martedì 20 ottobre 2015

Dalla stanza 304

Di gente in giro ce n’è a tutte le ore ma il traffico sulla rampa del viadotto della Magliana dalle 10.00 di mattina no. Quello no. Ho sempre custodito intimamente il dubbio che quella fosse una di quelle strade di Roma in cui per qualche motivo razionalmente poco spiegabile fosse impossibile non trovare una coda di macchine, se non di notte o nel week-end. A dire il vero nutro ancora il dubbio che sia effettivamente così, se si esclude il fatto che oggi, chissà come, sono stata particolarmente fortunata. Insomma, in pochi minuti mi ritrovo al Morgana Hotel.
Oggi sono nella stanza 304, quella accanto alla room che si affaccia sul Ponte della Scienza. Ovviamente il Morgana, non avendo confini spaziali tridimensionali, consente di accedere, facendo solo pochi passi, a luoghi fisicamente distanti tra loro. Così mi ritrovo affacciata su una piazza romana, anche se non tra le più note della capitale, dove tra gli altri si colloca la sede principale dell’Ente previdenziale sociale italiano.
La stanza è estremamente spaziosa e dall’arredo moderno: un grande monolocale costituito da un salone all’americana soppalcato. Mi tolgo il soprabito e mi butto subito sulla poltrona posizionata di fronte a questa splendida vetrata che occupa l’intera parete che volge a est. Dovrei tornarci e passarci la notte per poterne godere l’alba. Magari con lui. Intanto chiudo gli occhi, respiro e cerco di rilassarmi profondamente. Ho bisogno di distendere completamente i sensi perché potrei fare ancora in tempo a cambiare idea. Potrei decidere che non servirebbe a niente. Che finirei solo per sentirmi in colpa. Che un’azione di tali proporzioni potrebbe risultare agli occhi altrui solo una pazzia. Immorale. Illegale.
In parte mi sembra che questa respirazione regolarizzata stia funzionando; mi sto effettivamente rilassando.
Respiro profondamente ma proprio mentre comincio a sentirmi meglio ripenso a quella lettera. A quei 30 giorni di tempo limite, che suonano come una minaccia. Ho davanti agli occhi l’immagine di altre centinaia di occhi gonfi di lacrime. L’immagine di case vuote, sgombre, deturpate, a causa degli sfratti. L’immagine di capannoni aziendali spogli di personale, per logiche economiche che sono contro qualsiasi matematica e contro qualsiasi fine sociale. Per un sistema finanziario secondo cui il denaro non è pari al denaro, ma pari al denaro più un interesse. Per un sistema previdenziale che chiede cento oggi per dare dieci, forse, domani. Che toglie al futuro per dare in ritardo un presente a chi il futuro non ce l’ha mai avuto.
Potrei pensare che questa azione programmata dal basso sia immorale e illegale ma penso anche che lo sia tanto quanto questa logica che ci sta lentamente annientando, commettendo un genocidio dalle proporzioni incommensurabili.
Nel mio zaino c’è un marchingegno elettronico dall’efficienza rapida e infallibile, che attende solo di essere usato.
Apro il frigo bar e mi apro una Menabrea con l’accendino. Prima di difendersi bisogna bagnarsi le labbra.

