezze, eccessi, col genio che poi compariva magicamente a trasferire tutto su carta o su tela, a plasmare la creta o enunciare teoremi rivoluzionari.
La realtà che questo libro mostra, però, è ben altra.
Per chiarire subito il concetto, l’introduzione riporta una frase che V.S. Pritchett, scrittore e saggista americano, scrisse parlando dello storico inglese Edward Gibbon che, pure quando prestava servizio militare, riusciva a studiare Orazio o i classici della teologia tra una marcia e l’altra: “Prima o poi, i grandi uomini si dimostrano simili tra loro. Non smettono mai di lavorare. Non perdono mai un minuto. E questo è molto deprimente”.
E su questo, credo, possiamo essere d’accordo tutti.

Creare è un lavoro, e nemmeno di quelli facili.
Probabilmente è uno dei concetti più anti-romantici e ammoscianti che esista, ma è così. A meno che non siate tra coloro che si dilettano ogni tanto, per puro piacere, ed in quel caso queste righe non si riferiscono a voi. La creazione diventa passatempo, al pari di cucinare una cosa diversa ogni weekend o collezionare bottiglie di birra strane.
Per tutti gli altri, vale quello che ha detto Philip Roth, premio Pulitzer: “Scrivere non è un lavoro duro: è un incubo”.
D’accordo, io non la metterei così dura. Scaricare casse sotto il sole estivo per una miseria all’ora, è un lavoro duro. Fare l’infermiere in terapia intensiva, è un lavoro duro.
Scrivere –e creare in generale- richiede però un contributo a livello emotivo che è impossibile da quantificare –ed è tanto più opprimente, quanto più è indefinito. Quando fai qualcosa per lavoro, sai che ci sarà un inizio e una fine. Quando crei –perfino (oh miracolo!) su committenza- è tutto più indefinito, troppo vago per poter avere dei riferimenti.
Forse per questo la maggior parte degli artisti e uomini di genio di questo libro avevano bisogno di abitudini fisse, di rituali scaramantici e a volte persino un po’ folli. Dovevano ancorare alla realtà qualcosa che sembrava avere la consistenza di una nuvola, con tutto il pericolo del lampo.

La stragrande maggioranza di questi artisti, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, faceva una vita ripetitiva, prevedibile, quasi noiosa. Si alzavano alle prime luci dell’alba –perfino quelli che, come Hemingway, avevano magari bevuto e fatto festa fino a notte fonda. In quella quiete sonnacchiosa, strafatti di caffè (di gran lunga la droga più comune tra loro, molto più che vino e aghi), si mettevano all’opera. Facevano poi una pausa per pranzo, per poi riprendere e non smettere finchè non era ora di cenare. A quel punto alcuni continuavano a lavorare dopo cena, altri vedevano un film con moglie o marito, leggevano un libro e andavano a letto ben prima della mezzanotte.
La mattina dopo si ricominciava daccapo.
Ed erano quasi tutti così. Per non parlare del tempo che ognuno di loro, tra un libro e un quadro, ha dovuto dedicare alle mogli lasciate sole tutto il giorno, o ai figli che chiedevano la loro parte di attenzione. Poi ovviamente c’erano le bollette, le file alla posta, le preoccupazioni finanziarie, i mutui, i problemi con l’alcol o col fumo, gli acciacchi della vecchiaia...

