martedì 2 ottobre 2012

Due matrimoni e un funerale


Ci eravamo incontrati all’interno del municipio, pareti di cristallo, aiuole fuori, macchinetta che distribuisce i numeri come dal salumiere, “stiamo sposando la coppia numero… sette”. La nostra coppia ancora non si vedeva, in ritardo come sempre. Dopo strette di mano e parole di circostanza, ci trovammo tutti a guardare fuori dalle pareti di cristallo, ma non c’era niente da vedere. Ci trovavamo a Parramatta, suburra dal nome ameno (e solo quello) a ovest di Sydney. Ricordai che qualche anno prima io e Mauro avevamo lavorato una sera proprio lì, a scaricare casse per uno stronzo e portarle alle macchine dei clienti e sudare nel freddo della sera. Adesso almeno la temperatura era più gradevole.
Nisha e Leon arrivarono più tardi, un po’ trafelati, sicuramente nervosi. Era il loro primo matrimonio, e questa non era solo una battuta: due mesi dopo la puntata all’allegro municipio di Parramatta, ci saremmo tutti ritrovati in India per le nozze vere e proprie, tre giorni di canti, balli e grandi bevute. Nel frattempo, ci accontentavamo di stare pigiati in una stanzetta soleggiata del municipio, su anonime panche di legno, in una stanza che sembrava stuccata da poco, agghiaccianti decorazioni ai muri ed una terribile musichetta in filodiffusione, che sembrava il sottofondo di un pessimo porno dei Settanta.
La celebrante –una donna filippina con occhiali spessi e un senso dell’umorismo stantìo- arrivò poco dopo, chiese allo sposo se voleva sfruttare quell’ultima occasione per darsela a gambe, chiese alla sposa se si rendeva conto che stava dando un bacio d’addio al suo nubilato, dopodichè cominciò a recitare tutto il pippone australiano di leggi, obblighi e doveri. Curioso, ma lì dentro di australiani ce n’erano ben pochi. Mentre la celebrante andava avanti con battute che –poco ma sicuro- rifilava ad ogni coppia, pensavo a quale forza invisibile aveva portato tutte quelle persone, arrivate dai quattro angoli della Terra, ad essere proprio lì in quel momento, per quel matrimonio. Cosa aveva portato me, italiano, a dover fare, tra qualche mese, il testimone d’anello di un ragazzo indiano, nel torrido inverno di Bombay? Forse la stessa trama nascosta che aveva portato loro due, provenienti da regioni, famiglie, caste così diverse, ad unirsi in matrimonio in un caldo pomeriggio di primavera in Australia.
Strinsi la mano della mia ragazza australiana pensando a questa forza oscura, alle coincidenze, al caso e a quel che di buono ogni tanto ne veniva.

