giovedì 6 agosto 2015

Quando tutto rinuncia a star fermo


La vita non è come i film, diceva il personaggio di un altro film.
Nei film non ci sono tempi morti, nella vita ce ne sono parecchi.
Vero. Passi settimane e mesi a loro modo stancanti, intensi, perfino logoranti, ma se qualcuno pronunciasse la fatidica frase “Che fai per ora?” non sapresti che rispondere. La mente andrebbe a cercare ciò che si nasconde all’altra estremità di questa perdita di ore e minuti, e tornerebbe a mani vuote come un cane da caccia mandato a recuperare una preda mai davvero colpita dal padrone.
Che poi, quando superi una certa, i periodi così si risucchiano la stragrande maggioranza del tempo. Schiacciati dal lavoro, dalle preoccupazioni, dai conti, dalla salute, dalla pura e semplice sopravvivenza, tiriamo avanti in apnea, sperando di trovare presto un’aria più respirabile.
Solo che di solito non arriva.
Ti limiti allora a sognare per induzione (mi dicono che è estate, allora probabilmente mi sto divertendo anche se non lo so), a strappare i fogli del calendario, a stupirti della rapidità del tempo, e a scuotere la testa impotente, come se quel figlio di puttana fosse sempre troppo veloce per te.
E lo è, certo. E in un sistema in cui passiamo più tempo con i nostri colleghi che con le persone che amiamo, che ci costringe a pagare rate infinite di cose che smettono presto di servirci, non è neanche una conseguenza così nuova o imprevedibile.
Se vendi il culo, ci sta che dopo un po’ cominci a farti male.

Va sempre così.
No, non sempre.
Dopo mesi di appiattimento, di casini, di fatiche piccole e grandi, di fortune per caso e grandi attese, sembra che stia succedendo tutto insieme.
Agosto è iniziato con un’ondata di gelo anomala per gli inverni australiani, sì, e anche con la cerimonia per la mia cittadinanza. Da giorno 3 sono ufficialmente un australiano. Sono trascorsi quasi 8 anni esatti dal mio primo arrivo qui a Down Under. Ho vissuto tante e tali di quelle esperienze, e sono cresciuto in una maniera che non riesco proprio a far entrare in questi pur lunghi otto anni.
Ho buttato le mie cose in una sacca, me la sono messa in spalla e ho attraversato il mondo. Poteva andare in molti modi: è andata come mai avrei immaginato, nè nel bene nè nel male. È stato un cammino infinito, durante il quale ho lasciato pezzi di me qui e lì, del vecchio me. Con quello che è rimasto, sono riuscito a mettere su la persona che sono adesso, che mai avrei pensato di diventare.
O forse dovrei dire: che mai avrei sperato.
Perchè tra qualche ora –anzi, ormai tra una manciata di minuti- saranno 36 (ah! Speravate di scamparvela col mio post di compleanno, quest’anno, e invece ho solo giocato d’anticipo), e dovrò come al solito guardarmi a quel famoso specchio, ma so già adesso che quello che vedrò mi starà un po’ sul cazzo, un po’ mi smonterà, ma soprattutto mi farà dire: tutto sommato non male, ragazzo.
Poteva andare molto peggio.
È andata molto meglio.
Sarò io con quel numero di anni che nemmeno so mettere insieme, che non mi fa troppo ansia perchè i 40 sono (sembrano) ancora lontani, perchè sono caduto in tante trappole ma mi sono salvato da molte altre, perchè ho attraversato fiumi di merda escendo pulito come un bambino, perchè so ridere ancora come un coglione di me stesso, di queste mie parole, perchè posso versarmene ancora uno e festeggiare con la gente che viene e che va dal Morgana. Perchè oggi sono (anche) australiano, sono un fottuto 36enne, e soprattutto sono pronto a partire, e questo mi rende invulnerabile ad ansie, paure e anche a periodi di ristagnazione, di quelli che non succede niente.
Perchè di roba ne succede sempre tanta, ma siamo noi che non la vediamo. Io, per la ricorrenza, la vedo, e ho deciso di festeggiarla con un ritorno in Italia per vacanza, per rivedere tutti, proprio nel giorno del compleanno. Andando in direzione contraria per i fusi, allungherò ancora di più una giornata che in passato avrei provato in tutti i modi ad ammazzare sul nascere.
E tutto questo per un semplice motivo: mentre gli anni si accumulano, fino a diventare così tanti che rinunciamo a capirli, mentre i periodi morti continuano a marcire davanti ai nostri occhi distratti, qualcosa succede.
Qualcosa succede sempre.
Basta capire la ragione di ogni stagione.

