giovedì 30 dicembre 2010

I ricci, le parole, tutto il resto

Metà settembre, caldo. Quello che notavi subito, negli uffici, era la gente che si muoveva a due all’ora. C’era un ritmo tranquillo, da bonaccia, rilassato, molto siciliano. Si chiacchierava, si prendeva il caffè, si fumava nonostante i divieti. Impiegati indaffaratissimi che camminavano con un foglio in mano, e per portarlo a destinazione si fermavano cento volte.
Il caldo appiccicoso faceva il resto. Io e l’altro tirocinante che era con me in biblioteca, rischiavamo di addormentarci. Si sentivano le mosche, il traffico fuori. Non era così che ci eravamo dipinti la vita dentro un Opg –o manicomio criminale, se avete visto troppi film.
Entrò il nostro “capo”, camminando piano piano anche lui, ci strinse la mano, parlò un poco di cose vaghe, lontane, pigre anch’esse, e poi se ne tornò ai suoi mille e uno impegni.
Eravamo ormai con la testa che ci cascava e la bavetta al lato della bocca, quando la porta si aprì all’improvviso ed entrò una matassa di capelli ricci, con sotto una ragazza alta, scura. Si tolse gli occhiali da sole, si presentò come Magda, la nostra coordinatrice, e cominciò a parlare. Parlò e parlò e, dio mio, parlò. Ci scuotemmo dal nostro torpore per cercare di cogliere almeno un decimo di quello che diceva. Le sue parole riempirono la biblioteca, così come i suoi ricci folli. Ad un tratto disse che sarebbe andata al mare e sparì. Io e l’altro ci sedemmo, un po’ storditi. Sembrava che avessimo ascoltato Magda per ore. Guardammo l’orologio, e scoprimmo che erano passati solo pochi minuti.
Finalmente qualcuno ancora vivo, pensai.

Magda ci convinse, quel pomeriggio stesso, a fare il nostro primo gruppo. Mi ritrovai ad entrare in un posto completamente nuovo, un ospedale con le sbarre, una prigione con gli infermieri. Mi sedetti accanto al mio primo ricoverato, e realizzai qualcosa che avevo cominciato a sospettare già quando studiavo, e poi sempre più mentre raccoglievo mango o servivo pizze: quella cazzo di facoltà non mi aveva insegnato niente. Ero uno psicologo, ma solo sulla carta. Avrei dovuto ascoltare mia madre e fare l’ingegnere, anche se avevo 3 in matematica. Mi ripetevo che la psicologia mi piaceva, che era la mia strada, ma in fondo che ne sapevo? Solo nomi, teorie, tecnicismi, autoreferenzialità.
Mi guardai intorno. Negli occhi dell’altro tirocinante trovai il mio stesso spaesamento. Allora guardai Magda. Se ne stava seduta al suo solito modo, le mani sempre impegnate a far qualcosa, il corpo plastico, rilassato, come se si trovasse in piazzetta. Anche la sua faccia era distesa. In mezzo, quel sorrisetto che i ricoverati conoscevano bene. Quel sorrisetto che sapeva smontare tutto in un secondo.
La guardai, e mi sentii subito a mio agio. Tutti, pensai, si sentivano così, in quel momento. Così mi girai verso il ricoverato e, invece di fargli domande freudiane sui suoi sogni e sui rapporti con sua madre, gli dissi semplicemente, Ciao, come va?
E funzionò.

In quest’anno ho dimenticato tutto quello che sapevo della psicologia (in ogni caso non molto), e ho imparato qualcos’altro. Non so se era paragonabile alla psicologia, ma m’interessava infinitamente di più.
Magda aveva un rapporto con i ricoverati che pochi professionisti potevano vantare. Sapeva farli ridere, sapeva accontentarli nel limite, sapeva soprattutto farli sentire umani. Non li chiamava mai “poverini”, non vedeva in loro delle vittime della società, non cercava di salvarli: proprio per questo, era una delle pochissime a trattarli con la dignità che meritavano. Il suo principio era la responsabilizzazione: era l’unico modo per farli tornare persone e non materiale di scarto, come ci suggeriva la gente fuori dall’Opg. Sapeva fare imbarazzare uomini grandi e grossi, scherzare fino a farli ridere col naso, e rimetterli al loro posto con una sola parola. Era una dura che ammetteva pochissimi sgarri dai ricoverati, e ancora meno da noi tirocinanti. Avevamo furiose discussioni, qualche volta liti. Lei stava lì da 4 anni, noi eravamo i pivellini di passaggio, eppure ne sapevamo di più, conoscevamo quel posto già dopo una settimana. Lei ci faceva fare, con l’aria di chi ne aveva visti tanti come noi, e sapeva che fine facevano quelli così. Poi, quando sbattevamo contro quel muro fatto di ignoranza, di regolamenti assurdi, di cinismo, di crudeltà aperta, di ottusità, era da lei che tornavamo sempre, e lei, come una mamma che la sa lunga (o meglio, una zia), ci risparmiava la parte del “te l’avevo detto”, e ci preparava alla prossima batosta. Sapeva che non avremmo mollato. Lei non l’ha mai fatto.

Di questo lungo anno ho mille ricordi, che farli stare tutti dentro il Morgana davvero non si può. Tra tutti, c’erano i nostri lunghissimi discorsi in quella biblioteca polverosa, discorsi sulla vita e il futuro, l’amore finito e quello da far cominciare, mentre il pomeriggio diventava sera, gli uffici chiudevano e restavamo solo noi e quelli che chiamano pazzi –e ormai non riuscivamo più a distinguere tra chi fosse cosa.
Dopo 4 anni diceva che niente ormai la poteva toccare. Non le ho mai creduto. Solo pochi giorni fa, nel parlare della morte di uno dei ragazzi lì dentro, aveva gli occhi pieni di lacrime.
Lì dentro era quella che faceva di più, e senza niente in cambio. Proprio per questo, sono riusciti a farla salire su una macchina diretta verso l’altra casa, in Svizzera. Nessun problema: lei va incontro ad una possibilità per ricominciare, e questa isoletta pigra e stupida ha perso una volta di più.
Quanto a noi, i “suoi” ragazzi, fa molto strano. Anche quando avevamo finito il nostro servizio all’Opg, lei era un riferimento –almeno per alcuni di noi, quelli che non si sono dimenticati. Per questo, da due giorni ci sentiamo un po’ più soli, in questo lavoro che già ti mette a dura prova. Come se dopo tutte quelle parole, ora fosse crollato un gran silenzio, che non sappiamo come riempire.
Quel tuo sorrisetto di traverso, sfottente, non mi perdonerebbe mai per questo post stucchevole. Ma tanto non ti vedo, quindi me ne frego.
E’ stato un onore. Buona vita e grazie di tutto, mate.
Metti quegli orecchini, e andrà tutto bene...