Forse aveva ragione Pritchett, quando parlava di situazione “deprimente”.
Forse no.
Da anni mi batto contro l’immagine dell’artista che crea solo sotto ispirazione, che è forzato a vivere da maledetto a costo della sua credibilità artistica.
Prima ci libereremo dell’artista maledetto, prima potremo tornare a respirare.
E credetemi, non lo dico perchè il concetto non mi affascini –tutt’altro- nè perchè credo che dobbiamo vivere tutti da ragionieri per poter creare.
E’ chiaro che l’Artista (quello maiuscolo) è qualcuno che pensa e vede in maniera diversa, ma è come se avessimo dato a questo concetto un significato di pura esteriorità, dimenticandoci che le più grandi rivoluzioni partono in una stanza male illuminata e nessuno nei paraggi. Di uomini di genio che spaccavano teste e svuotavano bottiglie ce ne sono stati parecchi, è chiaro: il malinteso nasce quando si comincia a pensare che erano uomini di genio proprio perchè spaccavano teste e svuotavano bottiglie. Non si capisce che quello era un sintomo della loro genialità, mica la causa. L’eccentricità non è genio, mentre il genio qualche volta è eccentrico.
Per questo non ci vedo niente di assurdo nelle routine così rigide di questi personaggi del passato. Sapevano benissimo che un’opera d’arte, un’invenzione, un teorema, non sono solo il frutto di illuminazioni improvvise. Ogni creazione richiede un impegno, un dispendio di ore e di energie, che sono difficili da immaginare.
Come ha detto uno degli scrittori di questo “Rituali quotidiani” (non ricordo più chi): “Se mi dovessi affidare solo all’ispirazione, creerei solo tre pagine l’anno”.
Ogni forma di creazione richiede un sacrificio che sì, la fa assomigliare ad un lavoro –ma di quelli massacranti e dolcissimi allo stesso tempo.
Indubbiamente l’ispirazione, l’idea, il talento, sono tutte cose importantissime se non fondamentali. Ma senza il lavoro giorno dopo giorno, l’impegno di ore grigie segnate da sfiducia e incertezza, il senso di fallimento che bussa alla porta come una nausea da doposbronza –non vedremmo mai l’opera conclusa.

Il tempo va rincorso. Il tempo va fermato.
E una volta fermato, bisogna mollargliene uno bello forte, per evitare che ci scappi via di nuovo.
Il punto è che andando avanti, di tempo se ne ha sempre di meno –mentre gli interessi diminuiscono sempre più. Cosa ne facciamo allora?
Lo sprechiamo, è evidente. Come? Ognuno ha la sua risposta.
Ha gioco facile il tempo, con noi. Viviamo tra trappole disseminate tutte intorno. Trappole che forse i grandi scrittori e artisti di un tempo non avevano, dagli smartphone al porno online, dalla reperibilità 24 ore su 24 alla mole di serie tv, libri, film, videogiochi che ci tendono agguati nella quiete di casa nostra. Loro vogliono sentire da te solo quella parolina magica una volta varcata la soglia di casa. Basta che tu dica “SVAGO” che tutto è finito ancora prima di cominciare. Le già scarse difese crollano di schianto.
D’altronde, abbiamo pur diritto, dopo una dura giornata, ad un po’ di SVAGO, no?
Così rimandiamo tutto al fine settimana –solo che nel fine settimana abbiamo bisogno di SVAGO perchè è stata una settimana di merda, sai com’è, e poi ci sono da fare tutte le cose lasciate in sospeso. Allora rimandiamo alle prossime ferie, ma una volta che sei in ferie, cosa te ne frega di creare? Lì c’è solo spazio per lo SVAGO.
E così via.
Lo SVAGO ci ha fregati. Ha consegnato nuove armi in mano ai nostri vecchi padroni. In fondo Huxley con il suo “Mondo nuovo” ci aveva azzeccato alla grande: le cose che amiamo sono quelle che finiranno per fregarci.
E in fondo nemmeno sono così sicuro che le amiamo. Certo, ci fanno sentire meglio. Viviamo in un’epoca dove la noia è stata soppressa.
E allora com’è che sembriamo sempre tutti così annoiati?

