lunedì 26 giugno 2017

Il matrimonio di M.


Cara M.

come siamo messi a ricordi? Io bene, nel senso che ne ho tanti, fin troppi, ma ormai ho una sorta di filtro che mi permette di lasciar fuori quelli più dolorosi e lasciar passare tutti gli altri. Ogni tanto me ne perdo anche qualcuno buono, lo so, ma è il prezzo da pagare.
Tra quelli che sono rimasti, c’è quel pomeriggio di 6 anni fa. Avevo appena iniziato il mio nuovo lavoro ed ero stato mandato a fare la mia prima intervista radiofonica ufficiale. Per tutta la strada mi chiedevo cosa avrei avuto mai da dire io in una radio.
Queste cose non fanno per me, pensavo.
L’ironia, ecco un’altra cosa che permette ai ricordi di restare lì dove sono.
Comunque, l’unica cosa che mi confortava andando alla radio era che l’avrei fatta con qualcuno che già conoscevo, e che sapevo mi avrebbe messo a mio agio. Al suo posto, invece, venisti tu a prendermi alla reception.
«Ciao, mi chiamo M. Farai l’intervista con me. E’ un problema?»
Deglutii come succede nei cartoni animati, e da uomo navigato (ma ero in realtà l’ultimo dei pischelli) dissi no no, figurati, andiamo pure.
Così mi ritrovai con davanti un microfono, un mixer pieno di tasti di fronte a me, e la mente assolutamente vuota.
Poi fosti tu a parlare. Una domanda che non ricordo, che aveva a che fare con qualcosa che ti avevo detto distrattamente, mentre percorrevamo con calma i corridoi della radio. Avevi registrato, annotato, e adesso sapevi da dove partire.
Sapevi fare già allora il tuo lavoro, e io, l’ultimo dei pischelli, non potevo esserne più grato.
Mi ha sempre fatto sorridere, il contrasto tra il tuo modo di vivere in un costante turbine di ansia, di movimenti a scatti, di secondi che scorrono e frasi consumate velocemente, e poi invece il modo che hai sempre di mettere a loro agio le persone, che siano dei pischelli da intervistare per la prima volta, o degli amici che stanno passando un periodo in alto mare.
E’ capitato, sia a me che a te. Quando ci siamo conosciuti, le nostre vite erano completamente diverse da quelle di adesso. Eravamo ragazzini senza saperlo, giovani a dispetto di qualunque definizione del Dipartimento di Immigrazione australiano. Venivamo dai due estremi della Penisola, e non fosse stato per l’Australia, non ci saremmo probabilmente mai incontrati.
Una cosa ci univa, all’inizio, una cosa importante: l’amore per quella nostra terraccia lontana e maledetta, amata e desiderata, bestemmiata e cercata. Ci dicevamo che saremmo tornati, magari dopo qualche anno, perchè no in fondo? Le cose devono cambiare, giusto?
Cambierà presto, no?
Come esuli che non si rassegnano, ci dicevamo che potevamo ancora dire la nostra nel nostro Paese. Quel detto sui profeti in patria, no, non faceva per noi.
«Marco, c’è tanto da fare lì» mi dicevi, «vorrei poter far qualcosa». Sembrava di stare parlando di uno Stato in guerra, e forse non eravamo lontani dalla verità. Tutti i nostri discorsi restavano parole, nostalgiche e dolorose, che facevano eco nei ricordi delle nostre famiglie lontane. Quel Paese ci aveva mandato via, senza sporcarsi troppo le mani, senza gesta eclatanti – anzi, con quell’aria pacifica e insopportabile di chi dice, fa’ come ti pare.
Ma noi non abbiamo potuto fare come volevamo.
E forse, in qualche modo, lo abbiamo fatto lo stesso.
Tu lo hai fatto di sicuro. Hai capovolto la situazione nella quale ti trovavi quando ti ho conosciuta, hai inseguito progetti e persone diverse, con poco sonno da parte, le energie a puttane e quell’eco lontana di un Paese lontano che, forse, esisteva solo nei nostri discorsi.
Una volta, per il mio compleanno, mi hai regalato il libro sull’Australia “Lucky Country”. Ed era vero. Non lo sentivamo all’inizio, e abbiamo avuto dubbi a lungo e ancora ne avremo, ma di sicuro l’Australia ci ha fornito una piazza sopra la quale potevamo combattere, e far finalmente sentire la nostra cazzo di voce.
E quella voce, gliel’abbiamo ficcata ovunque, finchè qualcuno non ci è stato a sentire.