martedì 28 dicembre 2010

Il Grande Problema

Mentre aspettiamo
che arrivi il momento
in cui carriere, posti visitati,
donne scopate, soldi accumulati,
elezioni e ristrutturazioni
e partecipazioni ad eventi
sportivi
non conteranno più niente
dobbiamo farci vedere occupati
a risolvere il
Grande Problema

Ognuno lo fa a modo suo
il mio prevede una
discreta quantità di
fughe in bottiglia, giornate di
sole con mete vaghe, sessioni
d’amore ovunque capiti, lievi
malinconie, folli risate
qualche viaggetto
qualche serata decente
e un po’ di tempo
con una penna in
mano

Per attuarsi, il mio metodo
necessita di tempi
ragionevolmente lunghi
(finchè reggono
fegato & anima)
e si basa sulla coscienza
dell’impossibilità di risolvere
il Grande Problema
qualunque esso sia

Questo mi dà tempo e modo
di godermela almeno un po’
rinunciando a tutto
aspirando ad ogni cosa
e ridendo, ogni tanto, della
faccia seria che mi viene
mentre mi mostro occupatissimo
nelle mie soluzioni
inutili.


(Marco Zangari, 2010)

lunedì 27 dicembre 2010

Il bambino Assange e il cenone di Natale

Qualche giorno fa era il 24, tardo pomeriggio. I miei stavano preparando la solita quantità assurdamente eccessiva di cibo per la serata, le varie coppie del palazzo dove vivo stavano intensificando le liti e le urla che andavano avanti già dalla mattina (perchè a Natale siamo tutti più buoni), e anch’io mi apprestavo al solito cenone potenzialmente minaccioso di scene drammatiche, conti in sospeso e via dicendo. Mi è venuto in mente, allora, che dal mio “Non credo” avevo tenuto fuori il cenone di Natale, ma là forse la categoria sarebbe stata più “Mi sta sui coglioni”.
Questa lieta circostanza mi ha fatto pensare ad Assange. Che cazzo c’entra, direte voi, Wikileaks con quello che la mia prof di psicologia clinica definiva “la tragedia più grande di tutte”, cioè il cenone?
Forse niente, forse la mia mente cercava solo pretesti per essere ovunque ma non lì. Però Assange mi ricordava quei ragazzini che capitano ogni tanto in queste cene –sapete, quelli che con due parole sputtanano tutto e tutti. Ragazzini svegli, con le orecchie sempre pronte a captare quello che si dice in cucina e riferirlo in salotto (e viceversa), ragazzini magari stronzi, che lo fanno per tornaconto, per cattiveria, per noia, o anche solo per disinnescare quella grande bomba di cazzate che è il Natale in famiglia.

Ogni famiglia ha i suoi scheletri, le sue brutte storie, i suoi odi profondi, i suoi istinti quasi omicidi, e poi una bella facciata di stucco per far finta che tutto va bene, che i soldi ci sono, che l’amore non ha mai lasciato quella casa, che i genitori credono nei figli e viceversa. E’ un equilibrio al tempo stesso esile e massiccio, perchè anche le altre famiglie si reggono su questo funzionamento. Basta quindi un piccolo tocco, un soffio, qualcosa di imprevisto, e tutto crolla con effetto domino, trascinandosi via finzioni, recite, maschere.
Il bambino Assange (che sarebbe piaciuto un sacco a Pirandello) ha fatto questo. Non ha scoperto niente di chissà che, in fondo. Niente che non immaginassimo già, comunque. Ma un conto è immaginarlo, un altro è saperlo. Gli Usa complottavano contro l’Iran? Il Vaticano copriva i preti pedofili? Lo zio Renato è un alcolizzato che picchia la moglie? E bè? Dov’è la notizia?
La notizia è che è tutto vero. Che gli Usa, il Vaticano, lo zio Renato, non possono più negare. Che tutto quel teatrino dei pupi, quelle finzioni, sono state smontate. Ed è bastato un attimo. E’ bastato un bambino con le orecchie rizzate al momento giusto. E’ questa la vostra diplomazia, il vostro granitico, impenetrabile mondo occidentale? E’ questa la famiglia che dobbiamo onorare?
Il bambino Assange parla, con quel sorrisino, e a tavola ci sono momenti di imbarazzo. La zia Piera e la zia Giovanna, che siedono accanto e fanno gran vista di volersi così bene –ma la zia Piera sa cosa dice di lei la zia Giovanna? E la zia Giovanna sa che la zia Piera le ha fottuto quell’eredità, anni prima? E della casa in campagna, quella da dividere tra i fratelli ma di cui uno di loro già s’è impossessato, ne vogliamo parlare?
Le convenzioni, le formalità, tutto un SISTEMA che andava avanti da sempre, crolla come una scoreggia loffia.
Che fare? Si minimizza, ci si scherza sopra. Le notizie finiscono in fondo al telegiornale, vicine agli incassi del cinepanettone. Vengono ridimensionate, date a pezzetti, snaturate. La zia Piera fa una risatina isterica, chissà che dice quel bambino, eheheh, non ci cerca nemmeno di NEGARE, o di spiegare, è tutto troppo evidente (quella notizia che NON fa notizia), allora si parla della prossima portata, della prossima estate, di vacanze al mare, di ricordi, di prezzi, di calcio...
Se poi il bambino Assange proprio non vuole saperne di tacere, allora si cerca TUTTI INSIEME di stroncarlo. Ma tu, non è che a scuola non stai facendo il bravo per ora? Ma siamo proprio sicuri che poi Babbo Natale ti porterà quella bici che avevi chiesto? Perchè le bici sono solo per i BIMBI BUONI, lo sai...
Il bambino va avanti. La bici viene nascosta, forse per sempre. Le donne violentate cominciano a fioccare, ora in Svezia, domani negli Usa. La priorità ora è di isolarlo. Nessuno parla più con lui, se le circostanze costringono a rivolgergli la parola, lo si fa di malavoglia. Lo sguardo che comunque gli gettano tutti dice una cosa, universale: tu questa la paghi. Tra le finte risate che ricominciano COME SE NULLA FOSSE, con la recita che riprende vigore, tutti pensano: non finisce QUI. Più tardi, quando sarà solo nella sua cameretta, allora...
Il bambino Assange lo sente. Che avesse o meno uno scopo nascosto, subdolo, ora è tardi. Ha detto la verità troppo forte, si è FATTO SENTIRE, e ha scoperto che questo non si deve fare –non a Natale, non nel nostro Paese. Isolato, abbandonato (ma, purtroppo per lui, NON dimenticato), vede questa buffonata andare avanti –ancora più ridicola, grottesca, perchè è stata smascherata, e con questa maschera calata sulla faccia, che lasciava intravedere l’odio, il cinismo, gli interessi, fa ancora finta di essere buona, disinteressata, nobile. Si continua a sapere e ignorare. Ad accettare cose terribili in silenzio, e ad indignarsi per minuzie in pubblico.
Il bambino Assange. Mi viene da pensare che ce ne vorrebbero di più, come lui, ma poi devo lasciar perdere questi discorsi e cominciare a prepararmi. Metto il mio vestito più costoso, le scarpe più belle, il sorriso più falso.
Sono pronto per il mio Cenone di Natale.
Auguri!