L’artista, a mio avviso, vive di noia e terrore.
Noia e terrore sono il suo limite, e sono anche l’unica arma che ha per affrontare questo limite.
Il punto di tutto questo discorso, in fondo, è legato al proprio equilibrio, e al coraggio che serve per farlo nostro e difenderlo.
Inutile contarcela: creare è fatica. Da giovane ti concentri sugli aspetti luccicanti, la fama, le donne, il tuo nome, i riconoscimenti. Poi mese dopo mese ti rendi conto –e questo libro ne è testimone- che gli artisti facevano, spesso, una vita del cazzo. Non si dovevano spaccare la schiena a trapanare strade e avvitare impalcature, ma lo stesso non era semplice. Hanno lottato per anni, chiusi in una stanzetta, con l’impossibilità di comunciare le proprie difficoltà a quasi tutti, a dover ricominciare da zero ogni giorno, camminando su un filo sottile tra follia e oblio.
Ognuno di quegli artisti si era allora trovato un proprio passo, una propria dimensione. Alcuni erano rigidi come impiegati di banca, altri magari restavano più flessibili, ma ognuno di loro aveva trovato un modo per trarre forza dal proprio essere.
Era questa, la loro eccentricità: non gli eccessi, non le scopate.
Avevano deciso di essere se stessi fino in fondo.
Sapevano bene che non era compito facile, e per questo cercavano di delimitarlo, di darsi delle regole proprie, col tempo scartando quelle inutili e trovandone altre che calzassero meglio. Si erano messi comodi dentro se stessi.
Le loro giornate così regolate erano tutt’altro che noiose, ai loro occhi. Tramite quegli orari rigidi e quelle pratiche consuete potevano sprigionare tutta la loro forza creativa. In un mondo che regola tutto sulla sperficialità, dove l’artista senza contatti sociali è finito ancor prima di cominciare, queste sono persone che si sono in qualche modo auto-recluse per portare a termine il loro compito –impilando parole e versi, giorno dopo giorno.
Compito che non era per niente semplice. Immagino solo quante volte, come diceva Roth, si siano seduti davanti a quello schermo bianco, odiandolo, odiando se stessi, sentendo le ore pisciate via mentre la Vera Vita è là fuori.
Avranno avuto la tentazione di lasciar perdere, di darsi anche loro allo SVAGO, di uscire a divertirsi, di andarsi ad ubriacare. Di dar ragione a tutti quelli che dicevano loro che dovevano uscire, che dovevano smettere di fare quella vita così noiosa.
Probabilmente si saranno pure alzati dalla sedia, con lo sguardo rivolto verso la porta.
Poi si saranno voltati, si saranno seduti nuovamente, e avranno ricominciato.
Per fortuna.

Tutto questo pippone per parlare a tutti, anche a me stesso –io che artista non sono, nè maiuscolo nè niente, ma provo a mettere qualche parola in fila sul foglio.
Ho rincorso me stesso per due anni, per sputare fuori il mio “Latinoaustraliana”, e adesso lotto a colpi di minuti strappati per completare il secondo romanzo. Mi faccio forza con la Yellow House insieme ad altri come me, procrastinatori, ostinati, un po’ fuori di testa. Gente che ha conti e orari a cui badare, ma ancora non si rassegna alla successione triviale di giorni e settimane, allo stillicidio di piaceri che spariscono subito.
Io stesso combatto giorno dopo giorno con questa tastiera, la evito persino col pensiero, a volte avvicinandomi solo nel cuore della notte, con la birra che fa il suo giro.
Quasi cedo, qualche volta.
Poi mi ricordo che ho una vita noiosa, ringrazio il Cielo per questo, mi siedo, e comincio.


Marco

giovedì 11 febbraio 2016

Di bellezza, chitarre ed estati al mare: (nuova) lettera a S.


Caro S.,

Tutto è cominciato con “Creuza de ma”. Ero bloccato nel traffico isterico della mattina, che è uguale in tutto il mondo, anche qui che è giorno mentre da voi si va a dormire.
La canzone è partita e io mi sono fermato ad ascoltarla, e mentre l’ascoltavo pensavo: questa è poesia, e lo è per un motivo preciso. Perché riesce a farti avere nostalgia di un posto dove non sei mai stato.
Una volta finita la canzone, ho deciso di mettere “Monti di Mola”. Stessi brividi, ricordi simili. E allora mi è venuta la nostalgia per un posto dove sono stato. Dove siamo stati tutti e due.
Te la ricordi Liuzzo d’estate? Certo. La odiavamo e ci tornavamo sempre. Era la donna che comprendeva tutte le nostre donne.
Era inquinata, sporca, noiosa. Era stata depredata e poi lasciata lì come un imbarazzo. Per la maggior parte delle persone, sembrava solo un punto da superare velocemente lungo la statale, e dimentarsene subito.
Ma aveva il fascino decadente di qualcosa che era stato bello un tempo, o che sarebbe potuto tornare ad esserlo con poco.
Ecco perché assomigliava alle nostre vite di allora.