"Numero zero", Umberto Eco


Ci sono dei vantaggi nell’avere un blog. Uno è che puoi definirti CEO, SEO, Fondatore e MegaDirettoreGalattico del blog sul tuo profilo Linkedin e sui vari social (come se qualcuno sotto i 55 anni potesse prenderle minimamente sul serio).
Un’altra è che ti puoi inventare delle specie di rubriche, tipo questa delle Recensioni del Morgana, e auto-appuntarti, appunto, recensore, senza averne nessuna qualifica –e forse questo fa di te un recensore abbastanza affidabile.
Puoi fare un sacco di cose da recensore. Per esempio, puoi permetterti, tu, di criticare Umberto Eco e il suo ultimo romanzo “Numero zero”. Nella nostra stanzetta siamo tutti geni, in fondo.
Così, per questa recensione che sono sicuro il buon Umberto valuterà a fondo e di cui farà tesoro, non mi viene nemmeno una citazione d’apertura. Vorrei solo sapere, se possibile, com’è venuto in mente, al buon Eco, di scrivere un romanzo del genere.
E dire che “Il cimitero di Praga” mi era molto piaciuto. Avevo sentito che anche questo era, a suo modo, una sorta di romanzo storico –anche se principalmente incentrato sul mondo della stampa e dell’informazione. In realtà con il “Cimitero” non c’entra assolutamente nulla.
La storia è quella di un giornalista fallito che viene assoldato per partecipare alla stesura di un giornale che non verrà mai pubblicato. Intorno a questo giornale gravitano alcuni personaggi particolari, tra cui il complottista Braggadocio, che introduce delle (lunghissime) digressioni su Mussolini, i servizi segreti, la CIA e tutto quello che di losco e dietrologico esiste nella nostra storia recente.
Sinceramente non me n’è importato molto, né di queste digressioni, né di come viene dipinta la stampa. Dopo essere passati dal ventennio berlusconiano, ormai sappiamo tutti di tutte (o quasi) le manipolazioni di cui l’informazione è soggetta ogni giorno. Quello che scrive Eco, quindi, risulta ridondante.
I riferimenti al berlusconismo (lo stesso Commendatore a capo del giornale è un ovvio rimando all’ex Primo Ministro) suonano di stantio e risaputo.
Le congetture storiche, poi, portano a cose già sentite e risentite, che rinviano allo stesso messaggio di fondo: l’Italia è una Repubblica delle banane e gli italiani sono dei coglioni che non sanno che farsene della democrazia.
Neanche questo è chissà che messaggio rivoluzionario.
Il libro scorre velocemente, lo stile è brillante e leggero (anche se parecchie battute vanno a vuoto), e la nota positiva è che, se vi capitasse mai di iniziarlo, lo finirete presto, e probabilmente non ci penserete più.

(Professore, non se la prenda per questa stroncatura. So quanto ci tiene all’opinione del Morgana, ma oggi è andata così, si faccia coraggio. Ha delle capacità, si impegni, vedrà che la prossima andrà meglio)



giovedì 8 ottobre 2015

Giri larghi

Era stato un viaggio allucinante, sudato e stanco, schiacciato contro una madre con la figlia di 3 anni che non aveva smesso di piangere un secondo da Sydney a Dubai, tanto che mi sembrava di averla ancora nelle orecchie nel secondo volo fino a Roma. Avevo dormito un po’, avevo mangiato. Mi ero ritrovato a camminare con piedi pesanti tra i terminal, a togliermi le scarpe al metal detector fingendo lo stupore della prima volta, a pisciare giusto per abitudine, e per ingannare le enormi attese tra un volo e l’altro. Più che arrivato in Italia, mi sentivo sparato fuori da un inverno troppo lungo e troppo freddo.
Perfetto, allora, il passaggio a Roma al terminal per la Sicilia. Il sole di agosto mi ha sbrinato un po’ ossa e cervello, e la prima cosa che ho pensato è –eccomi in Italia da autore pubblicato. Marco Zangari, autore di Latinoaustraliana.
Mi sono guardato intorno, per capire se la cosa stesse avendo effetto sugli altri. Quando ho constatato che il mondo andava avanti benissimo anche senza quella informazione –il sole a cuocere pelli arrossite, i tassisti a fregare turisti, i turisti a farsi fregare, le coppie a riabbracciarsi sudate- mi sono tranquillizzato.
Ero tornato a casa.

