martedì 27 novembre 2012

Smisurata Preghiera




Ho sempre trovato struggente (sì, oggi è uno di quei post lì) il finale strumentale della “Smisurata preghiera” di Fabrizio De Andrè.
Tutta la canzone lo è, e il testo è uno dei più riusciti di Faber (e che mi ha costretto a leggere tutta la trilogia di Alvaro Mutis su Maqroll il Gabbiere, che qua e là, con rispetto a Fabrizio, concilia parecchio il sonno).
La frase “Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione” è da tatuare sull’anima di tutti noi, poveri figli di un mondo che, per capirlo, dobbiamo attraversarlo da cima a fondo con valigie e ricordi e pensieri strappati al sole e alle tempeste.
E quell’invocazione ad un dio –quale che sia- un dio che De Andrè ha sempre negato e sempre cercato, specie dopo l’esperienza del sequestro in Sardegna.
Un dio dal quale De Andrè ritorna alla fine della sua vita, e che non era per niente quello dal quale era partito, che gli avevano insegnato –un dio frutto della sua ricerca, dei suoi errori, delle sue bevute e delle sue puttane, dei pianti e delle risate, e proprio per questo un dio infinitamente più umano.
Un dio interessante come quello che Dostoevskij aveva scoperto davanti al plotone d’esecuzione, o come quello di Van Gogh nel suo campo di grano.
Un dio che qualcuno, distrattamente, potrebbe finire per chiamare amore.

Finito il testo (intorno al quarto minuto), parlano gli strumenti –dapprima concitati, a riprendere i motivi della parte cantata, per poi diradarsi via via come nebbia davanti ad un sole visto per l’ultima volta.
Provate ad ascoltare. Non e' come se la vostra anima scivolasse dolcemente lungo il fiume, in una sera di maggio?
Non so se è suggestione dovuta al fatto che questa è l’ultima parte dell’ultimo pezzo dell’ultimo album di De Andrè, ma questa canzone mi è sempre sembrata diversa dalle altre. Come se in qualche modo Fabrizio sapesse, e avesse voluto dire tutto in questi 7 minuti.
Le cornamuse lasciano il passo a toni lievi e maestosi, archi che consolano dopo tanto soffrire, alcune pause che possiamo solo provare a riempire con quello che abbiamo.
Questa è la parte che parla della fine di tutti gli uomini –di quegli uomini per i quali, nella prima parte, Fabrizio chiedeva grazia e riscatto “dopo tanto sbandare”, con il Cielo in eterno debito con loro. Quella fine che ci rende tutti uguali, e così umani proprio nel momento in cui cessiamo di esserlo.
Mi fa pensare anche alla sua fine, personalissima, come se la sentisse vicina e volesse farsi due conti.
Archi e armoniche parlano di un uomo che sta lasciando andare via la vita, quella vita che aveva amato così tanto, ma non sembra triste nè spaventato. Mi sembra quasi di vederlo lì, seduto ad un caffè col bicchiere sempre accanto, la sigaretta accesa, mi sembra di vederlo lì che fissa la gente passare, i marciapiedi di Genova, di Parigi e di tutte le strade del mondo, e pensare: dopotutto, non è andata male.
É finita, ma e' stato bello esserci.
Lo vedo lì a fumare, a ripensare a facce, amori e notti sbagliate. Lo vedo lì a fumare quella sigaretta che lo metterà nei guai, e lui lì ad andare fino in fondo.
Lo vedo cercare di capire cos’è questa morte di cui tutti parlano, cosa vuol dire non esserci più, chiudere il libro e rimetterlo sullo scaffale.
La musica si fa dolcissima, emozionante come un violinista di strada che suona solo con l’anima. Sa di certi tramonti sul mare, di una ragazza incontrata per caso, parla di cene con amici, di bevute con compagni di sbronza, parla di visi di bambini. Lui sempre lì, a fumare quella sigaretta e a guardare con nostalgia tutto quello che dovrà lasciare.
E forse morire è nient’altro che questo: dover lasciare un posto che hai amato, che per te e solo per te ha voluto dire qualcosa, e non tornarci mai più.

Magari è per questo che noi poveri viaggiatori impariamo dai nostri viaggi e sperimentiamo e cresciamo, ma nel frattempo cediamo delle parti di noi ad ogni addio.
Ma in quel momento, lì seduto con la sua sigaretta, tutto questo non importa più. Le esperienze, i chilometri, le delusioni e le sorprese, diventano tutte foto da farsi passare davanti con un sorrisino del tipo, ma guarda tu, quanto tempo.