Ma già allora avevamo vite diverse, che col tempo avrebbe preso strade diverse, sia per latitudine che per scelte. A quel tempo, però, non era importante la strada. Avevamo messo le quattro frecce e ci eravamo messi ad aspettare –cosa, non so di preciso. Un temporale, un incidente, un passaggio benevolo e inaspettato.
Ma non succedeva mai niente.
Noi allora ci cantavamo sopra. Tu e la tua chitarra, io e la mia voce –e non so quale delle due fosse più scordata. Erano le nostre session, era la nostra pausa a fianco dell’autostrada. Le macchine ci sfrecciavano accanto e noi ci sedevamo davanti ad un canzoniere, due birre aperte ed un posacenere che presto sarebbe stato stracolmo.
Non eravamo granchè e facevamo sempre le stesse canzoni, è vero. Ma quando le cantavamo, c’eravamo in ogni singola nota. Momenti sul palco che nessuno potrà mai capire.
Il sole si alzava maestoso su quella Liuzzo alla deriva, il nostro detestato bucodiculo in riva al mare, e in quel momento cancellava cartacce, baracche e notti insonni. Dal terrazzino di casa tua vedevamo un cielo che sembrava quasi inghiottirci, in quel blu che era troppo da reggere tutto insieme. Specie se in sottofondo c’era “A cimma”. La luce inondava le strade e faceva brillare il mare come la tentazione di un’altra vita.

Ci inventavamo session ovunque. Scomode, sudate. Ci mettevamo in spiaggia di giorno, con la sabbia che cercava di inghiottirsi canzonieri e plettri, e anche di notte, con torce e sigarette. Ce ne sono state alcune, più di altre. Lo so, lo sai.
Non ti ho mai detto che qualche volta ho cantato col groppo in gola, e forse tu hai fatto lo stesso. Non ce lo siamo detto perché a quei tempi sarebbero stati schiaffoni –eravamo cazzoni, duri&puri fino in fondo a quelle notti senza fine. Ora però possiamo dircelo. Forse era la nostra vita, o il vuoto che quel cielo troppo blu scavava sotto le nostre occhiaie e al centro del nostro petto. Forse erano le birre e le sigarette di quei pomeriggi nel terrazzino, ore che strappavamo al dio dell’estate che ci obbligava a spiaggia&sole&allegria, e noi aprivamo una lattina e accendevamo un’altra Lucky Strike lontano da tutti.
Forse erano le parole e la musica, che in quel momento erano nostri pur se non lo erano.
Ma se qualcuno ci ha mai ascoltati, anche di nascosto, e ha ascoltato le voci stonate e gli accordi che saltavano, vorrei che ricordasse questo: che c’era bellezza, lì, in quel preciso momento.
Non so di che tipo, ma c’era.
La nostalgia di un posto in cui sei stato, senza sapere nemmeno di esserci stato.

Ho visto la foto di tua moglie, l’altro giorno. Ho visto quel pancione che tra un paio di mesi si trasformerà in seccature e gioia, notti in bianco e commozione –e ci ho rivisto bellezza. Quella bellezza che ci siamo sudati, in luoghi brutti, in momenti brutti, e che per questa è solo nostra.
La bellezza di essere passati attraverso una guerra e aver portato con noi alcuni lembi di quel cielo troppo blu, che sarà per sempre, in qualche modo, solo nostro.
E adesso mettiti comodo, fai partire “Anime salve” e aspetta.
C’è altra bellezza.
C’è ancora tempo per quella maledetta alba.
Suona un altro pezzo, zio. Io vado a prendere due birre in frigo.
Arrivo subito.
Più o meno.


lunedì 8 febbraio 2016

"Per i sentieri dove cresce l'erba" - Knut Hamsun


La vendita del tabacco è tornata libera, ma neppure nel fumo riesco a provar gusto, nemmeno un po’. Cosa voglio, perché mai sono così indisponente? Bene la primavera, bene l’estate, ma Dio che situazione stupida! Mi metto a temperare due matite nuove con il coltello, per prepararmi ad un’eventuale spiegazione sublime, ma pare che non ne vogliano venire. La questione è che mi sento sottosopra, sono stanco di me stesso, non possiedo più desideri né interessi, né gioia. Quattro o cinque buoni sensi in letargo e il sesto portato via.
Posso esserne grato al procuratore generale.


