lunedì 3 settembre 2012

Dov'eravamo, dove siamo, dove saremo


Questa é una storia in due parti, che teoricamente non dovrebbe interessare nessuno di quelli che non mi conosce personalmente –e forse nemmeno loro. Non ne sono sicuro. Non sono nemmeno sicuro che sia una storia vera e propria.
Posso peró immaginare che la prima parte finiva con me in quella macchina che correva verso l’aereoporto in un tramonto infiammato, i finestrini abbassati e il vento che scompigliava capelli e ultimi pensieri e portava fino in cielo le note della colonna sonora di “Into the wild”. Avevo talmente tante cose per la mente che finivano per annullarsi, cosí chiusi gli occhi dietro le lenti scure e lasciai che “Rise” di Eddie Vedder mi portasse altrove, lontano anche da quel vento romano e dalle mie ultime ore in Italia per un bel pezzo.

Era il 2011, un anno pigro e feroce. Prima di quel momento, ce n’erano stati tanti altri, molti di questi pieni di dubbi, di strade chiuse, di piogge che cade e niente per ripararsi. Inverni troppo freddi, estati brevi e passeggere. Il gelo del cuore, finché un giorno il sole ci riscaldava il letto sfatto, e allora capivamo che eravamo sopravvissuti.
La primavera era qualcosa che ci gustavamo di nascosto. Erano state, per dirla alla De André, giornate furibonde, senza atti d’amore né calma di vento. Ci sfuggiva il senso di quello che stavamo –o non stavamo- facendo. Eravamo protagonisti di una storia che (ne eravamo certi) non sarebbe interessata a nessuno. Il libro di noi sarebbe rimasto sepolto insieme a centinaia e migliaia di altri esattamente uguali. Al mattino ci svegliavamo, ci strofinavamo gli occhi e toglievamo via un po’ di quella polvere secolare da libro abbandonato.
In quanto personaggi avremmo dovuto agire, fare cose, portare avanti un pensiero, impegnarci in azioni. Tutto peró veniva bloccato sul nascere. Quella cattiva stagione ci frustrava grandi atti ed eroiche cazzate, lasciandoci solo un retrogusto amaro e un malditesta da lunedí mattina.
Come storia non era molto originale. Gli ostacoli erano sempre gli stessi: il lavoro che non c’era e se c’era faceva schifo, i soldi che non c’erano, il futuro che non c’era. Nessuna differenza con le generazioni precedenti, in questo. L’unica era che non c’era piú distinzione tra risposte giuste e sbagliate. Ci avevano tolto pure quello.
Era una storia di tutti ma noi la sentivamo solo nostra, tenendoci stretto il proprio maldistomaco e dandogli nome e cognome. Intanto riempivamo le notti dei nostri discorsi, mentre ci riempivamo la gola di fumo e medie rosse.
Il risultato era che non c’erano risultati.
Per questo alcuni servivano pizze ai tavoli, altri si alzavano nel cuore della notte e persino il mio amico G.P, pittore, aveva smesso di dipingere. Avevamo tutti bisogno di un posto dove andare, ma sembrava che anche per quello servisse una raccomandazione.
Riuscivamo ancora a ridere, a sorridere, a sorprenderci –ma pagandolo sempre di piú, accumulando debiti per ogni nuova ingenuitá della quale ci concedevamo il lusso. Erano tempi di serrande abbassate e discorsi banali e niente eroi, ma noi non volevamo capirlo.
Una girandola di facce di voci di decisioni da prendere da subíre da rimandare, finché non fosse stato tardi abbastanza e l’alba non ci avesse dato tregua. Ma i problemi restavano lí, i problemi, i problemi...