E diventano molti
quelli che ci sopportano solo per una mezz'ora
a cui hai offerto un bicchiere una volta
per vederli sorridere ancora
o vederli ingrassare d'amore
in un giorno qualunque di ottobre
quando tutto rinuncia a star fermo
un pò come i contorni del mare


Qualcosa succede sempre, sì. E una delle più importanti succederà alla fine di questo mese che si preannuncia sudato e goduto. La trovate qui sotto, molti di voi sapranno già di cosa si tratta, e sapranno anche quanto ci tenga. Ne scriverò meglio più in là, in un periodo più calmo (sempre che ci sia, in questo agosto fuori di testa).
Ci si ritrova per i 37 (oddio), ci si rivede dall’altra parte del mondo, ci si risente per la prossima stagione sbagliata, il prossimo giro, la prossima marea, che sia alta o sia bassa.
Basta rinunciare a star fermi.


mercoledì 5 agosto 2015

"L'avversario", Emanuel Carrère


Ricalcando i suoi passi provavo pietà, una straziante simpatia per quell'uomo che aveva errato senza meta, anno dopo anno, chiuso nel suo assurdo segreto, un segreto che non poteva confidare a nessuno e che nessuno doveva conoscere, pena la morte. Poi pensavo ai bambini, alle fotografie dei loro corpi scattate all'Istituto di medicina legale: orrore allo stato puro, un orrore tale da costringerti a chiudere gli occhi, a scuotere il capo la realtà.

Avevo sentito parlare di Carrère e avevo sentito parlare di questo suo romanzo, “L’avversario” (Adelphi), diventato ormai un best-seller fin dalla sua uscita nel 2000. Quello che non sapevo era che il libro partiva da un fatto di cronaca di cui avevo sentito parlare, tanto tempo fa, e che mi era rimasto impresso per qualche motivo.
Il libro si apre con l’incendio della casa di Jean-Claude Romand. Dall’incendio, i pompieri estraggono le salme della moglie e dei due figli di Jean-Claude, insieme allo stesso Jean-Claude che però respira ancora. Romand viene quindi portato d’urgenza in ospedale.
Sembrerebbe un normale, seppur tragico, incidente, se non fosse che la polizia nota qualcosa di strano nei cadaveri. Viene stabilito, infatti, che moglie e figli di Romand erano già morti prima dell’incendio.
Mentre Romand è ancora incosciente, si cerca di avvisare qualcuno. I genitori non rispondono, allora si pensa di chiamare la sede dell’OMS di Ginevra, dove Jean-Claude lavora da anni ed è stimato e rispettato da tutti.
Peccato che all’OMS nessuno abbia mai sentito parlare di Jean-Claude Romand.
Quando i genitori di Romand vengono ritrovati morti in casa, uccisi da un colpo di fucile, gli inquirenti si trovano a dover cambiare bruscamente sentiero per poter arrivare alla verità.
E sarà una di quelle difficili da accettare.