Knut Hamsun è stato sicuramente uno di quegli scrittori che lasciano il segno –e non solo sulla carta. Nei suoi ben 92 anni di vita, è riuscito a farci entrare più o meno tutto: gli inzii modesti, la povertà, il vagabondaggio, i viaggi ai quattro angoli del globo, e poi i primi libri, il successo, il Nobel per la letteratura, la guerra.
Una carriera longeva quasi quanto la vita su questa Terra, perché, per dirla con Bukowski, “Hamsun non ha mai finito di vivere, e quindi non ha mai finito di scrivere”.
Proprio Bukowski era tra i suoi ammiratori, che non erano affatto pochi. Henry Miller ne era così influenzato che un giorno decise addirittura di chiamarlo per poterlo conoscere. Secondo lo stesso Miller, Hamsun in quel periodo navigava in cattive acque –al punto che la telefonata si trasformò in una richiesta di prestito da parte dello stesso Hamsun. Peccato che Miller navigasse in acque peggiori delle sue.
Non so se John Fante fu tra i suoi fan, ma di certo il leggendario “Chiedi alla polvere” deve molto al primo successo di Hamsun, “Fame”, un libro ironico e feroce, incredibilmente innovativo per i suoi tempi e d’esempio per parecchi romanzieri del secolo scorso.
Io di sicuro c’ero, tra quegli ammiratori, al punto che “Fame” è stato uno dei libri che ho deciso di portare qui nel mio primo, lontano viaggio in Australia –a scapito di mutande e calze che lasciai sul letto di casa.
Un po’ di fame la feci pure, quando andai a raccogliere mango nella zona tropicale –ma questa è un’altra storia.

In una vita così piena, non poteva mancare il finale controverso.
Hamsun, ormai scrittore celebrato in tutta la Norvegia, durante la Seconda Guerra Mondiale sostenne la Germania nazista, che aveva invaso il suo Paese. Sono passati alle cronache i suoi incontri con Goebbels e Hitler.
Alla fine della guerra, Hamsun fu accusato di collaborazionismo e recluso, per poi essere internato in un ospedale psichiatrico.
“Per i sentieri dove cresce l’erba” (Fazi Editore) inizia proprio qui –dalla fine dell’Hamsun eroe nazionale, e l’inizio del suo periodo più oscuro.
L’inizio del libro è semplice e lineare, come tutta la sua prosa. Hamsun –che stavolta rinuncia a personaggi ed alter ego per mettersi a nudo- non si nasconde dietro involuzioni e trucchetti. La sua inizia come una cronaca, più che come un atto di difesa. L’autore norvegese si limita a nararre le sue peripezie da recluso, le sue piccole rinunce materiali, mettendo bene in evidenza il fatto che a lui non importa più di tanto: sono anziano, vada come deve andare.
Hamsun non mette le mani avanti, nemmeno quando descrive il processo iniziale. Non nuota contro la corrente della Storia, che in quei giorni sembra voler ricominciare da capo dividendo tra buoni e cattivi.
Una volta archiviato il processo –di cui Hamsun parla brevemente, dando per scontata la sua colpevolezza- le pagine scorrono veloci e descrivono i vari stati d’animo che lo scrittore si trova ad affrontare in quella situazione da prigioniero senza sbarre –e senza una pena precisa. Hamsun avverte l’odio intorno a sé –la suora che si rifiuta di parlargli, il ragazzetto che gira alla larga dalla sua capanna- ma tutto sommato mantiene una forza d’animo notevole. Questo, ovviamente, fino a che non mette piede nell’ospedale psichiatrico.
Molto si è detto di quest’opera –che per molti è la prova che Hamsun fosse coerente e sano di mente, nonostante l’età e i problemi di salute. Ed effettivamente il libro ha tutto della sua solita prosa vivace –ogni tanto si inserisce qualche storia un po’ sconnessa ma si percepisce subito che, pur acciaccato e anziano, Hamsun può dare parecchie piste a tutti gli altri scrittori.
L’ospedale si rivela un’esperienza traumatica e frustrante. Hamsun ha la sensazione che vogliano trovarlo a tutti i costi matto, nonostante la lucidità incredibile che continua a dimostrare. Le sue condizioni peggiorano. Sordo, quasi cieco, isolato dal mondo, rinnegato dal suo popolo. Esasperato, chiede al procuratore di poter parlare, di poter dire la sua. Se proprio lo devono pensare colpevole, almeno che lo stiano a sentire.
Il libro –che non è un romanzo, e nemmeno un vero diario- è interessante in quanto cattura un periodo in cui, come detto, la Storia si stava giudicando, assolvendosi o condannandosi, decisa a fare piazza pulita, pronta a dimenticare nuovamente. La storia di Hamsun ha fatto versare fiumi di inchiostro senza che si sia mai arrivati ad un verdetto. Ma probabilmente non è quello il punto. Hamsun, lungi dal voler impietosire o giustificare, ha voluto ritrarre l’aspetto umano della sua vicenda, al di là di innocenza o colpevolezza.
Non è il libro migliore di Hamsun, e qualche parte sicuramente ha risentito delle dure condizioni a cui lo scrittore era sottoposto –ma è un’opera consigliata a chi già lo conosce, e una testimonianza fondamentale di un momento della storia mondiale delicatissimo e decisivo.