giovedì 23 dicembre 2010

24 dicembre



Strade
quelle di quasi Natale
qualche idea da regalare
ore gonfie di rumore
facce vuote, tasche piene
mani fredde, congelate
che si sente bestemmiare
pure i muri
di paese

Strade
quasi un vizio stagionale
il viaviai a un confessionale
e di prezzi andati a male
le commesse, le vetrine
sempre pronte a luccicare
come fossero comete
come fosse
come fosse il tre d’aprile

Strade
un concerto da cortile
tutto giacca e niente stile
solo gente da evitare
nei contorni, nelle rime
la vigilia di Natale
tra presepi, orsoline e
una donna
una donna da chiamare

... e si aspetta mezzanotte
tra i ricordi, corde rotte
e si aspetta mezzanotte
tra i ricordi, corde rotte

(Cappello a Cilindro)

martedì 21 dicembre 2010

Non credo

Ho avuto delle discussioni ultimamente –negli anni. Così, anche se nessuno me l’ha chiesto, ecco le cose a cui NON credo:

Visto che si parlava di certe discussioni, non posso che cominciare col grande classico: non credo al vostro Dio, e nemmeno ad uno in particolare. Questo non vuol dire che non mi ponga il problema, che non ci pensi. Credo che l’uomo abbia sempre avuto bisogno di questa idea, e anche questo mi spinge a non dare il mio agnosticismo per scontato. In ogni caso, non credo che a questo Dio importi molto cosa faccio di domenica, se io e la mia ragazza scopiamo prima del matrimonio, o dove mi trovo la notte di Natale.

Questo fa aprire un altro corollario: non credo alla Chiesa, qualunque essa sia, perchè creazione dell’uomo, suscettibile a cambi culturali, storici, a varie prese per il culo, superstizioni, ingerenze terrene e lavaggi del cervello. Non credo che un tizio ingioiellato, che va in vacanza d’estate e a sciare d’inverno, abbia qualcosa a che fare con la fede. Non credo che chi rifiuta qualcun altro solo perchè omosessuale, possa venirmi a parlare di amore.

Altro corollario: non credo che il fatto che vuoi farmi ingoiare per forza il tuo Dio possa fare di me una persona di fede, o faccia di te una persona più pia, quindi dacci un taglio, ok?

Poi, più generale:

Non credo nei confini tra i Paesi: ognuno dovrebbe fare un po’ il cazzo che gli pare, fintanto che rispetta quelle regole.

Non credo nella musica alta: se piace a te, non vuol dire che debba piacere anche a me –quindi per favore, abbassa quel cazzo di stereo...

Non credo nel volontariato e nella beneficenza, non perchè non servano, ma anzi, proprio perchè non ne basta mai. Il fatto che funzioni e persone FONDAMENTALI siano completamente affidate alla possibilità di trovare persone di buon cuore, che lo fanno GRATIS (mentre paghiamo un portaborse di un politico 4.000-6.000 euro al mese, per dirne una), è assurdo. In un sistema che funziona, non ci sarebbe bisogno di volontari o donazioni.

Non credo nei soldi. Ne capisco il valore, so cosa vuol dire avere la scadenza dell’affitto e niente in tasca, ma non ci credo. Non credo che, quando ne ho, sono una persona migliore –ma ovviamente quello che mi vende le birre la pensa diversamente...

Non credo che il sesso sia tutto, ma penso che, senza, non si vada da nessuna parte. E’ una parte, e importantissima. L’amore senza sesso è un morto che cammina. L’amore senza BUON sesso, comincia già a puzzare.

Corollario: non credo a tutti i giochini mentali che si accompagnano al sesso. So che veniamo da un’educazione cattolica, che al nostro senso di colpa ci teniamo troppo, eccetera eccetera, però fanciulli, il sesso è sesso, punto (e in questo si include il fare l’amore, ovviamente, che è la versione extra-deluxe del sesso). Se lasciate la cosa così, semplice semplice, avrete una notte da ricordare davanti. Se però cominciate a metterci in mezzo la vergogna, l’imbarazzo, la morale, i genitori, i vicini, i preti, i futuri figli e nipoti, e cosa diranno, e cosa succede, e patapim e patapam, allora è meglio se vi siete pure noleggiati un dvd, per passare la serata.

