Metà settembre, caldo. Quello che notavi subito, negli uffici, era la gente che si muoveva a due all’ora. C’era un ritmo tranquillo, da bonaccia, rilassato, molto siciliano. Si chiacchierava, si prendeva il caffè, si fumava nonostante i divieti. Impiegati indaffaratissimi che camminavano con un foglio in mano, e per portarlo a destinazione si fermavano cento volte.
Il caldo appiccicoso faceva il resto. Io e l’altro tirocinante che era con me in biblioteca, rischiavamo di addormentarci. Si sentivano le mosche, il traffico fuori. Non era così che ci eravamo dipinti la vita dentro un Opg –o manicomio criminale, se avete visto troppi film.
Entrò il nostro “capo”, camminando piano piano anche lui, ci strinse la mano, parlò un poco di cose vaghe, lontane, pigre anch’esse, e poi se ne tornò ai suoi mille e uno impegni.
Eravamo ormai con la testa che ci cascava e la bavetta al lato della bocca, quando la porta si aprì all’improvviso ed entrò una matassa di capelli ricci, con sotto una ragazza alta, scura. Si tolse gli occhiali da sole, si presentò come Magda, la nostra coordinatrice, e cominciò a parlare. Parlò e parlò e, dio mio, parlò. Ci scuotemmo dal nostro torpore per cercare di cogliere almeno un decimo di quello che diceva. Le sue parole riempirono la biblioteca, così come i suoi ricci folli. Ad un tratto disse che sarebbe andata al mare e sparì. Io e l’altro ci sedemmo, un po’ storditi. Sembrava che avessimo ascoltato Magda per ore. Guardammo l’orologio, e scoprimmo che erano passati solo pochi minuti.
Finalmente qualcuno ancora vivo, pensai.
Magda ci convinse, quel pomeriggio stesso, a fare il nostro primo gruppo. Mi ritrovai ad entrare in un posto completamente nuovo, un ospedale con le sbarre, una prigione con gli infermieri. Mi sedetti accanto al mio primo ricoverato, e realizzai qualcosa che avevo cominciato a sospettare già quando studiavo, e poi sempre più mentre raccoglievo mango o servivo pizze: quella cazzo di facoltà non mi aveva insegnato niente. Ero uno psicologo, ma solo sulla carta. Avrei dovuto ascoltare mia madre e fare l’ingegnere, anche se avevo 3 in matematica. Mi ripetevo che la psicologia mi piaceva, che era la mia strada, ma in fondo che ne sapevo? Solo nomi, teorie, tecnicismi, autoreferenzialità.
Mi guardai intorno. Negli occhi dell’altro tirocinante trovai il mio stesso spaesamento. Allora guardai Magda. Se ne stava seduta al suo solito modo, le mani sempre impegnate a far qualcosa, il corpo plastico, rilassato, come se si trovasse in piazzetta. Anche la sua faccia era distesa. In mezzo, quel sorrisetto che i ricoverati conoscevano bene. Quel sorrisetto che sapeva smontare tutto in un secondo.
La guardai, e mi sentii subito a mio agio. Tutti, pensai, si sentivano così, in quel momento. Così mi girai verso il ricoverato e, invece di fargli domande freudiane sui suoi sogni e sui rapporti con sua madre, gli dissi semplicemente, Ciao, come va?
E funzionò.
In quest’anno ho dimenticato tutto quello che sapevo della psicologia (in ogni caso non molto), e ho imparato qualcos’altro. Non so se era paragonabile alla psicologia, ma m’interessava infinitamente di più.
Magda aveva un rapporto con i ricoverati che pochi professionisti potevano vantare. Sapeva farli ridere, sapeva accontentarli nel limite, sapeva soprattutto farli sentire umani. Non li chiamava mai “poverini”, non vedeva in loro delle vittime della società, non cercava di salvarli: proprio per questo, era una delle pochissime a trattarli con la dignità che meritavano. Il suo principio era la responsabilizzazione: era l’unico modo per farli tornare persone e non materiale di scarto, come ci suggeriva la gente fuori dall’Opg. Sapeva fare imbarazzare uomini grandi e grossi, scherzare fino a farli ridere col naso, e rimetterli al loro posto con una sola parola. Era una dura che ammetteva pochissimi sgarri dai ricoverati, e ancora meno da noi tirocinanti. Avevamo furiose discussioni, qualche volta liti. Lei stava lì da 4 anni, noi eravamo i pivellini di passaggio, eppure ne sapevamo di più, conoscevamo quel posto già dopo una settimana. Lei ci faceva fare, con l’aria di chi ne aveva visti tanti come noi, e sapeva che fine facevano quelli così. Poi, quando sbattevamo contro quel muro fatto di ignoranza, di regolamenti assurdi, di cinismo, di crudeltà aperta, di ottusità, era da lei che tornavamo sempre, e lei, come una mamma che la sa lunga (o meglio, una zia), ci risparmiava la parte del “te l’avevo detto”, e ci preparava alla prossima batosta. Sapeva che non avremmo mollato. Lei non l’ha mai fatto.
Di questo lungo anno ho mille ricordi, che farli stare tutti dentro il Morgana davvero non si può. Tra tutti, c’erano i nostri lunghissimi discorsi in quella biblioteca polverosa, discorsi sulla vita e il futuro, l’amore finito e quello da far cominciare, mentre il pomeriggio diventava sera, gli uffici chiudevano e restavamo solo noi e quelli che chiamano pazzi –e ormai non riuscivamo più a distinguere tra chi fosse cosa.
Dopo 4 anni diceva che niente ormai la poteva toccare. Non le ho mai creduto. Solo pochi giorni fa, nel parlare della morte di uno dei ragazzi lì dentro, aveva gli occhi pieni di lacrime.
Lì dentro era quella che faceva di più, e senza niente in cambio. Proprio per questo, sono riusciti a farla salire su una macchina diretta verso l’altra casa, in Svizzera. Nessun problema: lei va incontro ad una possibilità per ricominciare, e questa isoletta pigra e stupida ha perso una volta di più.
Quanto a noi, i “suoi” ragazzi, fa molto strano. Anche quando avevamo finito il nostro servizio all’Opg, lei era un riferimento –almeno per alcuni di noi, quelli che non si sono dimenticati. Per questo, da due giorni ci sentiamo un po’ più soli, in questo lavoro che già ti mette a dura prova. Come se dopo tutte quelle parole, ora fosse crollato un gran silenzio, che non sappiamo come riempire.
Quel tuo sorrisetto di traverso, sfottente, non mi perdonerebbe mai per questo post stucchevole. Ma tanto non ti vedo, quindi me ne frego.
E’ stato un onore. Buona vita e grazie di tutto, mate.
Metti quegli orecchini, e andrà tutto bene...
giovedì 30 dicembre 2010
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