venerdì 5 febbraio 2016

"Swag" - Elmore Leonard


Everything could work out, that was true, it was possible.
As long as he stayed alive.


Ho sentito parlare spesso di Elmore Leonard, autore di crime stories super prolifico e saccheggiato da Hollywood (uno fra tutti, “Jackie Brown” di Tarantino). Come detto altrove, le crime stories non sono il mio genere preferito (a parte alcuni esempi, tipo questo), però Leonard è già tra i classici, e in più gode di fama da ottimo dialoghista –e per chi scrive, i dialoghi sono importanti come imparare a mescolare i colori è importante per chi vuole imparare a dipingere.
Ammetto che, non conoscendo l’opera di Leonard (e avendo lui scritto decine e decine di romanzi, alla faccia mia che mi sudo le mie 1.500 parole al giorno, mortacci sua), ho fatto quella cosa tristissima di chiedere a Google qual è il suo libro migliore col quale iniziare.
Da un’occhiata veloce ad alcuni forum, la risposta sembrava sempre la stessa: inizia con “Swag”. E così ho fatto.
Dopo poche pagine, ho capito che il consiglio era azzeccato.
“Swag” racconta la storia dell’incontro tra Frank, un venditore di auto usate in cerca del colpaccio della vita, e Stick, un ladro d’auto che tira a campare in qualche modo. I due decidono di cominciare a fare delle rapine –piccoli negozi fuori città, niente telecamere- seguendo le dieci regole d’oro che ha scritto Frank: sii sempre gentile, non parlare troppo, non dire mai il nome del partner e così via. All’inizio le cose filano lisce: i due, volando basso, diventano dei manovali della rapina e mettono da parte quanto serve per prendersi un appartamento in un palazzo con piscina (e parecchie donne single) e fare la bella vita. Inutile dire che questo idillio ladresco non è durato a durare: Frank comincia ad infrangere alcune delle regole, poi ci si mette in mezzo il Grande Colpo e… no, va bene, niente spoiler (oggi sono buono).
Ribadendo il fatto che questo genere solitamente non mi interessa, devo dire che Leonard fa bene, anzi benissimo il suo lavoro. Il libro va dritto al punto, senza troppi giri (cosa che apprezzo sempre). I personaggi vengono tratteggiati attraverso quello che dicono, piuttosto che usando lunghe descrizioni o infinite storie di background. Le pagine scorrono veloci come un poliziesco cazzuto in una sera d’estate, in atmosfere così credibili che inevitabilmente vi comincerete a chiedere se non dovreste pure voi cominciare a rapinare supermercati e negozi di liquori per sbarcare il lunario. Inutile dire che lo divorerete in pochissimo tempo, ed a quel punto sarete pronti per dare un altro morso all’enorme opera di Leonard.
Come ha detto anni fa Stephen King: “Ogni volta che mi sveglio e non vedo il nome di Leonard tra gli annunci mortuari, penso, “Ottimo! Starà sicuramente lavorando a qualcos’altro. Finirà un altro libro, ed io avrò un altro libro da leggere. Perché una volta andato lui, non c’è più nessun altro
E se lo dice il Re, possiamo crederci.

martedì 2 febbraio 2016

Quando



Quando mi sento felice
mi sento confuso


Quando mi sento allegro
so che non durerà


Quando mi sento stanco
mi sto trovando scuse


Quando mi sento triste
mi sento a casa






Marco Zangari © 2013

lunedì 1 febbraio 2016

"Breve storia della morte" - William M. Spellman


Che grandi ragioni tu hai, o mortale, di lasciarti così andare
a lamenti penosi? Perché piangi e lamenti la morte?
Se ti è stata gradita la vita trascorsa prima di adesso,
… perché non ti allontani, come un convitato sazio di vita,
e accetti nell’animo, o stolto, una quiete senza più ansie?