La musica si fa malinconica e riempie il cuore. C’era un solo modo di onorare quella vita ed era viverla, e quello era stato fatto.
Adesso era ora di spegnere la sigaretta, vuotare il bicchiere e pagare il conto.
La musica va in dissolvenza, poi finisce.
Buon viaggio.



venerdì 23 novembre 2012

Trovarsi a metà strada

Ci hanno insegnato a camminare per permetterci di muoverci, di andare dove vogliamo.
Un passo alla volta, possiamo arrivare ovunque.
Allora perché non possiamo raggiungere certe persone?
Perché ci è precluso questo viaggio, forse l'unico che vorremmo veramente compiere?
La verità è che spesso noi uomini ci dimentichiamo come si fa a camminare, per quanto possa essere semplice.

Basterebbe mettere avanti un piede, poi l'altro e continuare così, fino a raggiungere la meta, rallentando se il terreno è scosceso, muovendoci più in fretta e con sicurezza se il sentiero è piano, aiutandoci con le braccia a mantenere l'equilibrio se necessario. Così facendo, potremmo andare veramente ovunque.
Ma la verità è che siamo diventati troppo pigri per farlo.

Appesantiti da vestiti invernali che ci proteggono dal freddo anche quando è estate e si muore di caldo, rinunciamo a spostarci.
Spaventati da un terreno insidioso, preferiamo rimanere immobili ad aspettare.
Oppure, convinti dell'inutilità del viaggio, preferiamo non provare neanche a fare i bagagli.
E rimaniamo fermi, in attesa, convinti magari che sarà l'altra persona a raggiungerci.

Potrebbe anche accadere, ma la verità è che a volte il viaggio è lungo, troppo lungo per essere fatto per intero. Cosa accade dunque? Dopo giorni, settimane, mesi passati in viaggio, chi cercava di raggiungerci rinuncia e si ferma: si arrende perchè ha bisogno di riposo. Se sperava di riuscire ad arrivare fino a noi, ecco che si arrende, conscio dei suoi limiti.
Tuttavia, non rinuncia all'idea di vederci arrivare da dietro l'angolo.
Non sa però che noi siamo fermi e che dunque non svolteremo mai quell'angolo. Lui ha viaggiato per niente, ma di chi è la colpa? La colpa è nostra, che siamo rimasti fermi ad aspettare.

Non si può aspettare per sempre, bisogna agire. Se tutti ci impegnassimo per avanzar, un passo dopo l'altro, gli uni verso gli altri, allora sarebbe tutto più facile: ci incontreremmo a metà strada e tutti i problemi si risolverebbero.
Basterebbe aver la buona volontà di provare capire il punto di vista altrui e cambieremmo il mondo

Noi uomini dobbiamo ricominciare a venirci incontro, a metà strada; forse in questo modo avremo una vita migliore. La felicità, sicuramente, ci apparirebbe meno lontana.

lunedì 19 novembre 2012

La maggioranza ha sempre ragione



L’altro giorno mi è capitato sott’occhio questa pubblicità del tipo –comprate la rivista “Y”, perchè 9 milioni di australiani non possono essersi sbagliati.
Ma manco per il cazzo, dico io. Nove milioni di australiani possono sbagliarsi eccome, e non per la nazionalità. É il numero, quello che mi fa incazzare, e che mi fa paura.
Sarà che sono per le minoranze perchè nella mia vita, per un motivo o per un altro, mi sono spesso trovato a farne parte. Sarà che i Grandi Gruppi mi sono sempre sembrati delle Grandi Truffe. Sarà che le statistiche mi annoiano, senza dirmi niente. Se qualcuno dice che c’è un 90% della popolazione a cui piace mangiare merda fritta, io continuo a pensare che c’è un 10% a cui la merda fritta proprio non piace.

Ma le statistiche servono a questo: coprire le piccole realtà con quelle grandi, distruggere la varietà a favore della popolarità. La percentuale più bassa cancellata dal tutti-fanno-così (ma tutti chi? I più furbi, i più bravi, i più coglioni?). Guardate, mi sta persino più simpatica quella parte di “non so/non risponde”. Preferisco il loro dubbio minoritario alle certezze granitiche della maggioranza.

La maggioranza... quante cose buone abbiamo buttato nel cesso per colpa della maggioranza? Quante volte ci siamo visti etichettare e guardare storti perchè non ne facevamo parte? Quante volte, perfino, ci siamo fatti cambiare il destino da questo gruppetto che si faceva forte dei numeri?
Eh no, miei cari: 9 milioni di Australiani possono avere torto come chiunque altro. Possono essere stati i 9 milioni più coglioni –ma anche se così non fosse, non importa. Non me ne importa niente di cosa fanno quei 9 milioni, di cosa comprano, di cosa mangiano. Non analizzo consumi, non faccio ricerche.