Arrivai al cimitero di MacQuarie in ritardo. Colpa del traffico. Parcheggiai il motorino, poi andai a cercare un bagno. Mi sembrava una vita dall’ultima volta che avevo fatto pipì.
Aspettai che una donna cinese e suo figlio piccolo finissero e mi fiondai dentro. Dopo, attraversai più sollevato i vialetti del cimitero. Più sollevato fisicamente, almeno.
Non ero mai stato in un cimitero australiano, nè in un funerale. Il cimitero era ben curato, con tombe semplici e tenute in buono stato. C’erano vialetti ed indicazioni e perfino dei chioschi per comprare delle bibite o per pranzare. L’erba era tagliata, i fiori sempre freschi. Non immagineresti a cosa serve quel posto. La Morte ha tutto un altro modo di presentarsi, nei quartieri alti. Non sembra neanche Morte, solo un riposo temporaneo.
Una donna vestita di bianco –la divisa ufficiale di quella particolare agenzia funebre- mi guidò fino all’ingresso della cappella, mi fece firmare un registro e poi accomodare. La cappella era piccola, abbastanza nuova. L’interno sarebbe potuto essere confuso con quello di un villino sul mare. C’erano finestre aperte dalle quali entravano sole e sguardi di chi non aveva trovato posto all’interno. Anch’io restai in piedi, in fondo. Quella cerimonia nella cappella, già nel cimitero, era molto diversa da quelle a cui ero tristemente abituato in Italia. Mi ricordava molto quelle nel film americani, e solo allora mi resi conto di quante finte morti avevo visto nel corso della mia esistenza da spettatore.
Quella però, anche se non sembrava, era una morte vera, ed una di quelle più difficili da digerire.
Non c’erano inni religiosi, solo discorsi di chi conosceva bene la defunta. Sue, la madre della mia compagna, parlò con calore, raccontò storie e aneddoti, riuscì perfino a far sorridere teneramente alcuni nella stanza. Lei conosceva la defunta da 43 anni. Non riuscivo nemmeno a immaginare una tale quantità di tempo.
Alla fine della cerimonia la celebrante ci ringraziò e poi fece partire, per una strana ironia, “Viva la vida” dei Coldplay, la canzone preferita della morta, mentre le persone sfilavano via verso l’uscita. Mi passarono di fronte i figli piccoli in lacrime, poi la figlia più grande che sorrideva a tutti come se fosse ad una festa, come se fosse ovunque ma non al funerale della madre, e sinceramente mi si spezzava il cuore ad immaginare il momento nel quale sarebbe uscita da quello stato e avrebbe capito cos’era successo.
Uscì dalla cappella anche Sue, in lacrime, ed io le passai accanto senza dire niente. Non c’era mai niente da dire quando moriva qualcuno, e ancora di meno quando si trattava di suicidio. L’aria era già satura di tutte quelle cose che tutti avrebbero voluto dire ma non avevano detto perchè pensavano ci fosse ancora tempo, e di tempo ce n’era per tutti tranne che per la persona che aveva deciso di andarsene così.
Avevo le mie idee sul suicidio, idee che in quella mattina di sole così ferocemente bella sembravano ancora più inutili del solito, così come sembravano inutili un bel po’ di altre cose mentre la costosa cassa di mogano veniva portata da qualche altra parte e noi ce ne andavamo verso la zona rinfreschi, pieni di domande che non avrebbero mai avuto risposta.
Non mi era mai capitato, ad un funerale, di vedere in tutti, indistintamente, quell’espressione, a prescindere dal legame che avessero con la defunta –perchè una morte del genere ti spaventa e ti sgomenta, ti svuota, ti fa chiedere perchè anche se non ci parlavi da anni, ti smuove le certezze e ti lascia più nudo, più indifeso, più solo. Come quel cimitero e quella cerimonia, pensavo che certe cose succedessero solo nei film. Mi sbagliavo, ovviamente.
Ci sbagliavamo tutti in un bel po’ di cose, e nel notarlo ci sentivamo più umani.
Dopo la cerimonia il rinfresco, dove gente sconosciuta parlava e ingurgitava panini e tartine, e già l’atmosfera si rilassava ed io dovevo tornare al lavoro e montavo sul motorino perchè la vita va avanti, come si dice, e non ho mai capito se questa cosa dovrebbe sollevarci oppure farci incazzare ancora di più.