Il sesso è un momento di divino. E’ una risata. E’ divertente, cazzo. Dovrebbe esserlo. Non credete?

Corollario: non credo a chi inorridisce davanti alla masturbazione –di fronte alla sola parola, MASTURBAZIONE. Se siete così e vi piace il sesso, vuol dire che vi trovate meglio in presenza di altri che di voi stessi. Non è una cosa molto carina, non vi pare?

Corollario: non credo esista cosa più bella del corpo femminile. Ma questo sono io.

Corollario: non credo sia vero che le dimensioni non contano. Insomma, se ce l’hai proprio piccolo, mi spiace per te amico, ma meglio che ti dai ai tulipani. Stessa storia per i precoci, ma per loro ci sono ancora speranze. Non mollate, amici miei!

Non credo nella morale, di NESSUN tipo. La stessa parola, non mi dice niente. Cos’è morale, ora? Cosa lo era 10 anni fa? E cinque minuti fa? Non fatemi ridere. Anzi, fatemi ridere, perchè ora che ci penso...

Non credo a chi non ride MAI. Questo non vuol dire che sia un fan di quelli che girano con un sorriso imbecille piantato in faccia tutto il giorno. Però uno che non sorride MAI, a meno che non abbia buone ragioni, mi puzza.

Però è anche vero che non credo a quelli che vogliono che si RIDA tutto il tempo. La tristezza, l’incazzatura, nei loro limiti, arricchiscono. Chi ne ha paura è solo la persona dai finti sorrisi, che, se ci fate caso, finiscono sempre un po’ storti e stonati. Chissà come mai...

Non credo nelle cose accettate, credute, amate od odiate a prescindere, senza averle MAI messe in discussione. Questo va dal voler bene a mamma e papà al votare per la stessa faccia, a fare un certo tipo di lavoro. Se ogni tanto non ti guardi allo specchio e non ti fai qualche domanda marzulliana (dandoti magari qualche risposta nuova), quello lì che vedi resterà sempre uno sconosciuto.

Non credo in Fiorello, perchè lui, come altri, è responsabile di aver portato avanti una cultura vecchia. Come quando ascolti qualcuno dei NUOVISSIMI gruppi emergenti in classifica, o NUOVISSIMI cantanti, e ti viene da pensare, ma io questo l’ho GIA’ sentito da qualche parte...

Non credo nella musica di Vasco Rossi, o di Ligabue. Non credo che tutti abbiano tante cose da dire. Alcuni ne hanno un tot, dopodichè è finita. Loro hanno finito da un pezzo.

Non credo che Baricco sia un bravo scrittore, non credo che gli scrittori che studiamo a scuola sapessero tenere in mano una penna, non credo che il Nobel dica qualcosa di rivoluzionario. Ah, quasi dimenticavo:

Non credo nell’arte. Ma questo voi lo sapete già.

Non credo a quelli che non si fanno mai una birra. Non credo ai giovani, così come ce li vogliono vendere. Non credo potrei mai avere qualcosa da dire ad un berlusconiano.

Non credo nella bontà per forza.

Non credo che questo sia il migliore dei mondi possibili, anzi non credo nemmeno che questo sia un buon mondo. Anche se, ogni tanto, ha le sue serate buone.

Non credo che questo Paese meritasse gente come Falcone e Borsellino.

Non credo nella filosofia del BENEOMALE: beneomale ce l’abbiamo fatta anche quest’anno, beneomale abbiamo un lavoro, beneomale ci sposeremo. Un’approssimazione dopo l’altra, un accontentarsi e farsela passare per cosa incredibile. Avete mai pensato che la vita può essere meglio di così?

Non credo a Paradisi o Inferni, non credo al Bene o al Male.

Non credo nella gente, intesa come massa. Non mi piace, non mi ci trovo a mio agio. Le masse sono quelle che si macchiano dei crimini più violenti, e tutti possono uscirne con la faccia pulita.

Non credo nei libri di Storia. A malapena mi fido di quelli di Geografia.

Non credo che chi legge tanto sia più intelligente, o che uno che scopa parecchio abbia risolto tutti i problemi (anche se sicuramente se la spassa).

Non credo alla celebrità. Non credo al telegiornale, o alle facce che vedo in televisione. Non credo a chi parla difficile, e nemmeno a chi la vuole fare troppo semplice.

Non credo ci sia stato qualcuno più grande di De Andrè.

Non credo al politicamente corretto. Non credo che siamo tutti uguali. Non credo a chi ci vuole tutti nello stesso modo, vestiti uguali, con gli stessi modi di agire e reagire. Non credo ad un mondo come un carcere.

Non credo nella giustizia, anche se ci spero, ogni tanto. Non credo a chi parla di dolore e non si è mai trovato sul baratro. Non credo che una persona che ha passato le cose più terribili ne esca sempre rafforzata, o anche solo una persona migliore.

Non credo agli E-book, alle feste programmate, ai corsi universitari, a chi è pronto sempre a rompere il cazzo agli altri e non si fa mai un serio esamino di coscienza.

Non credo che un lavoro mi definisca come persona: definisce solo il mio bisogno di pagare l’affitto in un mondo dove i posti a sedere erano tutti occupati.

Corollario: non credo che la mia macchina dica qualcosa sulle dimensioni del mio pene. Anche perchè ho una macchina molto piccola, quindi...

Non credo che spostarsi risolva tutti i problemi, ma spesso ti fa capire come poterlo fare. Non credo che puoi dire di sapere davvero com’è, se non dai un’occhiata profonda a quello che c’è là oltre l’orizzonte.

Non credo che il sole scacci tutti i guai, ma meglio della pioggia è.

Non credo che a qualcuno importi un cazzo di questa mia lista. Non credo che mi risponderete, anche solo per mandarmi a quel paese, ma mi piacerebbe lo faceste. Non credo che capiate quanto mi faccia godere scrivere queste stronzate.

Non credo sia giusto continuare (nonostante potrei farlo per ore), quindi mi fermerò qui. Credo.

domenica 19 dicembre 2010

Volevo dirti che...