Eppure mi ricordo di quando milioni di tedeschi hanno scelto un tizio coi baffetti, quando milioni di italiani hanno scelto il pelato (e in tempi più recenti, il nano). Eccovela, la vostra maggioranza. Guardate quei filmati d’epoca: vi pare che quei tizi parlassero a delle piazze vuote?
Voi mi direte: la propaganda, la manipolazione, l’isteria di gruppo. Ma allora che senso ha parlare di maggioranza?
A me questa parola fa paura –e non solo per queste reminescenze storiche. Non mi piace questo dividere sempre, tirando una linea sulla sabbia, tra quanti siamo noi e quanti siete voi.
Non accetto questa finta normalità i cui standard sono decisi da questa maggioranza –di modo che tutto quello che non rientra è “anormale” solo perchè “meno diffuso”.

Esempio stupido: non possiedo una tv da ormai quasi 4 anni. La cosa è cominciata per caso, e adesso sto molto meglio senza. Non lo faccio per snobismo, e anzi ero un tele-dipendente di prima forza. Ma ora non mi va più.
Eppure, ogni volta che lo dico, vedo intorno a me facce sgranate e sguardi perplessi più che se avessi detto che nel tempo libero vado in giro a spiare coppiette. Ma come, non ce l’hai??? E come mai??? Ma non puoi permettertela???
Non si concepisce che uno non ce l’abbia perchè non la vuole. Questo perchè la maggioranza ce l’ha e ne fa grande uso.
É una mia scelta, che non dipende da niente se non da me. Se mi andasse, la comprerei. Ma non la comprerei mai perchè è la cosa giusta da fare. Le cose giuste sono giuste solo per chi l’ha deciso –ed io non voglio averci niente a che fare. Nelle cose sbagliate ci sguazzo da sempre, per le prediche e le statistiche è un po’ tardi.

Ma insomma, tutto questo sfogo pre-cena era solo per dire questo: non fidatevi di quei 9 milioni di Australiani (o Italiani, o Eschimesi, o quello che è).
Magari “Y” è un giornale bellissimo. Compratelo, se vi va.
Se non vi piace, sapete con chi (o meglio, quanti) prendervela.


lunedì 12 novembre 2012

Oxford Street nights


Il bar è pieno di
baffi cosce e stivali
palme ammuffite, porno d’epoca
bicchieri grandi con dentro
rose
mentre il barista
dissimula la sua aria
da spacciatore di sogni
e tutti vanno e
vengono dal bagno
come se stessero
condividendo un
segreto
l’uomo dei cocktail non
dorme da troppe notti
il buttafuori è gentile
& vicino alla fine
tutti lontani da casa
tutti uniti in un unico
discorso che finisce in
rissa e
monosorso

Fuori intanto
macchine colorate, rumorose, vuote
rombano nella notte
i poliziotti perquisiscono
le ragazze più carine
e mangiano dove capita
barboni senza denti
chiedono spiccioli & tregue
gruppi di ragazzi attraversano
la strada
senza mai guardare
in nessuna direzione
prostitute basse con
parrucche colorate e
visti scaduti
attendono annoiate che
scatti il verde e
poi il rosso
e il verde ancora
pirati & travestiti, turisti &
spacciatori
tutti a scrutarsi le stelle
in fondo all’ombelico
negozi di liquori spuntano
ad ogni angolo
come un’ultima sfavillante
occasione di felicità
bordelli & ristoranti cinesi
riempiono i marciapiedi
dove camminiamo dolenti, santi
& peccatori, profeti &
cani
vino giocolieri & fate
tassisti fumano nell’ombra
fra una corsa e l’altra
prendiamo fiato
prendiamo pillole e coraggio
e continuiamo
prima che sia
troppo
presto.