La seconda parte cominciava con un aereo, e finiva allo stesso modo. Nel mezzo, c’ero io tornato in Italia, e tutti gli altri protagonisti della prima parte. In un modo o nell’altro ero riuscito a rivedere a tutti, a dividere con loro birre e pezzi di strada. A me era sembrata di averne fatta un po’, di strada, ma lo stesso i problemi non erano scomparsi. Stessa cosa valeva per gli altri.
In un film, tutto sarebbe filato liscio e ci saremmo fatti una risata in dissolvenza. Ma la vita decideva altri ritmi e fissava poste diverse, che non tutti riuscivamo a raggiungere. Molto banalmente, a volte un anno é solo 365 brutte mattine messe in fila.
Cos’era cambiato? Tutto, ma poi niente, se ci pensavi bene. Ed era questa la nostra forza. Niente era cambiato, e noi eravamo ancora lí, come se non ci fossero stati di mezzo aereoporti, voli, differenze di fuso, compleanni e lauree perse, Skype, incompresioni e scazzi e messaggi che ti fanno pisciare dal ridere mentre sei al lavoro e non dovresti.
“Ci sentiamo poco, ma quando ci sentiamo, ci sentiamo bene” dissi ad una mia amica a Roma, poco prima di ripartire ancora una volta. Lei capí, sorrise. Il mio viaggio stava nuovamente per finire, dopo che avevo guardato tutti in faccia, stando a sentire le storie di ognuno, contanto rughe e sorrisi da bambino. No, in un anno non era cambiato granché, e se capitava, piú spesso che altro le cose erano cambiate in negativo. Non avevamo l’impressione di stare andando verso un futuro radioso, non c’era stata restituita una virgola di quello che ci avevano fregato con l’inganno.
Ma riuscivamo ancora a giocarci le notti come volevamo, a fingerci ingenui ogni tanto, a farci qualche risata a gola piena, e perfino G.P. aveva ripreso a dipingere. Non gli avrebbe pagato il mutuo né risolto gli altri problemi, eppure era importante che lo facesse. Era importante tutto quello che loro facevano, e che avrebbero fatto in quel lungo anno davanti a noi.

La seconda parte finiva con me in un taxi coi finestrini abbassati, di corsa nel tramonto romano. Niente amici stavolta, né Eddie Vedder. Andavo di corsa perché mi avevano fregato, sopprimendo all’ultimo il treno per l’aereoporto. In quel Paese mi avrebbero fregato sempre con qualcosa, e sarei sempre tornato lí.
Se esiste qualche forma di amore, é questa.
Poi l’aereo, il bambino giapponese che mi si addormentava sul braccio, i controlli con gli occhi appiccicati dal sonno, le attese, i controlli alla dogana, infine il taxi verso casa.
“Che si dice in India, amico?” faceva il tassista, un etiope con occhiali da jazzista,
“Non saprei, dal momento che non ci ho mai messo piede. Sono italiano, io”
“See, vabbé, dicono tutti cosí” sorrise lui. Io non dissi niente ma chiusi gli occhi a quel sole caldo di un inverno freddo e strano. Ero tornato a casa –almeno, una delle case. Sentivo che era la fine di qualcosa, o l’inizio di un’altra –il che non per forza era legato.
Sentivo che la seconda parte finiva cosí, senza vincitori, senza morale, senza molto da insegnare. Ma restavano quelle notti piene di parole, le nostre speranze, restavano i dipinti di G.P. e quel modo che avevamo di andare avanti fottendocene di tutto, restava la voglia di continuare, di non chiedere mai permesso, di non lasciare che fossero solo due parti ma molte, molte, molte di piú.
E stavolta, per una volta, dipendeva da noi.
A tutti voi che mi mancate sempre, e siete sempre qui.
Alla prossima.

"Media rossa", Giancarlo Privitera 2011

1 commenti:

Anonimo ha detto...

non ci sei riuscito davanti al taxi a farmi scivolare una lacrimella e ci riesci così con le girandole e le parole e col malditesta di questa giornata in cui sono OFF, come ho imparato a dire adesso...ma loro non lo sanno che io sono irreversibilmente ON-OFF-ON-OFF-ON-OFF-ON!grazie....cappy