Di solito funziona che uno agisce, e che se poi l'altro non approva/non capisce allora chiede spiegazioni. Non sempre le ottiene. Non sempre, quando le ottiene, ne è soddisfatto.

Ora il fatto è che tu mi piaci. E che ho desiderio di passare tempo con te, costruire qualcosa -un sistema,un meccanismo qualunque- che mi dia la garanzia (anche illusoria, per carità) di poter stare più spesso con te. Detta così è la cosa più semplice e bella del mondo. E non dovrebbe mai essere diversa da com'è detta così.

Mi piace fare le cose semplici, con le persone con cui desidero stare. I complotti, i giochi d'astuzia sofisticati preferisco vederli al cinema mentre mangio pop corn e accarezzo la coscia di una ragazza.
Il resto, la vita, quella con TE, lo voglio semplice.
Quindi non farò come si fa di solito. Resisterò alla tentazione di agire (di reagire) e ti darò le spiegazioni direttamente, in anteprima speciale. Finché ho le parole, le userò per prevenire gesti che poi magari non potrei spiegarti.

Volevo dirti che sono FRAGILE. Che il fatto che io parli di più, che rida di più, che sappia essere malizioso con la metà del tuo impaccio, non vuol dire niente. Io ho paura, tanta. E ho un'enormità di dubbi che mi assillano alla porta. Il citofono è un rumore continuo. Dal balcone li guardo in fila al portone del palazzo. Spio dall'occhiolino delle scale la loro massa pressata contro la mia ultima barriera. Li guardo in faccia. Molti li conosco uno a uno per nome.
Li tengo fuori e ci parlo. Dico loro di darmi tempo, di darmelo per pensare e per vivere. Ogni tanto, specie quando sono solo, ne faccio entrare qualcuno e lo faccio sedere al tavolo con me. Ci raccontiamo di noi davanti a una bottiglia di rosso.
Sono FRAGILE, è questo è il significato e l'ultimo senso di questa email.
Non dico che tu pensi il contrario o che non l'abbia mai pensato. Dico solo che forse non te l'ho mai detto così.

La mia sola forza è l'entusiasmo. È la voglia di fare. Nei bisogni così come per i desideri. E tu sei decisamente tra i secondi, il più forte di tutti.
Anche io ho le giornate "un po' così", in cui mi perdo il presente per un motivo o per l'altro. Magari perché mi manca troppo il passato o il futuro. Magari perché non c'è il sole, o magari perché è un po' che non scopo.
Sono i miei momenti, e Dio solo sa quanto è bello lasciarsi sedurre dall'essere improduttivo e/o distruttivo. Ma ho imparato che le persone che voglio vicino subiscono gli stessi eventi. E non per loro, ma in primis per me -che le vorrei sempre al meglio quando le cerco- MI IMPEGNO per resistere. Per pensare positivo, per vivere con entusiasmo. Costa un po' più di fatica e attenzione, ma rende la vita infinitamente più piena. I "momenti così" ti danno un'affascinante malinconia che però riempie solo un vuoto, specie se non ti porta mai verso l'esterno.

Ti voglio bene, sono innamorato di te. Ma ho paura di tutto.
Parlami, avvicinati. Stringimi e dimmi che ci sei anche tu.


Edo

mercoledì 15 dicembre 2010

Gentile Sig. XXX

Gentile Sig. XXX,
le scrivo questa email dopo aver ricevuto una telefonata di mio zio che mi ha dato il suo indirizzo. Mi ha detto che lei magari può trovarmi un lavoro.
Devo confessare che, nonostante la crisi di cui si sente parlare e nonostante quello che ho imparato nella mia tragica esperienza come giovane disoccupato in cerca, credo che lei possa trovarmi un'occupazione. Magari non c'è, ma chissà che allora non la tiri fuori dal suo cilindro come fosse un gioco di prestigio. Sono sicuro che un numero del genere è nelle sue corde. E questo mi fa anche un po' paura.
Ad essere sincero non mi sento affatto felice per questa cosa. Per questa lettera che le sto scrivendo, intendo. Mi sento imbarazzato, abbastanza a disagio. Mentre le scrivo, penso che forse non dovrei mandargliela questa lettera. Forse dovrei mandargliene una diversa, una di quelle che magari è abituato a ricevere. Una di quelle dove si saluta con calore una persona che non si conosce affatto, dove si cita l'influente persona in comune e dove si descrive brevemente le proprie caratteristiche, inonando il tutto con l'aggiunta di enormi qualità personali e l'orgoglio di essere un candidato imperdibile per qualunque azienda.

Già, ma quale orgoglio?

Mi viene in mente, Sig. XXX, che se in fondo io devo ricorrere a lei forse il lavoro non me lo sono meritato. Per qualcuno potrebbe essere un ragionamento stupido, e lei forse penserà che sono un grandissimo idiota. Be' guardi, non sarò io a dire di no.
Ma alcune considerazioni mi portano a riflettere.

Ho messo annunci sul web, ho stampato volantini, ho chiesto agli amici, ma lei non c'entra nulla con tutto questo. Lei è entrato nella mia vita come un fulmine a ciel sereno, come un regalo di Natale che però non era nella mia lista di richieste. E non è che ci siamo imbattuti casualmente per strada, il nostro incontro non è frutto nemmeno della sorte. Il nostro incontro, non se ne abbia perché lei appunto non c'entra niente con tutto questo, NON HA NULLA A CHE VEDERE CON ME.
Certo è che di un lavoro io ne ho bisogno, e lei rappresenta una potenziale risorsa.  Ecco perché mi genera una non indifferente lotta interiore. Dovrei cogliere l'attimo, dare un calcio alle palle all'orgoglio, annientare quel senso di decenza che mi appartiene. Fatto questo, io sarei a sua completa disposizione. Eppure non le nascondo che ho qualche difficoltà, a farlo. Non mi riesce facile leccare il culo a qualcuno, figuriamoci a uno sconosciuto come lei.
Già, perché io non la conosco. Io non so proprio un bel niente di lei. Non so cosa fa la domenica dopo pranzo o per quale squadra tifa, non so che faccia abbia, se sia un cinquantenne calvo e rugoso con l'alito cattivo o se invece è un sessantenne strafigo che non dimostra più di quarant'anni. Ma lei, sig. XXX, ce l'ha dei figli? E che lavoro fanno? Gliel'ha trovato lei nell'azienda di famiglia? No, non ci trovo nulla di male. Cazzo, sono i suoi figli! E se vogliono lavorare nell'azienda di famiglia buon per loro.
Ma il punto è proprio questo: io non sono suo figlio. Io non la conosco. Non conosco il suo aspetto, il suo carattere, le sue imprese, E lei non conosce me. Forse non ha nemmeno sentito mai parlare di me. Forse mio zio mi ha dato i suoi contatti ma non l'ha ancora avvertita. Funziona così, tra managerZ...
Non sono stato nemmeno io a cercarla. Nemmeno indirettamente. Non ho chiesto a mio zio di aiutarmi. Non gli ho detto niente, a mio zio. E benché la mia situazione non sia top secret agli occhi della mia famiglia, non mi sono rivolto a nessuno dei miei parenti.

