Capodanno mi è sempre sembrata la più inutile delle feste, la più pompata, la più fasulla. Uno di quei giorni che ti devi divertire per forza, sennò sei fuori. La penso come Bukowski: è davvero difficile ubriacarsi quando tutto il mondo si sforza di ubriacarsi con te.
Eppure quest’anno è diverso. Nonostante i trenini in tv, i bevitori dilettanti, i conti alla rovescia e gli oroscopi, nonostante i baci di zie baffute e i botti che sono sempre gli stessi, stasera festeggerò –in qualche modo, come mi viene, ma lo farò.
E non per l’anno nuovo, sia chiaro.
Non ripeterò cos’è stato questo 2013, perchè chi segue il Morgana sa già a grosse linee che tipo di bomba è stata nella mia vita (potete leggere qui qui e qui per un ripasso generale, se proprio siete masochisti). Nel giro di 12 mesi la mia vita è cambiata in maniera radicale. Come ho cominciato e come sto finendo questo 2013, sono due punti così distanti che sembrano appartenere a due persone solo alla lontana imparentate.
Qualche giorno fa qui a Messina c’è stato un terremoto di una discreta potenza, nelle ore precedenti all’alba. La gente è uscita per strada o si è rifugiata dove capitava prima. Nei giorni successivi ho sentito gente discutere di quella scossa, chiedersi per la prima volta, cazzo, e se fosse successo qualcosa di brutto? Cosa ne ho fatto della mia vita fin qui?
Quel tipo di interrogativi tipici dai trenta in su (paradossalmente, ci si preoccupa di più quando si comincia ad aver meno da perdere), che durano fino alla scossa successiva.
Io quella notte ho continuato a dormire. Il terremoto c’era già stato nella mia vita. Quelle domande me l’ero già fatte. Ogni volta che mi vedete sorridere, sappiate che quella è la mia risposta.
Sono felice di essere venuto qui a casa per concludere questo anno. Mi mancano le persone che ho lasciato a Sydney, ma era anche giusto che questo viaggio durato un anno finisse qui, da dove sono sempre partiti tutti gli altri. Ho corso nella Città del rock, ho schivato pericoli all’ultimo momento, senza sapere mai se avrebbero poi vinto i buoni o i cattivi, e adesso avevo bisogno di sedermi, tirare il fiato, fumarmene una e stare a guardare quel che era stato, pensando a quello che ancora ci sarà.
Solo qualche volta mi rabbuio, ed è quando penso a partenze e distanze. Vorrei avere tutte le persone che amo nello stesso posto geografico, poterle vedere e toccare ogni volta che voglio.
Quest’anno però mi ha reso realista –o forse un po’ più realista, da quando la Realtà mi ha minacciato lo sfratto. So che non è possibile, so che la mia esistenza sarà fatta ancora di saluti davanti ai check-in, valigie dimenticate e altre ancora da riempire. Ma non importa. Non credo a chi dice che “c’è sempre il peggio”, perchè è banale e vero, e allora mi sento solo fortunato per quello che ho, riservandomi il diritto di farmi girare i coglioni per stupidaggini ed esaltarmi per cose fatue.
Per questo il 2014 non vuol dire, per me, vita nuova.
Ma lo sarà anche, sotto altri punti. Intanto perchè nuove persone sono entrate nella mia vita, e sono diventate sempre più importanti. E poi perchè, dopo aver tanto rimandato, mi rimetterò di nuovo in gioco. Se una cosa mi ha insegnato il 2013, è che si può perdere tutto in una mano, come nel poker. Inutile conservarsi le carte, inutile fare piccole puntate: quando ti capita un giro brutto, puoi ritrovarti in mutande in un attimo.
Ma come puoi perdere tutto, puoi anche vincere qualcosina. Non si tratta solo di culo, anche se sicuramente ha un ruolo FONDAMENTALE. Già sedersi con la voglia di farcela, qualcosa fa.
Promesse, certo. Potrei continuare ad essere il solito cazzone nel 2014, è chiaro. Questi sono propositi da 31 dicembre, prima del cenone e dello spumante. Però toccare il fondo, arrivare al bordo del crepaccio, ha due effetti importanti: o ti ammazza o ti riporta alla vita.