Carrère, che alla vicenda si era già ispirato per un altro suo best-seller, “La settimana bianca”, comincia ad intrattenere una relazione epistolare con Romand, rinchiuso in carcere. Ricostruendo la storia di Romand, Carrère prende per mano il lettore e lo guida attraverso la ricostruzione della vicenda, a partire da Romand che si risveglia in ospedale, e si trova sbattuta in faccia la verità che aveva provato a seppellire per tutta la vita, e che aveva sostituito con una serie di complesse, colossali, fortunate bugie. Di quelle talmente grosse che non sarebbero assolutamente accettabili, in un noir d’invenzione.
Carrère sceglie apposta di partire descrivendo il punto di vista di Luc, uno degli amici più cari di Romand. Distrutto per le perdite dell’amico, da un giorno all’altro si trova a dover affrontare il fatto che l’amico che conosceva, non era assolutamente chi pensava. Lo stimato dottore, l’uomo con la testa sulle spalle, la persona di successo: niente di tutto questo era reale.
Romand ha mentito a tutti, su tutto, e per un tempo che sembra incredibile da credere. E quando la sua menzogna ha cominciato, inevitabilmente, ad imbarcare acqua, la sua reazione è stata disastrosa.

“L’avversario” è scritto bene, ha un passo rapido ed è ben narrato. Carrère evita ogni sensazionalismo, ogni morbosità. Ha delle ovvie reticenze ad avvicinarsi ad una storia così inquietante, e lotta per decidere che punto di vista adottare: quello di Romand? Quello delle vittime?
Alla fine decide di mantenere la sua prospettiva, che sa bene non essere neutrale, ma è l’unica disponibile, e l’unica onesta.
Non era facile raccontare questa storia, ma Carrère ci riesce, e anche discretamente.
Il romanzo, va detto, è uno di quelli che resterà con voi per molto tempo. Personalmente non sono mai stato un amante della cronaca, ma “L’avversario” va ben al di là della tragedia finale. Racconta di un mondo ovattato e superficiale, che un giorno si ritrova denudato e senza risposte. Racconta di rapporti che diamo per scontati. Racconta di interrogativi che restano sospesi, come quello più importante –dal punto di vista clinico, certo, ma anche più ampio: perché Romand ha iniziato a mentire? Perché ha preso la rincorsa per quella strada senza ritorno?
“L’avversario” mi ha lasciato un senso di gelo di neve, un lieve squallore addosso, ma l’ho trovato anche un libro potente, incredibilmente leggibile, tanto da sembrare quasi un thriller, ma uno di quelli dove vi ponete domande. Domande che potrebbero cambiare il mondo con cui guardate alla realtà che vi circonda.


lunedì 3 agosto 2015

"Il volo delle anatre a rovescio", Alberto Calligaris


La mia vita è questa. Incontro sempre persone straordinarie, e loro incontrano di continuo un deficiente.
Forse dovevo smettere di rincorrere culi rosa e gonfi e fermarmi. Per un momento mi immaginai io e lei stesi a letto, uno accanto all’altro, con le persiane chiuse aspettando di morire, e forse era la cosa più pura che avessi mai pensato, quelle cose per cui soffri assieme all’universo intero, ma avevo già nostalgia delle risse e delle sbronze come se fossero pezzi di carne bruciata dove affondare i denti. Credo che lei se ne accorse. Donne così non capitano per caso.