Qui forse è il caso di darle una spiegazione veloce.
Se cerco lavoro è solo perché voglio andare via da qui. Non dico "per diventare autosufficiente", io voglio un lavoro e dei soldi per "poter andare via e non guardarmi più indietro se non quando lo vorrò io". Non so se è chiaro. E allora immagini che il lavoro, l'anello mancante tra la mia realtà disagiata e la realizzazione del primo di una lunga serie di sogni, me lo trovi qualcuno che fa parte di persone con cui non vorrei più avere a che fare. Bella roba, eh?
Magari lei potrebbe. Magari lei pensa di consigliarmi di fare buon viso a cattivo gioco, di prendere e mettere in banca che qualcosa torna utile comunque.
No, non ci siamo capiti. Io non ne sono capace. Credo che nella vita di ognuno ci siano cose che si possono tralasciare e cose che devono essere nette, perché hanno a che fare coi bisogni primari. E quello di andarmene da qui, di chiudere e -al limite- riaprire alle mie condizioni, è il più primario dei bisogni. Viene assieme alla fame e alla sete, all'impellenza di svuotarmi l'intestino o la vescica.

Insomma Sig. XXX, io questa email non volevo nemmeno mandargliela; che senso ha avuto scriverla? Forse gliene scriverò una versione più "sobria", o più "falsa", faccia lei che in questo caso è lo stesso. Le scriverò un'email dove a parlare non sarò io, e le parlerò di un'altra persona ancora. Un tipo che è la migliore risorsa del mondo, solo che il mondo ancora non lo sa.
Magari da quell'email arriverà un'occupazione, e crederemo di essere tutti felici. Magari, chissà, saremo felici davvero. Magari ci incontreremo per un colloquio informale in un bistrot a Milano, con la scusa di un aperitivo. Magari mi piacerà moltissimo e diventeremo grandi amici. Potrei addirittura pensare di sposare una sua figliuola, se ce l'ha, e -perché no- entrare anch'io nell'azienda di famiglia. Potrebbe nascere di tutto, dall'email sobria che comincerò a scriverle non appena avrò finito di scrivere questa.