Sei anni fa non c’era ancora R., e per questo so il miracolo che ha compiuto nella tua vita e sul tuo sorriso. So come stavi prima, e come ti sei sentita dopo. Ho visto perfino, con mio enorme stupore, alcune delle tue insicurezze cedere, mollare sotto il peso dell’allegria disarmante di R., del suo amore totale e intenso come non eri abituata, di una forza che ti ha permesso di realizzare la strada che avevi fatto fin lì, e di quella che ancora avreste percorso insieme.
Ti ho vista crescere insieme a lui, ti ho vista andare avanti in questo Lucky Country che non fa sconti, che non assomiglia alla Parigi dei nostri sogni universitari, o all’Italia che visitiamo quando possiamo, ma che sa regalare le sue giornate di sole a chi ha polmoni buoni per starci dietro.
Non ci vediamo spesso, perchè le distanze di Sydney sanno farsi sentire e l’età fa il resto (la tua, ovviamente, che io sono ancora un giovincello). A volte possiamo anche non sentirci per qualche tempo, ma so sempre, come lo sai tu, che ci siamo sempre. Io so che quel tuo modo di mettermi a mio agio della prima intervista, non è mai andato via, ed è un dono rarissimo. Un dono che mi è tornato utile tante volte, per motivi un po’ più seri di un’intervista.
Il giorno in cui sono stato ricoverato in ospedale, nel 2013, ricordo nitidamente l’immagine di te che ti fiondi dentro l’ospedale, dopo aver mollato tutto, e che ti dirigi verso i piani superiori, passandoci di fronte senza rendertene conto, di fretta e ansiosa come sempre. Ti ho voluta bene in quel momento, perchè ho saputo, una volta di più, che potevo contare su di te. Ti chiamo sorellina, ma in realtà sei stata più simile ad una mamma, specie in quel periodo, quando venivi a farmi visita ogni giorno, quando mi aiutavi col camice (e io facevo sempre i miei scherzi scemi), quando mi facevi una foto prima di ogni test nella paura di non vedermi più (molto rincuorante, davvero), e quando alla fine, quella fatidica giornata dell’operazione, ci siamo abbracciati, io a ridere, tu in lacrime, sorpresi e felici di essere ancora qui, a danzare su questo imprevedibile, folle Lucky Country.

Il gran momento arriverà tra 5 giorni. Sembrerebbe un’ironia il fatto che lo farai proprio lì in Italia, in quel Paese che che ha detto più volte di saper fare senza di noi, ma io credo che abbia un senso. Perchè venendo qui, nel Lucky Country, abbiamo capito una volta per tutte che possiamo e dobbiamo fare tutto quello che ci va di fare. Che il cuore non conosce distanze e confini. Che l’amore per un luogo non dev’essere per forza corrisposto, perchè in quel luogo ci saranno degli affetti che ci ricorderanno sempre chi siamo e cosa stiamo a fare qui, in questo Lucky Country che certi giorni non sembra così Lucky, e altri invece lo è alla grande.
Mi spiace solo che non potrò essere dei vostri, a ubriacarmi al vostro open bar (finalmente ce l’hai fatta?), a cantare i grandi successi italiani anni ’90 a notte fonda con in corpo più grappa che sangue, ad abbracciare te e R. e dirvi, in un sospiro alcolico, che pensare alla vostra coppia mi aiuta a pensar bene di tutte le coppie, e che quello che avete è qualcosa di speciale, che se ne frega di confini e distanze.
A fare un’ultima danza nel Paese prima che venga notte.
Nel bigliettino che mi hai dato insieme a “Lucky Country”, hai scritto, scherzando: un giorno, quando i nostri sforzi saranno riconosciuti, qualcuno scriverà finalmente la nostra storia.
Non c’è bisogno di aspettare, sorellina: la tua te la stai già scrivendo da sola, e da un bel po’. Da sabato, continuerete a scriverla in due, nel modo migliore che sapete.
Buona vita, sorellina, e buon matrimonio.
Ci rivediamo qui nel Lucky Country.

