Premetto subito che il titolo kerouachiano serve per l’effetto drammatico: in realtà non stavo viaggiando, nè tantomeno sono solitario (anzi, come scrivevo in un altro post, uno dei miei problemi al momento è proprio l’opposto: troppo tempo con gli altri, troppo poco con me stesso).
Oggi però, per una serie di cause, mi sono trovato in centro a Sydney, con tutto il sabato davanti a me e niente da fare, e così ho deciso di farmi un giretto manintasca, a vedere un po’ cosa mi ero perso.
In centro vado, e anche spesso (considerando che vivo ad una quarantina di minuti di treno da lì, e che sono un pigro militante), ma quasi sempre di sera. La città di giorno è strana, e di sabato ancora di più. Sai che metà degli ubriaconi è a casa a smaltire il venerdì sera, e l’altra metà si prepara ad un sabato sera di fuoco. Nel mezzo ci siamo noi, ovvero io e un migliaio di turisti che riempiono marciapiedi e incroci con traiettorie vaghe e poco importanti.
Nel centro di Sydney il sabato, in fondo, non c’é un cazzo da fare. Una volta svuotati uffici e banche, la città appare per quello che è: un enorme, rumoroso luna-park montato ad uso e consumo di turisti, backpackers e sbevazzoni del fine-settimana. Centinaia di pub, sale gioco, bistrot, ristoranti, tavole calde, fast food, negozi di souvenir, mentre l’occhio fatica a trovare mostre, musei, punti di incontro. Si beve, si mangia, si fa shopping. Due o tre librerie, tutte dall’aria da multinazionale, con in vetrina sempre i libri sbagliati. Il cielo nuvoloso, atipico per questa primavera australiana, aumenta solo il senso di uggia.
Ma non mi dispiace starmene qui a passeggiare da solo. Non ho molto tempo per i miei pensieri, ed è prezioso approfittare di ogni momento del genere. Magari scopri che non ne hai così tanti, o di così importanti, ma forse ci sono quei due o tre che vanno portati a spasso di tanto in tanto a prendere aria, a tornare in vita.
Viaggiare da solo non mi è mai dispiaciuto. All’inizio ti senti un po’ coglione, ma poi passa e te la godi tutta, anzi, forse te la godi anche di più. Non fraintendetemi: è bello viaggiare e condividere con qualcuno tutto il nuovo che si vede, che si assapora. In molti casi, riesce a farti persino apprezzare qualcosa che, da solo, avresti completamente ignorato e dimenticato.
Ma il viaggio da solo ha un altro gusto, quando è scelto. Ti permette di concentrarti su dettagli minimi, che sono poi quelli che davvero costituiscono il viaggio. Ti costringe ad aprire gli occhi e a vedere e sentire cose che normalmente non vedi e non senti. Ti dà il tempo, come dicevamo, di riprendere quei due o tre pensieri e vedere che effetto fanno in un altro contesto. Ti fa riflettere, da lontano, su cose che ti riguardano da vicino. Ti apre anche agli incontri, che spesso non faresti se fossi con qualcun altro.
Da solo ho fatto qualche breve viaggio, niente di epico, ma nel bene e nel male, mi sono goduto ogni secondo, anche quelle sfumature malinconiche, quasi romantiche (o patetiche) che certi viaggi portavano con sè, specie se comportavano degli addii.
E quando ero in quei treni fetidi che non arrivavano mai, o in quei bus alle 2 del mattino in una città sconosciuta, ripensavo a Kerouac, a lui e ai suoi chilometri e ai suoi due o tre pensieri che doveva per forza portare in giro sotto questo vasto cielo. Lo vedevo fissare fuori dal finestrino del treno o del bus, mentre magari le frasi si componevano già nella sua testa, i sensi all’erta, la notte che non lasciava scampo.
Il viaggiatore solitario, questa figura tragica che ho sempre amato, e che alla maggior parte delle persone sembrava solo uno sfigato che è rimasto di fuori.
Immerso in questi grandi pensieri (Kerouac, addirittura, di sabato mattina, amici miei!), mi ero quasi dimenticato che, uno, non stavo affatto viaggiando ma facendo un giretto svagato in centro, e due, mi trovavo immerso fino al collo nell’elemento che più mi fa paura al mondo, cioè la gente (e la gente della mattina del weekend, che è come dire “bonus extra”). Ho cominciato allora a guardare le facce. Come al solito, non c’era granchè da guardare.
Come sempre qui a Sydney, la stragrande maggioranza erano asiatici: di tutte le taglie, dimensioni, dialetti e tinta dei capelli. Venivano poi i turisti americani con occhiali da sole anche senza sole, i backpackers europei sempre spaesati con la mappa in mano e un paio di chili di piercing, i ragazzi australiani che, col freddo o col caldo, sono vestiti sempre allo stesso modo: jeans strizzatissimi e a vita ultra-bassa e maglietta larga ma aderente sui bicipiti (e talvolta sulla pance di birra). Le ragazze sfilano bellissime come sempre, anche se le più belle si stanno conservando per la serata. Le più belle in passerella, stamattina, sono le turiste dell’Est Europa. Pochi italiani, per fortuna, e un numero di coppie altissimo, che fa sentire qualsiasi viaggiatore solitario il terzo che regge il moccolo.