Marco Zangari © 2012

domenica 4 novembre 2012

Contro tutte le avversità


sabato 3 novembre 2012

Viaggiatore solitario a Sydney

Premetto subito che il titolo kerouachiano serve per l’effetto drammatico: in realtà non stavo viaggiando, nè tantomeno sono solitario (anzi, come scrivevo in un altro post, uno dei miei problemi al momento è proprio l’opposto: troppo tempo con gli altri, troppo poco con me stesso).
Oggi però, per una serie di cause, mi sono trovato in centro a Sydney, con tutto il sabato davanti a me e niente da fare, e così ho deciso di farmi un giretto manintasca, a vedere un po’ cosa mi ero perso.
In centro vado, e anche spesso (considerando che vivo ad una quarantina di minuti di treno da lì, e che sono un pigro militante), ma quasi sempre di sera. La città di giorno è strana, e di sabato ancora di più. Sai che metà degli ubriaconi è a casa a smaltire il venerdì sera, e l’altra metà si prepara ad un sabato sera di fuoco. Nel mezzo ci siamo noi, ovvero io e un migliaio di turisti che riempiono marciapiedi e incroci con traiettorie vaghe e poco importanti.
Nel centro di Sydney il sabato, in fondo, non c’é un cazzo da fare. Una volta svuotati uffici e banche, la città appare per quello che è: un enorme, rumoroso luna-park montato ad uso e consumo di turisti, backpackers e sbevazzoni del fine-settimana. Centinaia di pub, sale gioco, bistrot, ristoranti, tavole calde, fast food, negozi di souvenir, mentre l’occhio fatica a trovare mostre, musei, punti di incontro. Si beve, si mangia, si fa shopping. Due o tre librerie, tutte dall’aria da multinazionale, con in vetrina sempre i libri sbagliati. Il cielo nuvoloso, atipico per questa primavera australiana, aumenta solo il senso di uggia.

Ma non mi dispiace starmene qui a passeggiare da solo. Non ho molto tempo per i miei pensieri, ed è prezioso approfittare di ogni momento del genere. Magari scopri che non ne hai così tanti, o di così importanti, ma forse ci sono quei due o tre che vanno portati a spasso di tanto in tanto a prendere aria, a tornare in vita.
Viaggiare da solo non mi è mai dispiaciuto. All’inizio ti senti un po’ coglione, ma poi passa e te la godi tutta, anzi, forse te la godi anche di più. Non fraintendetemi: è bello viaggiare e condividere con qualcuno tutto il nuovo che si vede, che si assapora. In molti casi, riesce a farti persino apprezzare qualcosa che, da solo, avresti completamente ignorato e dimenticato.
Ma il viaggio da solo ha un altro gusto, quando è scelto. Ti permette di concentrarti su dettagli minimi, che sono poi quelli che davvero costituiscono il viaggio. Ti costringe ad aprire gli occhi e a vedere e sentire cose che normalmente non vedi e non senti. Ti dà il tempo, come dicevamo, di riprendere quei due o tre pensieri e vedere che effetto fanno in un altro contesto. Ti fa riflettere, da lontano, su cose che ti riguardano da vicino. Ti apre anche agli incontri, che spesso non faresti se fossi con qualcun altro.
Da solo ho fatto qualche breve viaggio, niente di epico, ma nel bene e nel male, mi sono goduto ogni secondo, anche quelle sfumature malinconiche, quasi romantiche (o patetiche) che certi viaggi portavano con sè, specie se comportavano degli addii.
E quando ero in quei treni fetidi che non arrivavano mai, o in quei bus alle 2 del mattino in una città sconosciuta, ripensavo a Kerouac, a lui e ai suoi chilometri e ai suoi due o tre pensieri che doveva per forza portare in giro sotto questo vasto cielo. Lo vedevo fissare fuori dal finestrino del treno o del bus, mentre magari le frasi si componevano già nella sua testa, i sensi all’erta, la notte che non lasciava scampo.
Il viaggiatore solitario, questa figura tragica che ho sempre amato, e che alla maggior parte delle persone sembrava solo uno sfigato che è rimasto di fuori.
Immerso in questi grandi pensieri (Kerouac, addirittura, di sabato mattina, amici miei!), mi ero quasi dimenticato che, uno, non stavo affatto viaggiando ma facendo un giretto svagato in centro, e due, mi trovavo immerso fino al collo nell’elemento che più mi fa paura al mondo, cioè la gente (e la gente della mattina del weekend, che è come dire “bonus extra”). Ho cominciato allora a guardare le facce. Come al solito, non c’era granchè da guardare.
Come sempre qui a Sydney, la stragrande maggioranza erano asiatici: di tutte le taglie, dimensioni, dialetti e tinta dei capelli. Venivano poi i turisti americani con occhiali da sole anche senza sole, i backpackers europei sempre spaesati con la mappa in mano e un paio di chili di piercing, i ragazzi australiani che, col freddo o col caldo, sono vestiti sempre allo stesso modo: jeans strizzatissimi e a vita ultra-bassa e maglietta larga ma aderente sui bicipiti (e talvolta sulla pance di birra). Le ragazze sfilano bellissime come sempre, anche se le più belle si stanno conservando per la serata. Le più belle in passerella, stamattina, sono le turiste dell’Est Europa. Pochi italiani, per fortuna, e un numero di coppie altissimo, che fa sentire qualsiasi viaggiatore solitario il terzo che regge il moccolo.