Nel 2008 un amico mi portò dall’Italia un libro. Era il mio primo periodo in Australia, mi trovavo qui ormai da un anno. Parlavo sognavo respiravo cagavo in inglese, era una full immersion spirituale prima che linguistica, e l’Italia sembrava lontanissima e sospesa. Per questo guardai a quel libriccino come ad un oggetto strano, proveniente da qualche dimensione parallela.
Il libro si chiamava “Poesie d’amore per donne ubriache”. Chi l’aveva scelto, mi conosceva bene.
Poi cominciai a leggere, e pensai che mi conosceva ancora meglio.
Il libro era piccolo, sia di formato che di pagine. Una serie di poesie semplici, quotidiane, ironiche e amare. Bellissime.
Le lessi e rilessi, e poi le feci leggere a chiunque mi capitasse sotto mano. Ricordo che lo leggevamo spesso con Luca e Valeria, i miei compagni di avventura italici di allora (devo avere ancora qualche video dove declamiamo intere poesie con le lingue impastate dallo shiraz sottomarca). Alberto Calligaris, l’autore, divenne il nostro eroe. E come tutti gli eroi, si sapeva pochissimo di lui, e quel poco sembrava inventato, per il gusto di confondere e far sorridere. Ma davvero aveva mollato tutto e adesso faceva il giardiniere in Cornovaglia? Davvero aveva raccolto rifiuti per due anni? E la moglie era scappata e l’aveva lasciato con una figlia? Che cavolo faceva adesso?
Io e Mauro lo inseguimmo per anni, ma Calligaris era sempre più veloce. Mentre facevo fare a “Poesie d’amore” l’avanti e indietro tra Italia e Australia –per poterlo leggere a sempre più persone- le informazioni su di lui erano poche e fuorvianti (anche se adesso è possibile trovare una serie di interviste deliranti in rete).
Da allora ha scritto altri libri, persino romanzi. Ha aperto e chiuso blog, che sparivano da un giorno all’altro dopo aver disseminato qui e lì pezzi brillanti e folli. Non sapevi mai se lo faceva per fastidio, per noia, per inclinazione intellettuale o solo perché sì. Aveva anche un profilo Facebook e uno Twitter, che ha ovviamente chiuso da parecchio, ma Mauro ed io eravamo riusciti lo stesso a contattarlo. Era la prima volta che parlavo con uno scrittore pubblicato che ammiravo (ne conosco per fortuna altri bravissimi che sono solo in attesa di pubblicazione), e volevo evitare di fare il groupie cazzone che si lancia in complimenti urlati, però insomma, “Poesie” mi era piaciuto e ho provato a dirglielo nella maniera più tranquilla e cazzeggiante possibile. Lui ha apprezzato. Ci aveva persino detto che sarebbe venuto in Australia da lì a qualche mese, forse per viverci (e l’elenco delle sue stranezze biografiche si allungava). Io e Mauro, tutti contenti, gli dicemmo che ovviamente poteva chiedere a noi per qualunque cosa, che sarebbe stato un piacere poterlo aiutare, magari anche ospitare (e in quel momento eravamo disoccupati e in bolletta, ma era un dettaglio secondario).
Purtroppo Calligaris uscì dai radar dei social media qualche tempo dopo, e non sapemmo mai se effettivamente era poi venuto in Australia, se se n’era andato, o se ancora continuava a potare siepi in Cornovaglia.
Con questa premessa, potete immaginare il mio faccione quando sono riuscito, finalmente, a trovare sullo store Kobo il suo “Il volo delle anatre a rovescio” (Newton and Compton). Per me è stato come ritrovare un amico mai incontrato.
Non ci provo nemmeno a descrivervi la trama de “Il volo”, perché non avrebbe senso. Sì, c’è una storia fatta di santoni terroristi, poliziotti incazzosi, donne poppute, scene di sesso rimandate e grottesche, inseguimenti e così via, ma definirla trama sarebbe riduttivo. Calligaris, che nelle poesie riusciva sempre a mettere insieme quelle due frasi che ti fanno ridere, immedesimare e intenerire mentre ti danno una stoccata sotto la cintura, riprende il suo stile anche nella forma romanzo. Il libro stesso sembra un insieme di frasi ad effetto, che vanno dalla battuta sarcastica alla riflessione intima, con una serie di paradossi, di contrasti, di massime e aforismi che vorticano e risucchiano il lettore. Sì, probabilmente il libro parla anche del rapporto uomo-donna, di Occidente, di amicizia e soprattutto di comportamento umano, visto con la prospettiva dell’osservatore-scienziato che paragona i nostri gesti a quelli del mondo animale, ricordandoci che in fondo siamo quello (non per niente, il protagonista è nientemeno che Konrad Lorenz, fondatore dell’etologia).
Però “Il volo” è questo e altro. Forse lo stile di Calligaris raggiunge la sua collocazione perfetta nelle poesie (o forse io ormai sono abituato a vederlo lì), ma comunque questo romanzo resta godibile, divertente, intelligente.
Chissà, magari se nei nostri giri mi capiterà alla fine di beccarlo, glielo dirò. Nel frattempo, posso dire che è stato un piacere reincontrarsi così.