Il primo ricordo è il mare. Ci restavo così tanto che la pelle mi diventava marrone. Mio nonno pensava che fossi africano. Mi guardava correre verso l’acqua e poi si buttava anche lui. Rideva.
Mia nonna era al bar. Lo avevano aperto dopo la guerra, dopo che erano stati mandati via, in un paesino di montagna, per le bombe. Avevano patito la fame, mangiavano pane nero e tiravano avanti per giorni senza mettere niente sotto i denti. Quando gli americani alla fine arrivarono, con i carri armati e le loro scene da film, mia nonna, che era appena una bambina, vide il suo primo uomo di colore. Era più scuro di me al mare, e le sorrise. Le diede anche una scatola di biscotti, enorme. Era grande quasi quanto lei. Lo ricordava benissimo. Appena l’americano se ne andò, un uomo, uno del paese, corse verso di lei e le strappò di mano quella scatola. Lei non realizzò subito quello che era successo. Non mangiava da una settimana.
Mio nonno cominciò a fumare grazie agli americani. Era un ragazzino, li seguiva ovunque. Era veloce ad imparare. Anni dopo mise a frutto questa sua dote, e aprì un paio di bar. Subì diverse rapine, una volta gli spararono. Non perdeva mai il buonumore. Lo ricordo triste solo una volta. Aveva davanti un televisore, e sullo schermo le immagini di via D’Amelio in quel pomeriggio di luglio.
Mi portava in giro in campagna, poi si addormentava sotto uno degli ulivi e lasciava che
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A scuola stavamo sempre all’aria aperta. Con un po’ di fortuna, qualche volta riuscivo a convincere mio nonno a farmi fare il bagno a marzo. Il mastro ci picchiava, ma era una persona civilissima, molto profonda.
Crescendo, la musica cambiò poco. Non ci picchiavano più, perché eravamo adulti. Ci insultavano, ci riempivano la testa di cose vecchie e sorpassate, non chiedevano se avevamo domande da fare perché non avevano pronte le risposte.
Nella mia classe, piena di analfabeti, nessuno venne bocciato perché erano tutti raccomandati. Non imparammo niente, se non questo. Persone che non riuscivano a leggere, che avevano difficoltà a fare due più due, le ritrovai poi col camice da chirurgo, con la toga da giudice. Mi resi subito conto che non erano cambiate di una virgola.
La città cambiava con noi. Le spiagge, un tempo lunghe, pulite, frequentate, cominciarono a svuotarsi, a sporcarsi, a morire. Il litorale diventò un luna park vuoto (e costoso). Il traffico e la viabilità impazzirono. Aprirono un parco, e pochi anni dopo già era diventato malfamato. Anch’io vivevo in un cosiddetto quartiere malfamato, ma non successe mai niente. Niente, a parte uno che gambizzarono nell’androne del mio palazzo per un debito. La mattina dopo vidi delle macchie color amaranto. Cos’è?, chiesi. Pomodoro, mi risposero. Mi dicevano la stessa cosa quando guardavo una scena di sangue in tv.
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Dopo la scuola, l’Università –la stessa dove uccidevano i professori, arrestavano i rettori, dove i cognomi erano sempre gli stessi. Pochi passavano. Conoscevo un sacco di 110 e lode in medicina che non sapevano come si metteva un cerotto. Giravano nei locali che erano stati aperti per loro, che costavano tanto e non davano niente se non il riconoscimento di quel piccolo potere. I dottori prendevano soldi sotto banco, nello stesso periodo in cui mia nonna si ammalò coi loro vaccini. Gli avvocati crescevano a dismisura, proprio mentre mia madre veniva investita da un motorino guidato contromano da uno senza patente, senza venire mai risarcita.
Intanto la spiaggia era sempre vietata, ma la gente faceva il bagno lo stesso. L’acqua mancava per pomeriggi interi, in quei luglio da lasciare senza fiato. Nell’aria c’era odore di estate, e dei cassonetti che nessuno veniva a svuotare. Per migliorare tutto questo votammo un sindaco. Fu messo sotto processo, riconosciuto colpevole, dunque cambiarono la legge apposta e lui potè tornare. La gente lo rivotò.
C’era un’elitè, c’era sempre stata. In loro rivedevo molti dei miei compagni di un tempo. Passavano in Audi davanti alle baracche di quelli del terremoto, che ancora sognavano una casa. Ci passavano anche i camion, a decine e centinaia, che ogni tanto falciavano qualche pedone. Gli edifici storici ogni tanto perdevano un pezzo, e anche quelli nuovi. Costruivano ovunque. Dallo Stretto, quando tornavo a Messina, vedevo un muro di cemento a picco sul mare.
Ormai solo due tipi di persone amavano quella città: quelli che l’avevano lasciata (perché da lontano tutto è più bello) e quelli che erano costretti a restarci contro la loro volontà. Gli altri si lasciavano andare ad una quieta disperazione fatta di mah, boh, chissà. Il valore culturale, che aveva una grande tradizione, si era ridotto al vantarsi che Maria Grazia Cucinotta è messinese. Ai giovani importavano i localini nuovi, tutti posseduti più o meno dagli stessi. Le fabbriche chiudevano, i negozi chiudevano, solo istituti di credito e centri scommesse spuntavano come funghi. I miei concittadini avevano bisogno di soldi, in un modo o nell’altro. Ma le cose andavano male e tutti erano nervosi, si parcheggiavano addosso, si insultavano, si urlavano.