Non sapendo cosa fare, giro per i due o tre locali che frequento sempre quando sono in centro, trovandoli chiusi. Decido allora, spinto dal vento, di infilarmi in un Oporto di una parallela a George Street, la strada principale del centro. L’Oporto è un fast food come il MacDonald, ma a base di pollo e dall’aria leggermente meno tossica. Entro, ordino, mi siedo ad uno dei tavoli. Il locale è quasi deserto, eccezion fatta per tre uomini seduti in tre separè, uno dopo l’altro, lungo lo stesso divano. Io mi siedo al quarto. Sembriamo i concorrenti di un telequiz, dove le domande sono poco importanti e il pubblico è tutto andato via.
Un ragazzino con la divisa del locale, che sembra non avere più di 11 anni, mi porta la mia ordinazione. Mangio, leggendo il libro che mi sono portato dietro. Mangiare è l’unica cosa che mi dà fastidio fare da solo quando viaggio (a parte quando devi pisciare e hai mille bagagli dietro e non sai mai come fare). Non perchè ami mangiare con altri (come saprete già, sono un po’ strano), ma solo perchè non mi va di mangiare fissando altri che fanno la stessa cosa. Se potessi avere un tavolo davanti ad un muro, sarebbe perfetto. O davanti ad una vetrata. Ma nella maggior parte dei casi ti ficcano davanti ad un altro viaggiatore solitario che ti rimanda indietro la tua stessa faccia stanca, e allora l’appetito passa in un attimo.
Il fast food va bene, scegli il tavolo, ci stai poco a mangiare e nessuno fa storie se te ne stai lì con un libro sul tavolo. Mia madre odiava quando lo facevo, ma ora lei si trova a 15.000 km da qui, quindi penso di poterlo fare.

Una volta finito, passeggio ancora un po’. Camminando per quelle strade mi torna in mente di quando lo facevo anni fa, quando ero anch’io un backpacker e giravo per le strade affamato e distratto. Periodi in cui lavavi i piatti e scaricavi casse, o magari non lavoravi per niente, in pancia solo noddles istantanei, in tasca nemmeno i soldi per mettere insieme una birra. Periodi in cui la mia famiglia mi diceva –ma che cazzo stai facendo-, i miei amici mi dicevano –ma che cazzo stai facendo-, e neanch’io sapevo bene cosa cazzo stessi facendo.
Neanche adesso, che sono passati anni, lo so bene. So solo che in tasca ho i soldi per una birra, e allora decido di fermarmi ad un locale che conosco, sempre su George Street. Ordino una birra bianca d’importazione (le birre australiane sono fra le peggiori di tutto il globo terracqueo) e mi siedo fuori, nel vicoletto con pretese (frustratissime, direi) di aria europea. Non c’é nessuno fuori, e di questo sono felicissimo, Nemmeno l’insulsa musichetta dance del locale arriva fin qui. Apro la borsa e tiro fuori di nuovo il libro che sto leggendo, una raccolta di articoli di Pier Vittorio Tondelli (di cui abbiamo già parlato qui nel Morgana)sugli anni Ottanta, intitolato “Un weekend post-moderno”.
Mentre leggo e sorseggio la birra, inciampo in un capitolo che s’intitola proprio “Viaggiatore solitario”. Il capitolo inizia così: “Quando si viaggia soli ci si sente ridicoli e disarmati”. Eccoci. Butto giù un sorso generoso e continuo a leggere. Il brano continua così: “ (...) Voglio che la mia solitudine sia rispettata. Se sono solo, non per questo sono un uomo a metà. Non per questo ho bisogno di petulanti eserciti della salvezza che vengano a disturbarmi. Non sono sposato, non credo all’istituzione familiare, sono debole come tutti, e fragile ed emotivo. Ma so stare solo
Continuo a leggere, e mi sento meno solo.

Finisco capitolo e birra, mi alzo e mando un bacio a Sydney, a questa città che non ce la fa ad essere crudele con i viaggiatori solitari nemmeno quando la pancia prude per la fame, nemmeno quando vorrebbe piovere ma non sa perchè. Mando un bacio all’umanità che ne calpesta i marciapiedi augurando loro ogni bene, ma io, per oggi, ho fatto il pieno. Mi dirigo verso la stazione, soddisfatto. Ho portato in giro i miei due o tre pensieri, e ne ho un paio di nuovi. Il cielo minaccia freddo senza arrivare ai fatti. Il treno arranca lungo i binari sporchi di piscio.
Non potrebbe andare meglio.

giovedì 1 novembre 2012

Message in a bottle