Quattro ore di viaggio in giacca e cravatta non le avevo ancora fatte, ma quel matrimonio era tutto una follia improvvisata. Non saprei come altro definire una cerimonia alla quale vengono invitati due tizi conosciuti (e per pochissimo tempo) dallo sposo 6 anni prima dall’altra parte del mondo, e che non si vedevano da allora. Ma intanto quei due tizi, cioè io e Mauro, correvamo (limiti australiani permettendo) verso sud, superando campi sconfinati e cittadine squallide e cieli blu fino a parcheggiare nel motel che avevamo prenotato a Jervisa Bay. Balzammo subito su un taxi, l’autista un barbabianca che parlava solo di football e rugby, e ci inoltrammo nel parco nazionale di Bodeeree. Il terreno si lavorò le sospensioni per una ventina di minuti tra gli alti eucalipti finchè non sbucammo verso una radura. Pagammo una cifra spropositata, scendemmo e alla fermata trovammo 3 canguri ritti sulle zampe, che ci fissavano in silenzio tra l’incuriosito e l’annoiato. Ne avevo visti molti, ma mai così da vicino. Filammo verso il luogo della cerimonia, un piccolo palchetto costruito tra gli alberi, proprio di fronte al lago. C’erano troppe poche sedie per gli ospiti, e tutti ci guardavamo strano. Non ci conoscevamo, e volevamo lasciare le cose come stavano.
Lo sposo arrivò. Io e Mauro non lo riconoscemmo, più invecchiato dei sei anni trascorsi, segnato come non ci aspettavamo. Ci sembrò di abbracciare un’altra persona, e lui era troppo nervoso per colmare quel gap tra noi. Si avviò pallido verso la celebrante e restò lì fissare il vuoto e a strofinarsi le mani. Un fastidioso vento cominciò ad alzarsi, giusto in tempo per l’arrivo delle damigelle d’onore e delle loro gonnelline gialle, così leggere nella brezza. Dopo l’arrivo della sposa, la gente restò a lungo incerta se sedersi o restare in piedi. Io e Mauro ci sedemmo e assistemmo alla mia terza cerimonia in meno di una settimana. Ecco quello che facevamo tutti: compleanni matrimoni anniversari, sempre a celebrare la vita più che a viverla e basta. Avremmo portato poi bomboniere e foto ricordo al Padreterno, per dimostrare che avevamo seguito il copione. Che fine aveva fatto la spontaneità? Forse era stata risucchiata tra una lista di nozze e il servizio fotografico in bianco e nero.
Ma questi sono pensieri del cazzo che mi vengono sempre in queste occasioni, e che comunque svanivano quando vedevo il sorriso solare della sposa, che guardava il nostro amico come solo una donna innamorata riesce a fare. Erano tutti e due innamorati, i genitori erano felici, gli amici applaudivano. Se ne sbattevano anche del vento che si stava alzando e che rendeva appena udibili le loro parole, costringendo la cerimonia ad una chiusura veloce.
Il vento, scoprimmo dopo, sarebbe stato l’ultimo dei nostri problemi. Stipati in un tendone trasparente battuto dalla tempesta, saremmo stati parcheggiati al nostro tavolo, seduti con perfetti sconosciuti, per otto ore e mezza di fila, intervallate da un’unica portata (peraltro nemmeno commestibile). In compenso, con tutto quell’alcol che ci avrebbero dato, la diffidenza della cerimonia sarebbe passata e tutti saremmo diventati amici eterni, fino ad addormentarci sul bus di ritorno coi canguri ancora piantati davanti alla fermata, a non spiegarsi perchè facessimo quello che facevamo.
Neanch’io sapevo perchè facevamo quello che facevamo. Ci avrei pensato anche il giorno dopo, sdraiato nella meravigliosa spiaggia bianca di Hyams Beach assieme a Mauro, un mare come nelle cartoline, il sole tutto per noi, i delfini che ci nuotavano davanti e la possibilità di giocare con discorsi seri e discorsi cazzoni, di permetterci pensieri profondi alternati a frescacce paurose, così come ci potevamo permettere di lamentarci di una cerimonia dove si era mangiato poco, dopo soli pochi giorni da un funerale per suicidio, perchè la vita era anche questa, la nostra sopravvivenza legata alla nostra capacità innata di andare avanti un metro alla volta, di concentrarci sulle piccole onde dell’esistenza per non restare travolti dai maremoti che ogni tanto, lo stesso, ci colpiscono. Pensare all’acqua fredda della doccia mentre esiste la fame nel mondo. Non è cinismo, se c’é sia l’uno che l’altro. Piuttosto, lo vedo come riconoscere la nostra limitatezza come esseri umani, con la ragione che non arriva a capire ed invece il cuore che arriva a sentire fin troppo, così tanto da non poterne più.
Allora in quei momenti devi pensare che tutto passa, esattamente come passerà quel sole fantastico là sopra e come sono passati problemi che sembravano infiniti. Devi pensare che, come Nisha e Leon, ci siamo trovati tutti per caso su questa Terra, ed è una gran cosa riuscire e cavarne qualcosa di positivo di tanto in tanto. Devi pensare che, come il nostro amico di 6 anni fa, invecchiare forse assume un senso se hai una donna che ti ama davvero accanto. Devi pensare che, quando sei morto, lo sei per un bel pezzo, e allora devi prendere tutto quello che capita, rinunciando a capire tutto, a spiegare tutto, a consolare, a curare.
Puoi solo dare delle pennellate che facciano capire, puoi aiutare, non mollare, puoi non smettere mai di provare. Puoi amare.

Non smettete mai di sporcarvi le mani con la vita.
Non ve ne pentirete.



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