Un abbraccio,
Marco

domenica 18 giugno 2017

Bluff


Un giorno le mie poesie
finiranno in fondo a
ceste delle frutta e chiavi di casa
fogli volanti persi tra i cassetti
nuvole di una tempesta
a cui nessuno fa caso

Versi pessimi e frasi riuscite
andranno tutti nella riciclabile
in bidoni svuotati da uomini
col pensiero del mutuo
e foto di tette nel telefonino
a rischiarargli la giornata

Qualcuno guarderà a quei quaderni
come erezioni insoddisfatte del
sabato sera
a sbadigli del lunedì mattina
dimenticandoli alla prossima
notifica

L’immortalità dell’arte
è come quella della carne
un grande bluff a cui crediamo
finchè ci conviene farlo

Io continuo a bluffare
nelle ore prima dell’alba
piazzando scommesse grandiose e
inutili
con l’aria di chi sa troppo e
troppo poco
nei momenti di assoluto
prima del
mattino.



Marco Zangari © 2017
www.marcozangari.it


Foto di Michelangelo Restuccia

giovedì 15 giugno 2017

Doppia recensione: "Hemingway" & "Leggende Americane" - Fernanda Pivano


Scrivere, nell’ipotesi migliore, è una vita solitaria. Lo scrittore cresce nella sua statura pubblica, mentre nasconde la sua solitudine e spesso la sua opera si deteriora. Perché fa il suo lavoro da solo e se è uno scrittore abbastanza bravo deve affrontare ogni giorno l’eternità o la mancanza di essa. Per un vero scrittore ogni libro è un inizio nuovo in cui tenta di raggiunngere qualcosa che è irraggiungibile. Deve sempre tentare qualcosa che non è mai stato fatto o altri hanno tentato senza riuscire… Ho parlato troppo per uno scrittore. Uno scrittore deve scrivere quello che ha da dire e non parlarne.


Questo sopra è un estratto del discorso che Hemingway preparò e inviò a Stoccolma per l’assegnazione (a distanza) del premio Nobel, assegnatogli quell’anno per il romanzo “Il vecchio e il mare”. Credo che in questo brano ci sia tutto il senso di questo saggio biografico che porta il suo nome, scritto dall’indimenticata Fernanda Pivano. Una persona che per me ha sempre avuto un’aura da leggenda nel panorama italiano, che scrive sul Mito per eccellenza. Cosa ne viene fuori?
Un libro pieno d’amore, soprattutto questo. Nanda ha dedicato la sua vita alla letteratura, e agli uomini e alle donne che l’hanno segnata attraverso tutto il Novecento.