Ognuno reagisce in maniera diversa. Non che capiti tutti i giorni di coronare un sogno inseguito da una vita –o da un arco di tempo che potresti definire considerevole. E chiaramente più tempo passa, più ci fantastichi sopra, aggiungi elementi, ti fai sempre più protagonista di questo film che sai benissimo che non uscirà mai nelle sale, e questo non ti ferma ma anzi ti dà la spregiudicatezza, l’impudenza dei sogni che non si avverano, il coraggio sfrontato di osare, di spingerti verso zone che non confesseresti mai a te stesso da sobrio. In fondo, se devi sognare, perchè non farlo in grande?
Poi certo, vedi gli occhi della gente che va al lavoro alle 8 di mattina, e capisci che non si possono/vogliono/riescono a concedere neanche più quello. Porti a spasso degli organi che si logorano e rompono sempre più finchè di te restano oggetti inutili in stanze affittate e aneddoti noiosi.
Io invece sognavo in grande. Ma forse sbaglio: non sognavo, io. Ci credevo, ecco. Fin da quando ho cominciato a imbrattare fogli, prima con la macchina da scrivere che si rompeva sempre, poi con pc che si impallavano puntualmente prima che potessi salvare, lo sapevo che sarebbe successo. Non fraintendetemi: non credevo certo di essere bravo. Più che altro, era una molla naturale, che mi spingeva a fare quello che stavo facendo –e che in fondo, forse non avrei fatto se non ci avessi creduto fin dalla prima riga che ho buttato giù.
«Se lo vuoi con forza, non è un sogno» diceva Walter nel Grande Lebowski.
E allora direi che no, non è un sogno.

Però –dicevo- ognuno la prende in maniera differente. Io sono stato così abituato a coltivare questa aspirazione dentro di me, nel silenzio, coi tempi e modi miei, così che quando è successo davvero, mi sono sentito spiazzato. Come quando passi una vita a fare air-guitar nella tua stanza davanti allo specchio, e poi all’improvviso ti sbattono su un palco VERO e tu devi farci i conti. Immagino ci sia chi si paralizza e non suona più una nota, e chi si innamora di quella situazione, e da quel palco non vorrebbe scendere più.
Io mi sono trovato forse in qualche punto tra i due, un po’ spaventato e un po’ goduto.
Con un largo sorriso idiota, mi sono guardato intorno, ho fatto finta di accordare la chitarra e ho pensato: e adesso che cazzo faccio?

C’è poi da dire che è una cosa che ha un certo impatto –per una volta positivo!- su di te, e praticamente nullo (o quasi) su chi ti circonda. Serve tanta palestra alle spalle, tante ore passate in una stanzetta a scrivere paragrafi immortali e prose penose. Se eri di quelli che già visualizzava la vetrina della Feltrinelli a Roma con la sua facciona, o magari già si preparava il discorso da leggere a Stoccolma prima del Nobel, la situazione poteva essere complicata.
Invece quello che hai davanti è un palchetto artigianale, col legno che quasi sembra cedere sotto i passi, e davanti hai un pubblico che (almeno all’inizio) è inferiore a quello che avevi per certi cenoni di Natale in casa.
Niente di che, a vederlo da fuori.
Meraviglioso, se lo chiedete a me.