martedì 14 dicembre 2010

14 dicembre 2010

Mi ero ripromesso di non parlare più di Lei, qui nel Morgana. Non ne valeva la pena. Oggi però ci sono cascato ancora. Eviterò almeno di nominarla, e userò la terza persona non per formalità o rispetto, ma solo per mantenere le distanze.
Ci tenevo a sottolineare subito una cosa: io non ce l’ho con Lei. Non provo odio nei Suoi confronti, non la giudico migliore dei suoi predecessori, e sono certo che in futuro vedremo ancora dei bei campioni. Non penso che Lei sia la causa di tutti i mali, che tutte le cose che non vanno in questo Terzo Mondo travestito da Ricca Signora sia da addebitare a Lei. Non ho mai pensato che quelli che si spacciavano per Suoi avversari fossero il Bene, e lei solo il Male. Non credo, soprattutto, che una volta che Lei non sarà più sulla scena politica, i problemi magicamente spariranno.
Sarebbe facile, consolatorio, ma è proprio questo il gioco della politica. Parlare di ideologie, di schieramenti, di idee, ormai non fa neanche più ridere. Non metto in mezzo i concetti di amore e odio, come spesso ha amato fare Lei. La faccenda è stata già banalizzata, volgarizzata, sputazzata abbastanza, per quanto mi riguarda.
Non La odio, io. Se qualcosa del genere lo provo, è solo nei confronti della Sua Italia. Lei non è lì per caso, lo sappiamo. Lei si meritava questo Paese, e questo Paese si meritava Lei. Vi siete amati per 16 anni, probabilmente lo farete ancora, in un rapporto perverso fatto di corna, bugie e urla, di quelli dove la Vittima entra nella parte e torna, torna, torna sempre.
L’Italia si meritava uno come Lei, perchè Lei era tutto quello che questo Paese voleva. Non è stato un caso. Non m’importano i motivi per cui lei è sceso in politica –anche perchè non credo esista nessuno più che lo fa per qualche ideale lontano dal conto corrente. Lei è stata la persona giusta al momento giusto. C’era voglia di nuovo, ma che fosse nuovo solo all’apparenza. Agli Italiani, Lei lo sa bene, piace vedere sempre la stessa cosa, sia in tv che nella vita. Non amano le sorprese, forse perchè, sotto quell’aria da sole, mandolino e grandi sorrisi, sono dei pessimisti che si aspettano sempre qualche temporale.
Lei è arrivato e ha saputo interpretare il ruolo dell’Italiano per Eccellenza: in un paese di furbetti, Lei è stato il più furbetto; in un paese sempre più arrogante, cafone, devoto alla fica, ai soldi facili, incurante degli altri, trafficone, maleducato, ottuso, caciarone, ignorante e strafottente, Lei li ha bruciati tutti. Era giusto che stesse lì. La Sua Italia, però, non è la mia. Non è quella che mi è mancata mentre ero dall’altra parte del mondo, non è quella di cui mi parlava la gente emigrata, non è quella dei miei nonni; ma è quella che ogni volta mi accoglie all’aereoporto con spinte, gente che salta la coda, personale sgarbato, stronzi che urlano stronzate al telefonino; è quella che parcheggia in seconda fila bloccandomi la macchina e poi vuole anche ragione; è quello che salta il turno e non si gira nemmeno a guardare; è quello che getta la sua merda dal finestrino, tanto ci sarà qualcuno a raccogliere. E’ l’Italia che evade, quella raccomandata, quella che prega e poi fotte il prossimo, che guarda Vespa e chi s’è visto s’è visto, che ha più fondi per le auto blu che per la cultura. E’ un Paese che non si stupisce più di niente, che gli fanno le cose peggiori, lo prendono a calci in culo, lo sfottono davanti, e lui niente, impassibile, invecchiato, stanco, abituato a tutto. Un Paese che un giorno caccia via a colpi di monetine uno come Lei, e anni dopo gli dedica una via a Milano. Dove le bombe esplodono e le domande restano sempre senza risposta.
E una risposta non si può trovare se non la si cerca nemmeno più, non Le pare? E’ questo quello che Lei ha fatto a quest’Italia. Ha suonato il Suo flauto, l’ha addormentata, e mentre dormiva ha fatto quello che doveva fare. Ci stiamo ancora riprendendo (ma sarà poi vero?) dai danni causati dall’ultimo dittatore che abbiamo avuto, più di 60 anni fa. Quanti anni ci metteremo a riprenderci dai danni che sta causando Lei a questa Italia? E non parlo della monnezza, dei tagli, dei miracoli mai avvenuti. Intendo i danni CULTURALI, ficcati ben dentro la mente della gente. Per quanto ancora, dopo di Lei, continueremo a fare i furbetti, i vecchi porconi, gli arrivisti, gli arroganti? Quelli che vogliono tutto e subito, che se ne fottono, basta che hanno una particina nel Grande Fratello? Quelli che non sanno fare niente e vogliono diventare famosi proprio per questo? Quelli che appaiono e basta?Quando torneremo ad essere Italiani Brava Gente (semmai lo siamo stati?).
Oggi ha vinto quest’Italia. Anche il metodo utilizzato per vincere, sono sicuro che non ha fatto scandalizzare troppo i suoi molteplici elettori.
Eppure c’è anche un’altra Italia. Non rumorosa, o forse solo numerosa come la sua, ma c’è. E’ l’Italia che sale sui tetti, che protesta, che cerca di far sentire civilmente la sua voce. E’ l’Italia che ha spento la televisione, che non segue la sua squadra, che non legge i suoi giornali, che non compra le sue pentole. E’ l’Italia che non La odia. E’ l’Italia che non la vede nè come un eroe nè come un mostro, ma solo come uno dei tanti (che colpo terribile al Suo ego!). E’ l’Italia che avete cercato di strangolare, di etichettare, di zittire, ma che riesce sempre a farsi sentire.
I libri di Storia che scriverete saranno pieni dei vostri trionfi. Questa Italia, quella sana, quella che ancora è viva, non ci sarà, perchè non sopporterebbe l’idea di trovarsi nella stessa pagina con uno come Lei. Ma basta cambiare pagina, per cambiare tutto.
Capita, qualche volta.
Distinti saluti.

giovedì 9 dicembre 2010

musica?

http://www.myspace.com/themasturbones

RINASCITA???

Sono davvero felice, cazzo. Sono così felice che potrei farmi una sett....ehm due giorni in crociera coi miei.
Perché? Perché questo Morgana ogni tanto si riprende. Perché arriva una folata d'aria fresca, o perché qualcuno di "quelli che leggono nell'ombra" a un certo punto esce da quella tana e interviene e dice la sua.
Questo è il senso di una comunità. Non vi piace "comunità"? Neanche a me. Continuiamo a parlare di Hotel, allora. Mi piace che non ci siano solo sfoghi singoli dalle proprie stanze, grida che ti svegliano nel cuore della notte. Mi piace che ogni tanto ci si ritrovi un po' nella hall, a discutere. A parlare di quelle grida, o anche solo a dirsi "Hai sentito quel coglione che urlava, l'altra notte?".
In fondo stare in un albergo dovrebbe essere proprio questo. Parlare ascoltare discutere, magari al bancone un po' sbronzi, senza mai prendersi troppo sul serio. Non facciamo finta di niente: siamo un albergo, non un condominio.
Un abbraccio a tutti.
Edoardo.

In risposta ad un post: Parlando di Arte durante una difficile Digestione, in un Giorno particolare