La storia di Nanda e del suo incontro con Hemingway è risaputa: durante la guerra, Nanda aveva tradotto alcuni libri americani che le aveva passato il suo professore (e innamorato che Nanda non corrispose mai) Cesare Pavese, ancora inediti in Italia. Tra questi c’era anche “Addio alle armi”, libro incluso nella censura fascista per il modo in cui tratteggiava, a dire del regime, la disfatta di Caporetto –e anche per il fatto che Hemingway, quando era corrispondente all’estero, aveva definito Mussolini, in tempi non sospetti, “il piu grande bluff d’Europa”. Per questa traduzione, Nanda era stata arrestata dai fascisti.
Anni dopo Hemingway, di passaggio da Venezia, invita la Pivano, ancora appena una ragazza. Nanda, a trovarselo davanti, quasi sviene. I due si abbracciano, Hemingway la fa accomodare, le chiede tutto dei fascisti, e la loro amicizia, durata fino al suicidio dello scrittore, comincia proprio lì.
Si vedranno diverse altre volte negli anni, incontri che la Pivano descrive minuziosamente nel libro. Viene addirittura invitata nella Pilar, la residenza cubana comprata dallo scrittore, dove beveva (parecchio) e scriveva. Hemingway le sottopose perfino la prima stesura di uno suo romanzo, “Di là dal fiume e tra gli alberi”, ambientato proprio in Italia. Restò sveglio tutta la notte, bevendo champagne, mentre Nanda, col cuore in gola, leggeva una pagina dietro l’altra. All’alba guardò Hemingway, e lui capì che non le era piaciuto. Andò finalmente a dormire, e Nanda prese il primo treno per casa (in realtà fu persino troppo generosa, dal momento che “Di là dal fiume” è, a mio giudizio, davvero un libro pessimo).
Di conseguenza “Hemingway” (Bompiani) non può essere un saggio distaccato e imparziale, e nemmeno lo vuole essere. Nel libro ci sono sicuramente i lati negativi di Hemingway (i suoi litigi, le risse, le sbornie colossali, i tradimenti, le sbruffonate), a volte appena sottintesi da Nanda per una sorta di rispetto per l’autore. Quello che però emerge, ad ogni pagina, è l’amore di Nanda per Hemingway, a livello umano prima e professionale subito dopo. Il ritratto che ce ne da è quello di un uomo con un talento innegabile, che ha rappresentato, nel bene e nel male, un cambiamento immenso nella letteratura del secolo scorso. Un uomo che era tormentato, e per fortuna Nanda ci risparmia lo stereotipo del genio sregolato, parlandone invece con affetto, come si farebbe di qualunque uomo perso, che non riesce a trovare l’uscita –finché non se ne creò una radicale, violenta, in una mattina americana, col suo fucile in mano.
Nanda delinea debolezze e dubbi di Hemingway, al di là della figura di super-uomo che ci ha consegnato la storia. Non era un uomo semplice, e nemmeno adesso è un fantasma semplice con cui avere a che fare, per tutti coloro che scrivono. La sua opera e la sua vita erano così profondamente compenetrate l’una nelle altre, che il suo resta un fenomeno unico, irripetibile (e per questo, ancora più ingombrante come eredità per chi è venuto dopo).
Il libro scorre pieno di aneddoti interessanti, di episodi che mai si abbassano al pettegolezzo e permettono, a chi non conosceva l’autore, di restarne incuriositi, e di avere un quadro più completo per coloro che già lo conoscevano.
Personalmente, ho molto amato alcuni libri di Hemingway (Fiesta, Festa mobile, Avere e non avere, soprattutto i racconti) e meno altri (Il vecchio e il mare mi ha fatto bloccare dopo poche pagine), ma so che è una sorta di passaggio obbligato per chi crea, persino 50 anni dopo la sua scomparsa. Nanda rende dolce questo passaggio, guidando neofiti ed esperti alla scoperta di un personaggio e di un mondo letterario ormai scomparsi per sempre.
Quello stesso mondo letterario torna in “Leggende americane” (Bompiani), altro saggio che ho letto subito dopo il primo, trovandolo però meno coinvolgente. In “Leggende” Nanda prende in esame altre figure americane del secolo scorso, oltre Hemingway: Lee Masters, Fitzgerald, Faulkner, Dorothy Parker. Il saggio è una raccolta di articoli, prefazioni e riflessioni che la Pivano fa sui vari autori. Libro interessante, specie per chi ama già questi autori (io non molto, Lee Masters a parte), e sicuramente ne dà una visione più ampia e accurata. La differenza con “Hemingway” sta probabilmente nel soggetto trattato: “Leggende” è, giocoforza, un libro molto letterario. L’altro saggio, basandosi su uno come Hemingway, funziona bene anche come romanzo d’avventura –pieno com’è di donne, viaggi, incidenti, scontri. Perché il mito di Hemingway è interessante da leggere, anche da lontano, a distanza di anni –per capire cosè rimasto, dopo mezzo secolo, dell’uomo che fu lo Scrittore. Un titolo troppo pesante anche per lui, alla fine, ma che ci resta in eredità insieme ad alcune tra le pagine più taglienti, dirette e ben scritte che ci siano mai state in circolazione.
Da leggere.


Marco
www.marcozangari.it