lunedì 9 luglio 2012

L'inverno e' finito




PROLOGO - ESTATE
Mi trovavo in piedi davanti alla finestra, in una stanza d’hotel un po’ diversa dal Morgana. Era una giornata nuvolosa, e quella lá fuori era la Spagna. Avevo girato parecchio e mi erano rimaste dentro diverse cose. Le strade di Barcellona sembravano fatte apposta per farti pensare alle feste che avresti potuto viverci in vite diverse da quella che avevi al momento. Assaggiavi di corsa e subito dovevi andar via.
La stanza era sottosopra, le valigie aperte e piene per metá, e lei stava sul letto. Lei immensa su quel letto immenso, lei coi capelli spettinati e tra lenzuola stropicciate da notti in cui si era parlato pochissimo e ci si era detti lo stesso tutto quello che serviva. Lei ora mi guardava mentre me ne stavo in piedi davanti alla finestra, e dal suo volto non riuscivo a capire cosa stesse pensando. Non riuscivo nemmeno a capire se fosse un sogno, un incubo o, peggio ancora, nessuno dei due.
Al momento ero preoccupato del come tirar fuori tutte le cose che quella Spagna irreale mi aveva lasciato dentro. Per quello, peró, avevo una soluzione.
C’era ancora una cittá da visitare.