Lucrezio


Tante cose sono cambiate negli ultimi anni della mia vita (e se seguite il Morgana, ne sapete qualcosa). Per esempio, per una serie di fatti più o meno simpatici, qualche domanda su cosa c’è dopo me lo sono chiesto. Non che prima (per me c’è ormai un prima o un dopo) non me lo fossi mai domandato, ma poi finiva come probabilmente finisce con molti di voi: evitavo di rispondermi. Nessuno vuole pensarci a queste cose, giusto? Probabilmente perché non pensarci allontana automaticamente la possibilità di morire (che comunque, dentro di noi, consideriamo ancora parecchio remota). Non esiste tabù più grande, argomento più sconveniente.
Forse uno deve sbatterci la faccia, come è successo a me, per capire che, nonostante illusioni e scaramanzie, la morte esiste e anzi, seguendo il motto popolare, è probabilmente l’unica certezza dell’esistenza insieme alle tasse.
Ne parlo ogni tanto insieme a N., un’altra che se l’è trovata davanti un bel (!) giorno, e che ora non ha paura di discuterne.
Perché in fondo non siamo i primi e nemmeno gli ultimi. Laddove ci hanno costretto le contingenze della vita, sappiamo che filosofi, profeti, poeti si sono interrogati sulla morte dall’inizio dei tempi –probabilmente da quando l’uomo si è reso conto che esisteva una fine ai suoi giorni.
Per questo motivo mi ha attirato questo “Breve storia della morte” (Bollati Boringhieri) di William M. Spellman, docente americano di Storia. “Breve storia” è, appunto, una sorta di trattato “in pillole” sulle interpretazioni che gli uomini hanno dato alla morte e all’aldilà nel corso dei secoli. Il libro si divide in due parti: un excursus storico sul tema della morte nella prima parte, mentre nella seconda si affrontano temi specifici, dall’eutanasia al suicidio, relativamente ai nostri tempi.
Spellman utilizza un linguaggio divulgativo, semplice e scorrevole, considerando anche la tematica e la mole di materiale da inserire. Ho trovato la parte “attuale” più debole rispetto alla prima, se non altro perché parla di temi che una persona normalmente informata dovrebbe conoscere (e quindi quelli del Family Day resteranno a bocca aperta).
L’analisi dell’approccio delle diverse religioni alla morte è semplice ma efficace, e rimanda sempre al solito punto: se Dio non ci fosse, gli uomini continuerebbero ad inventarlo. Attraverso le parole di intellettuali e santi si può sentire la disperazione e confusione che un tale limite pone alla nostra esistenza. Nella mia opinione, ciò riguarda probabilmente, più che la realtà biologica (il corpo che cessa di esistere), il modo in cui ci rapportiamo a questa fine –e di conseguenza, la corsa al riempire di significati e cose (soprattutto cose) il nostro tempo su questa terra. Di fronte al vuoto assoluto, l’uomo ha cercato di trovare un senso –e non trovandolo, lo ha sostituito con costruzioni, con ideali, con speranze. Chi aveva il Regno dei Cieli, chi la liberazione finale invocata da Schopenhauer: chi invece, come Pascal, pensava che ciascuno è un “nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla”.
Il tema è ovviamente troppo vasto per essere trattato in una recensione. Personalmente, gli epicurei avevano un buon punto quando sostenevano che “quando noi siamo, non c’è la morte, e quando c’è la morte, noi allora non ci siamo. Per modo che essa non riguarda né i vivi né i morti: per gli uni non c’è, e gli altri non sono più”.
Poi ovviamente ci sono tanti modi di fregare la morte –almeno temporaneamente.
Ma questo voi lo sapete già, no?
Se il tema vi interessa, “Breve storia” può essere un buon punto di partenza per qualche riflessione. Non troverete niente di rivoluzionario o nuovo, ma è un’ottima lettura lo stesso, e lo consiglio senz’altro.