È successo in radio. Un amico aveva organizzato tutto. In un afosissimo pomeriggio di fine agosto, mi ero trovato nella sede di una radio messinese. Facendo radio una volta a settimana qui a Sydney, mi sentivo moderatamente tranquillo.
Almeno finchè la ragazza che conduceva mi ha presentato dicendo il mio nome e aggiungendo SCRITTORE.
Cazzo. Quasi mi giravo per vedere con chi stava parlando.
E no, non è modestia. Conosco bene i miei meriti e le mie tare, e so che, di questo, posso essere orgoglioso. Ma lo stesso, non capivo con chi ce l’avesse la presentatrice. Potevo essere io? Mi ero visto in mille modi, ma quello proprio no.
Ma come, non avevi una visione fin dall’inizio?, direte voi (che proprio non ce la fate a farvi i vostri).
Sì, certo –ma un conto è sapere che prima o poi succederà, e farti guidare da questa forza.
Un conto è quando succede veramente.
Durante l’intervista abbiamo parlato di questo mio romanzetto (che voi del Morgana avete praticamente visto nascere, già nel lontano 2008), e quasi mi veniva voglia di proteggerlo fisicamente. Per la prima volta realizzavo che chiunque poteva avvicinarsi, punzecchiarlo, prenderlo in giro, smontarlo, indicarlo, farlo a pezzi sotto i colpi delle prime impressioni. Per un attimo ho pensato di riportarlo in una delle tante stanzette dove è stato composto, in notti e notti di caffè e dubbi e puro piacere –riportarlo dov’era nato e chiudere il mondo fuori.

Qualche giorno dopo c’è stata la presentazione in anteprima del libro a Messina. In fin dei conti ero felice che fosse lì, e che fosse in quel periodo. Da lì era partito il mio viaggio latinoaustraliano, nel 2007, e da lì adesso stava ripartendo questa nuova avventura, diversa ed eccitante.
Ma queste sono riflessioni successive. La realtà è che quella sera ero nervoso da fare schifo. Il locale dove avevo organizzato la serata si era dimenticato della mia presentazione, e così ci eravamo arrangiati a farla in spiaggia. I miei amici –gloria a loro- mi hanno aiutato a riorganizzare tutto in tempo record, poi mi hanno schiaffato una Tennent’s in mano, mi hanno messo su un trespolo e la serata è iniziata. Ho mandato giù un po’ di birra, mi sono guardato intorno. Era fine agosto e davanti a me avevo alcuni dei miei amici più cari, gente a cui tenevo che era venuta a vedermi. La mia famiglia era lì, in prima fila. Erano tutti seduti su dei teli, in spiaggia. Di fronte avevo lo spettacolo dello Stretto, per l’occasione inondato dalla luce di una luna così piena che sembrava quasi ce l’avessimo messa lì noi per l’occasione.
Inspirai. Avevo fatto un sacco di strada per arrivare lì, sia fisica che dell’altro tipo. Mi ero perso svariate volte. Avevo smesso di sognare, forse anche di crederci.
Adesso invece quel giro largo, larghissimo, mi aveva riportato a casa, tra la mia gente.
Quando la (bravissima) Alessandra, che presentava, mi ha chiamato al microfono definendomi di nuovo SCRITTORE (e aggiungendo un GIOVANE per rendere tutto ancora più surreale), ho fatto il vago –ma quando si è trattato di parlare del libro, non ho esitato. In fondo, era per questo che avevo passato quelle notti insonni –perchè quel mio viaggio potesse diventare anche il viaggio di qualcun altro.
Ero pronto a lasciare che quelle parole si alzassero in piedi e si allontanassero da me, cominciando il loro giro per il mondo.
Ero pronto per far finta di guardare da un’altra parte, seguendo però sempre i suoi primi passi di nascosto.
Ero pronto per un nuovo viaggio latinoaustraliano.
Ero pronto.
Più o meno.


(E stasera si presenta nella mia altra casa, Sydney. Vi farò sapere. Intanto cerco di godermela –almeno quanto se la può godere uno che aveva gli occhi sbarrati già alle sei di mattina.
Ma mi piace l’odore del napalm la mattina presto.
Ci vediamo al prossimo giro largo).


Per altre info su Latinoaustraliana, cliccate qui.



venerdì 2 ottobre 2015

"L'Italiano", Sebastiano Vassalli


Bisogna dire a chi ancora non se ne fosse accorto che l’Italia è un Paese vecchio, anzi vecchissimo, dove tutto è già accaduto e dove non accade più niente di veramente nuovo e veramente importante da circa cinquecento anni. È un paese vecchio e tendenzialmente immobile. Qui non ci sono la Nuova Frontiera, l’Eldorado e nemmeno il Sogno Americano o l’Oriente Radioso della nuova Cina. Qui il Sole dell’Avvenire è sempre al tramonto. L’unico sogno ricorrente, da più di due secoli, è quello di una rivoluzione che mandi tutto all’aria: ma non ha mai portato a niente di buono.