Non sapendo cosa fare, giro per i due o tre locali che frequento sempre quando sono in centro, trovandoli chiusi. Decido allora, spinto dal vento, di infilarmi in un Oporto di una parallela a George Street, la strada principale del centro. L’Oporto è un fast food come il MacDonald, ma a base di pollo e dall’aria leggermente meno tossica. Entro, ordino, mi siedo ad uno dei tavoli. Il locale è quasi deserto, eccezion fatta per tre uomini seduti in tre separè, uno dopo l’altro, lungo lo stesso divano. Io mi siedo al quarto. Sembriamo i concorrenti di un telequiz, dove le domande sono poco importanti e il pubblico è tutto andato via.
Un ragazzino con la divisa del locale, che sembra non avere più di 11 anni, mi porta la mia ordinazione. Mangio, leggendo il libro che mi sono portato dietro. Mangiare è l’unica cosa che mi dà fastidio fare da solo quando viaggio (a parte quando devi pisciare e hai mille bagagli dietro e non sai mai come fare). Non perchè ami mangiare con altri (come saprete già, sono un po’ strano), ma solo perchè non mi va di mangiare fissando altri che fanno la stessa cosa. Se potessi avere un tavolo davanti ad un muro, sarebbe perfetto. O davanti ad una vetrata. Ma nella maggior parte dei casi ti ficcano davanti ad un altro viaggiatore solitario che ti rimanda indietro la tua stessa faccia stanca, e allora l’appetito passa in un attimo.
Il fast food va bene, scegli il tavolo, ci stai poco a mangiare e nessuno fa storie se te ne stai lì con un libro sul tavolo. Mia madre odiava quando lo facevo, ma ora lei si trova a 15.000 km da qui, quindi penso di poterlo fare.
Una volta finito, passeggio ancora un po’. Camminando per quelle strade mi torna in mente di quando lo facevo anni fa, quando ero anch’io un backpacker e giravo per le strade affamato e distratto. Periodi in cui lavavi i piatti e scaricavi casse, o magari non lavoravi per niente, in pancia solo noddles istantanei, in tasca nemmeno i soldi per mettere insieme una birra. Periodi in cui la mia famiglia mi diceva –ma che cazzo stai facendo-, i miei amici mi dicevano –ma che cazzo stai facendo-, e neanch’io sapevo bene cosa cazzo stessi facendo.
Neanche adesso, che sono passati anni, lo so bene. So solo che in tasca ho i soldi per una birra, e allora decido di fermarmi ad un locale che conosco, sempre su George Street. Ordino una birra bianca d’importazione (le birre australiane sono fra le peggiori di tutto il globo terracqueo) e mi siedo fuori, nel vicoletto con pretese (frustratissime, direi) di aria europea. Non c’é nessuno fuori, e di questo sono felicissimo, Nemmeno l’insulsa musichetta dance del locale arriva fin qui. Apro la borsa e tiro fuori di nuovo il libro che sto leggendo, una raccolta di articoli di Pier Vittorio Tondelli (di cui abbiamo già parlato qui nel Morgana)sugli anni Ottanta, intitolato “Un weekend post-moderno”.
Mentre leggo e sorseggio la birra, inciampo in un capitolo che s’intitola proprio “Viaggiatore solitario”. Il capitolo inizia così: “Quando si viaggia soli ci si sente ridicoli e disarmati”. Eccoci. Butto giù un sorso generoso e continuo a leggere. Il brano continua così: “ (...) Voglio che la mia solitudine sia rispettata. Se sono solo, non per questo sono un uomo a metà. Non per questo ho bisogno di petulanti eserciti della salvezza che vengano a disturbarmi. Non sono sposato, non credo all’istituzione familiare, sono debole come tutti, e fragile ed emotivo. Ma so stare solo”
Continuo a leggere, e mi sento meno solo.
Finisco capitolo e birra, mi alzo e mando un bacio a Sydney, a questa città che non ce la fa ad essere crudele con i viaggiatori solitari nemmeno quando la pancia prude per la fame, nemmeno quando vorrebbe piovere ma non sa perchè. Mando un bacio all’umanità che ne calpesta i marciapiedi augurando loro ogni bene, ma io, per oggi, ho fatto il pieno. Mi dirigo verso la stazione, soddisfatto. Ho portato in giro i miei due o tre pensieri, e ne ho un paio di nuovi. Il cielo minaccia freddo senza arrivare ai fatti. Il treno arranca lungo i binari sporchi di piscio.
Non potrebbe andare meglio.
sabato 3 novembre 2012
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1 commenti:
Siamo pochi quelli che sappiamo essere da soli... Bravo e bravo anche questo sabato da solo in citta...
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