I treni erano in ritardo, i traghetti erano in ritardo, le poste non funzionavano, negli uffici c’era assenteismo e fancazzismo, i raccomandati riempivano ogni buco, i posti di lavoro si riducevano a zero, i turisti non venivano più, la delinquenza aumentava, perfino i morti al cimitero non trovavano più posto…
Ma tutto questo sarebbe stato risolvibile. Parlo al passato perchè un problema si risolve solo quando lo vedi come un problema.
La gente nell’Isola non la pensa così. Per loro basta il sole, il mare, il cibo, l’aria. Tutte cose che piacevano anche a me, quando ero piccolo. Mi hanno tolto anche quelle.
C’è sempre stato qualcosa, al di sopra delle nostre teste e anche dentro. No, nessun Burattinaio. Siamo stati noi a farci del male, noi a volere questo, noi a chiudere un occhio. Gente che non importa, gente che se ne fotte, che protesta solo per il calcio mentre gli fanno di tutto. Gente che ha consegnato la sua vita a faccendieri, a deputati con la faccia come il culo, a corrotti, a figli di papà.
Saremo noi che faremo inabissare quest’Isola.
Avevamo tutto, e ora…
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Quando i miei nonni sono morti, sono andato a casa loro. Nella libreria di mio nonno ho trovato il libro di Falcone, “Cose di Cosa Nostra”. L’ho aperto. Il segnalibro si fermava poche pagine prima della fine, come se non avesse voluto sapere come andava a finire.
Me lo sono portato a casa. L’ho letto tutto in un pomeriggio di pioggia di febbraio, quando l’acqua cade per giorni, riempie le buche nelle strade e fa saltare gli acquedotti. Beh, quasi tutto.
Sono arrivato nel punto in cui mio nonno aveva lasciato il segnalibro. Nemmeno io l’ho finito. Ho chiuso il libro, l’ho messo sul comodino e sono rimasto a sentire la pioggia cadere.
6 commenti:
Beh questa è la Sicilia..conosco gran parte delle cose di questo racconto..purtroppo..ma la sola che mi ha fatto sorridere è la presenza degli americani ai tempi dei tuoi nonni..anche mia nonna me lo racconta spesso :)
se non altro una volta c'erano gli americani......oggi?
bè, io sono quella che è partita per necessità e che ama la sua isola perché "da lontano tutto è più bello". sento ogni odore che hai descritto, vedo ogni paesaggio che hai raccontato... il mio viso sorride ma il cuore piange perché sa, come lo hai ben detto tu, che se l'isola affonda ogni giorno più è per la gente che ci vive e che mette in pratica al quotidiano quell'assurda legge del... com'è che si dice già? "OGNUNO PER SE' E DIO PER TUTTI..."
Non credo che gli americani in sè abbiano fatto del bene, però capisco cosa significavano allora...era la fine di un periodo buio, la promessa di qualcosa che poi, nei fatti, non è mai arrivato...
Com'era quel libro che mi dicevi sempre tu, Magda? "Perchè non possiamo non dirci mafiosi"? Esatto, è quello il punto... la mafia non è solo quella delle bombe, del pizzo, o della lupara come nei film... la mafia è anche girarsi dall'altra parte, chiudere un occhio, fottersene, lasciare che figli e nipoti ereditino questo sfacelo... la mafia è anche far finta che l'Isola non si stia inabissando... è nella testa, prima ancora che nei fatti...
Io sono qui.... su quest'Isola tremendamente bella e infinitamente triste... tradita dai suoi figli.... tradita dalla sua storia... TRADITA!
Io sono tra quelli che son "dovuti restare" per il momento, non so ancora per quanto.
Amo la mia terra.... amo il MARE e il profumo della salsedine che entra in camera mia quando apro la finestra.... sono parte di me e non riesco a definire me stessa e la mia storia personale senza pensare ai tramonti, alla spiaggia, alla barca di legno di Papà...allo Scirocco...
Ma so anche che tutto questo non basta! Che serve ben altro per VIVERE...
Cosa è giusto fare?
Non è giusto restare senza il coraggio di cambiare le cose ....
Non è giusto andar via senza il coraggio di cambiare le cose...
Non sono giusti i "Boh" i "mah" e i forse.... ma... mentre noi facciamo i conti di chi parte e di chi resta, mentre mescoliamo i ricordi a un presente scomodo... LEI... la SICILIA... muore e vive ogni giorno..... nella sua folle e amara disperazione .... se la ride ...o forse piange?... chi lo sà!!!
Anna
stupendo.
L'Isola... quanto la amo, quanto la odio, quanto la amo. L'Isola.
non ho vere parole per descrivere che ho provato mentre leggevo... oggi girando per le piccole librerie autonome in centro a Palermo, ho visto quel libro... non l'ho mai letto. è strano. ma quel nome, quel libro, questa Isola... è tutto perfettamente strano, così perfettamente che ho deciso di restare qui.
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