Ho scoperto Vassalli molto tardi, e devo la scoperta alla mia amica Laura e alle nostre passeggiate per le strade bagnate dalla pioggia di San Lorenzo. In bocca ancora il sapore di birra rossa, quasi rischiavamo di essere messi sotto mentre discutevamo dei nostri eroi letterari. Io in quel periodo facevo una testa così a tutti sui racconti di Carver, mentre Laura parlava, per l’appunto, di Vassalli.
Dovresti provare i suoi racconti, mi diceva sempre.
Così, dopo aver letto allora “La morte di Marx”, eccomi qui a (troppi) anni di distanza con “L’Italiano” (Einaudi), una raccolta di racconti del 2007.
Come suggerisce il titolo, Vassalli ha tentato, in questo libro, di illustrare (ma forse sarebbe più giusto dire: “mettere a nudo”), pregi e (soprattutto) difetti che fanno parte del carattere italiano. Per farlo, compie una carrellata storica di eventi e personaggi solo apparentemente distanti e diversi tra loro, che parte da Ludovico Manin, ultimo doge di Venezia, per arrivare fino a Berlusconi. I racconti sono la scelta giusta, perché, come lo stesso Vassalli ha confermato alla mia amica Laura in una bella intervista avvenuta qualche anno fa (e che potete rileggere qui), la realtà di oggi è così frantumata che la struttura del romanzo non funzionerebbe.
Con un linguaggio sempre limpido, incisivo, Vassalli ci guida attraverso epoche diverse, sottolineando corsi e ricorsi storici, mettendo in evidenza alcune costanti del carattere italiano, che tornano fuori regolarmente. Nei vari racconti, l’Italiano ne viene fuori al peggio e al meglio. Tutti i racconti si fondano su fatti storici reali e personaggi realmente esistiti –talvolta famosi, come Crispi, Craxi, Togliatti e così via- altri meno, come il carabiniere Orazio Petruccelli e il trasformista Saverio Polito. Proprio questi due sembrano essere gli estremi che segnano il carattere italiano: il primo decide infatti di morire eroicamente a Cefalonia per mano dei nazisti, laddove il secondo riesce a reinventarsi a seconda del momento sociale e politico, attraversando con successo la fine del fascismo di cui anche era stato responsabile. Eroi o traditori, solari o bigotti –Vassalli non lascia fuori niente, fino ad arrivare a Berlusconi, definito non a caso “l’Arcitaliano”. Per lo scrittore, infatti, l’allora Primo Ministro sembrava incarnare idealmente tutti i difetti tipici del carattere italiano, presentandone al tempo stesso altri tratti distintivi come la giovalità, l’allegria, la flessibilità.
Fa certo un po’ strano rileggere adesso di quel periodo –più che altro sembra passato molti più tempo di quello che in realtà è trascorso. Ma questo esula dal libro, che si fa leggere bene e ti lascia il desiderio di approfondire la conoscenza di alcuni di questi personaggi, anche quelli che sembravano già noti –e questo è già un gran risultato. Ho un debole per la letteratura storica, e racconti come “I due rivoluzionari”, che parla dello scontro tra Togliatti e Adriano Sofri, incontrano assolutamente il mio gusto.
Non ho apprezzato allo stesso modo tutti i racconti, e ogni tanto sembra quasi che si manchi il punto o ci sia qualche stereotipo di troppo. Ma Vassalli sa fare il suo, e lo sa fare bene. “L’Italiano” è un libro non banale, che va giù molto facilmente –quasi quanto una birra rossa in una fredda sera di gennaio.