INVERNO
Oggi é il 9 luglio, ed é inverno qui a Sydney. Il 9 luglio. Non riesco a capire come possiamo giá essere arrivati a luglio.
Il tempo mi é scivolato via dalle mani, tra propositi, liste di cose da fare, entusiasmi e cazzeggi. Il tempo che se n’é andato, che forse mi hanno rubato, che forse mi sono fatto rubare, ma non é questo il punto.
Il punto é questo inverno di Sydney, con gli scarafaggi che resistono tenacemente alle gelide folate notturne e i bus che barcollano ubriachi tra le pioggie senza fine. Tutto sembra bloccato, anche in questa bellissima cittá, perché é una cittá estiva. É quello il guaio: essere estivi quando fuori é inverno. Non sei preparato ai primi freddi. Gli australiani che restano fuori, come bimbi delusi, col loro surf in mano e il naso che comincia a gocciolare.
200 anni di storia non gli hanno insegnato a come coprirsi d’inverno, e il sangue anglosassone ha fatto il resto. Cosí ovunque ti trovi, anche se hai addosso 3 strati di vestiti, puoi star certo che, facendo vagare lo sguardo, troverai almeno un pazzo che gira in maglietta. Fa anche parte di questa ostentata virilitá, di uomini di pietra che bevono ruttano scopano lavorano sodo e non si lamentano mai. Peró molto é dovuto al fatto che non sono preparati all’inverno, che da queste parti é un incidente che ogni tanto capita ma non dura mai troppo a lungo.
200 anni di storia con poche guerre, alle quali sono attaccati con un fervore patriottico quasi morboso –come se ci fosse qualcosa di bello ed eroico in quelle guerre, in qualsiasi guerra. Eppure l’inverno non sanno cosa sia, e cosí vanno avanti speranzosi, amici di tutti, contenti con poco. Noi europei, é un’altra storia. La nostra é stata una guerra continua, un bombardamento che ci ha seguito nei bus, negli uffici di collocamento, nelle poste, nelle strade. Non potevamo cedere un passo, non potevamo farci mettere sotto. Bisognava prendersi un vantaggio, anche quando non serviva. Ci siamo scannati tra di noi per un parcheggio. Era ovvio che finisse com’é finita. Non potevamo reggere tutto quel dramma, tutta quell’attesa.
Qui le membra si rilassano, anche d’inverno. Segui un ritmo facile. Fai le cose che devi fare, poi torni a casa e stop. Ogni giorno un po’ uguale all’altro, ogni giorno confermato dagli altri che fanno le stesse cose come te, e tutti beati di questa nostra normalitá sub-equatoriale. In fondo qui il lavoro si trova e viene pagato bene, la gente segue le regole e paga le tasse, le auto scorrono senza intoppi, il morale é alto e le brutte notizie quasi scomparse dai telegiornali. Ogni tanto ci si inventa una crisetta, un qualche finto scandalo politico, giusto per non annoiarsi, ma questo non é ancora inverno. É una vita facile, come dicono tutti. Lavori tutta la settimana, poi al venerdí vai al pub e ti sfracelli lí. Gli australiani stanno in belle casette, hanno viste sull’oceano, mangiano bistecche alte due dita e bevono birra sotto il sole. Che cazzo vogliono di piú?
Eppure, questa vita facile a volte mi sembra troppo facile. Non ci credo, non posso crederci. Sono europeo, italiano, siciliano. Per me la realtá sono le bombe, vere o simboliche che siano. Devo rischiare le botte per sentirmi beato.
D’estate é una cartolina, ma l’Inverno apre qualche crepa su questa fabbrica dell’ottimismo. Il freddo accentua l’individualismo degli australiani, aumentando le distanze tra loro. É allora che pensi che la guerra ha reso stronzi molti tra noi europei, ma ne ha anche reso umani molti altri. Quelle amicizie di trincea, quegli amori consumati al volo mentre le granate volavano dal cielo. E poi la sera, se eravamo sopravvissuti, ci raccontavamo delle storie intorno a un bicchiere.
Qui la vita facile porta ad uscite facili con amici facili, con discorsi molto facili, che quando torni a casa poi non ne ricordi piú nemmeno uno. Pure tu ti abitui a quel ritmo facile, e cosí smetti di pensare troppo. Vai in automatico. Fai quello che c’é da fare e poi basta cosí, ti riempi un bicchiere di rosso e amen. Non ci sono piú grandi avventure, o aspettative, qualcosa di grande, qualcosa che ti rapisca.
Né sogno né incubo, alla fine.
L’inverno mi congela inchiostro e umore, come cantavano gli Eva Mon Amour. Ormai ero arrivato a dare per scontato il non scrivere piú. Nemmeno leggevo piú, se é per questo. Non mi serviva. Per la conversazione del venerdí sera, mi bastava un giro su Facebook. Dove erano finiti i miei eroi, i miti, dove erano i grandi sogni che avevo fatto? Il freddo li aveva fatti dissolvere come una scorreggia? Era stata l’Australia, la mancanza di cultura di un popolo che ha comunque mille altri pregi? Se stai in Paradiso, ti lamenti del fatto che non ci sia acqua minerale?
Ho vissuto facile per un anno, all’australiana. Gli orari dati dal lavoro, le mille cose da fare, i miei 32 che stanno per scoppiare nei 33, l’assestamento a questa nuova vita, a questo nuovo Paese, sono stati tutti elementi di questo brodo di promesse e ripensamenti.
Mi sono messo il culo comodo. Ciao scrittura, ciao parole, ciao libri.
Poi stasera mi trovavo stravaccato come al solito nel divano di casa mia, a spulciare pigramente su internet dopo averci passato un’intera giornata al lavoro. Si parlava con la mia lei di uno scrittore ancora vivo che ammiro molto. Mi ero pure dimenticato che lo ammiravo, tanto ero lontano da quel mondo. In qualche modo il discorso é finito sullo scrivere.
-Perché non scrivi adesso, fa lei.
-Perché non ho un posto dove farlo, faccio io.
-C’é un tavolo in cucina, no?
E io lo sapevo, che c’era un tavolo in cucina, e in condizioni normali avrei trovato qualche scusa al volo e sarei tornato a cazzeggiare sul web. Ma stavolta non potevo, per un motivo semplicissimo: il suo sguardo era lo stesso della donna del sogno in Spagna. Di quel sogno che non sapevo nemmeno se era un sogno.
In quel momento ho ricordato che la donna mi stava sfidando con quello sguardo, da lí sdraiata sul letto. Mi fissava mentre io fissavo fuori e pensavo solo:
Parigi.
La mia prossima cittá sará Parigi.
E in quel sogno-non sogno, Parigi voleva dire qualcosa di preciso. Parigi é sempre stata per me il mio riferimento culturale. Tutto quello che mi ha mai attirato é passato da lí, in tempi antichi o recenti. Nemmeno Bunker Hill, nemmeno Big Sur possono competere. Jack Hank John Ferdinand Ernest Jim Oscar Charles Arthur Vincent, erano tutti lí. Ogni volta che ci cammino, per me é uno squarcio su un altro me. Forse é un sogno malato da quindicenne. Forse é la guerra che mi é entrata nelle ossa. Fatto sta che nel sogno (sí, era un sogno) ho guardato fuori dalla finestra e ho pensato che tutta quella Spagna che avevo dentro avrei potuto tirarla fuori solo a Parigi.
Era lí che sarebbe finito il mio inverno. Lí, che sarei tornato ad una vita non facile, affamata e in salita.
Era lí che la mia testa sarebbe andata, ogni volta che avrei pensato di lasciar perdere questo giochino.
Cosí, nella realtá di oggi, ho staccato internet e sono venuto di qui, sul tavolo della cucina. Mi sono fatto spazio tra i bicchieri vuoti, mi sono seduto, ho acceso il portatile. Faceva freddo.
Era inverno, qui.
Poi, una volta che ho cominciato a battere sulla tastiera, l’inverno é finito.