domenica 9 dicembre 2012

Indian Ocean


In aereo abbiamo inseguito il tramonto per ore, arraffando tutti i raggi di sole possibili contemporaneamente alle birre offerte da hostess con divise come piagiami fuorimoda.
Il sole ha finito per cedere proprio quando ci stavamo avvicinando a Perth dopo 4 ore di volo. Il panorama era costellato di foreste precise e ben delimitate come pezzi di Tetris, e dalle famose miniere. Tutto sembra apparire all’improvviso nella vastità di questa terra della quale non si vede mai la fine, e perfino l’oceano sembra diventare un tutt’uno con le infinite lande desolate dell’interno, percorse solo da strade sterrate incredibilmente lunghe che sembrano state create dalla terra stessa, come se nessun uomo abbia mai potuto mettere piede su quel suolo.

Prime impressioni: Perth sembra pulita, piena di colori per il Natale, un po’ europea nello stile. Una minuscola Manhattan degli antipodi, dove si costruisce giorno e notte, coppie eleganti fanno il giro dei locali e una luna grassa se ne sta appollaiata tra grattacieli e case coloniali.

Il sole sembra metterci una vita, a Perth (anzi, precisamente a Scarborough, località di mare appena fuori dalla città), prima di inabissarsi nell’Oceano Indiano. Come se non volesse cedere alla notte, o come a voler illuminare ogni singolo angolo di questo panorama tranquillo fatto di gente al mare, auto che girano in tondo senza fretta, locali anni ’80 (flipper inclusi) e qualche bicicletta.
Questo paesino sembra dire: sì, lo sappiamo che siamo un posto turistico ma non ce ne frega niente, fate quello che dovete fare. Lo vedi nel tramonto sul mare, spacciato per una novità strabiliante, l’evento che manderà in orgasmo centinaia di macchinette fotografiche tutte uguali (e anche le foto saranno tutte uguali) –ma per la gente di qui è abitudine, come le stelle la notte che non le guardi mai, tanto lo sai già che sono lì.

E il mare, questo mare così blu, così falsamente calmo che ti inganna fino a pochi metri dalla riva –una distesa pacifica quasi verde, sotto la quale si agitano squali e altri mostri della nostra infanzia.
L’orizzonte, soprattutto, ti confonde e crea spaesamento –più che a Sydney, perchè lì l’immagine ha (quasi sempre) un limite, una costa, una rientranza, qualcosa.
Dalla mia stanza d’albergo affacciata sul mare vedo l’isola di Rottnest, che mi dà un inatteso punto di riferimento. L’isola è qualcosa che posso capire, è nel mio DNA –ma quelle vastità che si aprono dietro l’isola?
Andando sempre dritto non incontreresti niente per migliaia di chilometri –MIGLIAIA- supereresti perfino l’India senza mai nemmeno vederla (a dispetto del nome dell’oceano) e le prime coste che vedresti sarebbero quelle africane.
L’Africa –e in mezzo il niente.
Quel “mare aperto” di cui hai sempre sentito, e che fatichi ad immaginare –come se, sotto, in quegli abissi, si nascondessero piovre giganti e oscurità alla Jules Verne. Come se, sopra, pirati e correnti potessero decidere ancora della tua vita come secoli fa.
Questo oceano che mi fa subito pensare allo scrittore Joseph Conrad, che intingeva il suo pennino nell’acqua di mare –“Cuore di tenebra”, ma soprattutto “La linea d’ombra”. Conrad che aveva dovuto viaggiare e sentire queste acque, avvertirne fascini e pericoli, dolcezza e omicidi, per poi riportarle sulla carta e ricordare a noi come il mare ha, per i problemi degli uomini, una sola soluzione, e definitiva.
Questo oceano che ti spoglia, e ti lascia nudo e vivo, solido e confuso come isole nella corrente.

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