Mi siedo, ancora in fase di digestione, e cerco quel che ho da dire. Apro i canali dalla testa alle dita, senza che nè l’una nè le altre ne sappiano niente.
Riguardo il post di Edoardo ( http://hotelmorgana.blogspot.com/2010/10/un-prodotto-di-qualita-e-la-migliore.html), mi trovo d’accordo sul fatto che la sciatteria di un prodotto di questo tipo è inaccettabile. O dai il massimo sempre, bello, o meglio che il culo non lo muovi da casa. E sicuramente, non mi devi far pagare per le tue stronzate.
Sul book-on-demand, non ho molto da dire. Se pensi di aver scritto qualcosa che il mondo DEVE leggere, e sai già che di pubblicazione vera non se ne parla, allora perchè no? Ma quello è un problema tuo –così come lo sono i tuoi quattro figli, il tuo SUV e la tua passione per la musica house. Finchè io non devo averci niente a che fare, ne sono ben felice.
Sull’e-book (non citato nel post) ho un’altra idea che però non vado ad esporre perchè sono, come detto, ancora in digestione.
Per quanto riguarda il commento di Ex-tension –ebbene sì, io sono quell’amico lì, quello che corregge e ricorregge quel libro. Mi fa piacere quello che dici. Sì, ho la sensazione che lo sto migliorando, ma forse mi piace solo pensarlo. Peggiorarlo è difficile, ma sempre possibile.
E poi parli di arte, dell’artista. Però c’è un problema. Parli dell’artista che si è rinchiuso nel suo eremo, che non comunica, che non deve spiegare, e poi sei tu il primo ad usare un linguaggio sofisticato, elevato. Per carità, io sono un purista (e un rompipalle) della lingua italiana, che amo fino alla perversione –ma qui non parliamo di SAPERE, ma di COMUNICARE.
Ed ecco il punto: l’arte come COMUNICAZIONE. Non è tutto qui, ma è in questo che io ne vedo il valore ultimo. L’arte, in sè e per sè, non esiste. Non vuol dire niente. Ciò che è arte da una parte, è merda (e a ragion veduta) dall’altra. L’arte che non RIESCE a comunicare, è morta. L’artista che sa tutto, tranne come comunicare la sua arte, è spacciato.
Poi su questa comunicazione se ne può parlare. Qualcuno ha detto che non si può non comunicare, e mi trovo d’accordo, ma con l’arte entriamo in un’altro campo, ci sono in ballo troppe cose, abbiamo tirato troppi fili, teso troppe trappole, inventato troppi termini, troppe scuole, troppe definizioni, abbiamo ingrassato troppi critici, e quello che ci troviamo davanti è un’arte che non riesce più a dire niente.
Noi stessi non siamo più abituati ad avere davanti un’opera d’arte che sappia comunicare qualcosa: ecco perchè per vedere uno spettacolo ci affidiamo alle recensioni, per vedere un quadro leggiamo la guida. Non c’è immediatezza del messaggio, non c’è spontaneità. La pubblicità ti dice che la merda è buona da mangiare, e tu il giorno dopo ne compri un etto e mezzo e te la fai al forno.
Se poi continuiamo a dare merda alla gente e loro si abituano e se la fanno piacere, possiamo poi fargliene una colpa?
Un mio amico pittore non sarà d’accordo, ma l’arte, per me, non è tutta uguale. Puoi sapere utilizzare le parole, i colori, lo scalpello, e questo fa di te un buon artigiano, ma NON un artista. Non stai dicendo niente, per quanto lo stai facendo in modo tecnicamente ineccepibile.
In questo non sono d’accordo con te, Ex-tension: l’artista NON deve spiegare. Più tempo, anzi, se ne sta lì nel suo eremo, e meglio è per tutti, sia per la sua arte che per chi ne usufruisce. Lui non deve agli altri niente di più che la sua opera. Parlare di arte può essere divertente, fino ad un certo punto, ma chi fa arte deve limitarsi a questo: ci penseranno gli altri, ad istituire accademie e Coppe del Nonno.
L’artista ha detto tutto quel che doveva con la sua opera, punto. Non deve rettificare, spiegare, non deve aggiungere, non deve fornire un contesto. Quando i colori sono asciutti, quando il file Word è salvato, allora da lì in poi sarà il pubblico a decidere se e come prendere quell’opera. Credo alla COMUNICAZIONE più ancora che all’immortalità. Un artista che sa dire qualcosa è, IN POTENZA, un rivoluzionario, uno che fa saltare Poteri e Mondi con un verso. Non vedete che forza, che energia, che vita c’è in tutto questo?
Poi magari quello che l’artista ha da dire è risibile, stupido, banale. A quel punto è il momento dei pomodori, dei fischi. Ci stanno, il pubblico pagante si è guadagnato anche quel diritto. Un pubblico pagante e PENSANTE, però: quanti perfetti imbecilli osanniamo perchè qualcuno ci dice che sono grandi geni? Quanta gente con le palle quadrate nasce e muore nell’ombra perchè il SISTEMA-ARTE (e non la sua arte, badate) lo ha schiacciato nell’ingranaggio?
Con questo libro ho cercato di dire delle cose: forse le ho dette male, forse le cose dette, in sè, non valevano molto per gli altri. Per me, valevano abbastanza da farci un libro. E così ho fatto.
Bah. Scendo dalla mia cattedra –che ci si sta scomodi- e finisco di digerire. È l’8 dicembre, un giorno strano. Balconi con luci schizoidi appaiono nelle colline buie. Rumori di feste, nessuno per strada. Penso scriverò una poesia. Ho delle cose da dire. Qualcosa resta sempre in fondo al barile. Come le dirò, poi, è un conto in sospeso tra me e questa notte di festa e buio.
Buonanotte.

lunedì 6 dicembre 2010


mercoledì 1 dicembre 2010

UN CAZZO DI LUPO DI MARE

Certe volte ci passi i giorni, senza trovare qualcosa da dire. Quello che alcune notti sembra un fiume inarrestabile e inesauribile, all'improvviso si prosciuga. E tu dagli, a cercare l'acqua nel deserto. Lo giri in lungo e in largo, sempre più frenetico, col solo risultato di far arrivare prima la sete. Ti danni l'anima dal mattino alla sera, affondando nella sabbia. Poi crolli esausto e quando il sole ti sveglia, il giorno dopo, capisci che potrebbe anche essere l'ultimo. Le riserve sono finite, e il calore ti toglie le idee. Ti guardi intorno, ma tra il nulla e i miraggi non c'è nessun posto che ti offra riparo.
Crolli di nuovo, incerto sul fatto che riaprirai gli occhi ancora una volta.

L'unico senso è resistere. Sopravvivere nei momenti peggiori. Garantirsi un futuro, magari migliore, e preservarsi in vista di esso.
Domani un fulmine può prendere il ferro della tua spina dorsale e scaldarlo di nuovo, e tu devi avere almeno la forza di battere un colpo. Da lì, scintille di vita illumineranno tutto l'intorno. Da lì, una nuvola di vapore farà tornare la pioggia.

Gocce che uniscono polvere e sabbia, terra e mare, e di colpo sei di nuovo in balia della corrente.
E ora hai i remi, hai la barca, hai la vela che sventola. Nessun orizzonte è irraggiungibile, nessun porto ti fa più troppa paura. Sei un cazzo di lupo di mare, e guardi quei fulmini con gli occhi di sfida. Sei Dio, tra le onde. Il deserto giace milioni di leghe sotto di te. E non ti manca per niente.

"La vita non ci dà mai le cose come le vogliamo. L'importante è che ce le dia".

Edoardo