Io sono qui a scriverne, quindi fate un po’ voi.
Stasera voglio dare l’addio al 2013. Non è stato tutto negativo, non ci sono state solo porte in faccia e letti d’ospedale. Ho incontrato gente fantastica, ho potuto contare su famiglia e amici come non mai (e mai vi ringrazierò abbastanza), ho potuto gustare momenti di felicità che solo chi stava per perdere tutto può provare. Ho riso, ho sognato, ho fatto l’amore. Posso dire di essere ancora qui, nonostante tutto.
No, non ce l’ho con te, 2013. Hai fatto il tuo sporco lavoro, ed avevi qualcosa di buono.
E se ci pensi, in fondo la realtà è una: tu sei finito, ed io sono ancora qui.
Quindi caro 2013, te lo dico senza rancore: SUCA.
Buon inizio a tutti. We can make it.
Siete troppi per ringraziarvi tutti qui, ma non l’avrei fatto comunque perchè mi sembrano cose un po’ patetiche.
L’ho fatto o conto di farlo presto di persona. Così posso anche scroccarvi una birra.
Grazie mille, per tutto.
Saluti dallo Zango.
martedì 31 dicembre 2013
martedì 17 dicembre 2013
Voglio una troia
Non voglio una troia e basta.
Quelle le vedi in giro dovunque,
camminano storte come zombie
e ridono come stupide iene.
Ne fiuti a distanza l'odore schifoso
di mille sborrate di maschi diversi,
nella fica, nel culo, sulla pelle e tra i capelli.
Sulle mani,
che faranno torte ai bambini.
Nella bocca,
che li bacerà sulla fronte mandandoli a scuola.
No.
Voglio una troia
che sia troia solo con me.
Una troia che non può essere comprata,
perché non è in vendita
e perché è una cagna fedele.
Una distinta signorina con gli altri,
pronta a farsi lurida puttana
per dilettare il suo unico uomo.
Voglio una donna così,
con cui mischiarmi
dentro e fuori dal sesso.
Una troia che mi ami,
da amare alla follia,
senza pensare che a lei
ogni giorno,
finché morte non ci separi.
Quelle le vedi in giro dovunque,
camminano storte come zombie
e ridono come stupide iene.
Ne fiuti a distanza l'odore schifoso
di mille sborrate di maschi diversi,
nella fica, nel culo, sulla pelle e tra i capelli.
Sulle mani,
che faranno torte ai bambini.
Nella bocca,
che li bacerà sulla fronte mandandoli a scuola.
No.
Voglio una troia
che sia troia solo con me.
Una troia che non può essere comprata,
perché non è in vendita
e perché è una cagna fedele.
Una distinta signorina con gli altri,
pronta a farsi lurida puttana
per dilettare il suo unico uomo.
Voglio una donna così,
con cui mischiarmi
dentro e fuori dal sesso.
Una troia che mi ami,
da amare alla follia,
senza pensare che a lei
ogni giorno,
finché morte non ci separi.
martedì 3 dicembre 2013
Miracoli - War is (almost) over
“In guerra, Wilson aveva visto succedere le stesse cose. Certi uomini cambiavano più che se avessero perso la verginità. La paura se ne andava come dopo un’operazione. Al suo posto cresceva un’altra cosa. La cosa più importante che avesse un uomo. Che ne faceva un uomo. Anche le donne lo sapevano.
Più nessuna paura”
Ernest Hemingway.
Per la prima volta, qualche settimana fa, mi sono messo qui alla scrivania e ho scritto. É venuto fuori un racconto sulla felicità. In realtà, quel racconto era per dire che la felicità dovrebbe essere dichiarata illegale, che dovremmo armarci di filo spinato e mitra contro questa parola, che dovremmo stare in guardia contro i portatori sani di felicità.
Solo allora, forse, potremo essere felici.
Camminavo, nell’aria del mattino da dopoguerra, che sapeva di pessima colonia e pioggia che sta per arrivare e coprirci tutti, felici e infelici, e anche quelli che non sanno che farsene della felicità.
Ricordavo quell’altra mattina, quando stavano per portarmi via e vedevo la luce del sole, raggiante e stupido, passare attraverso la finestra. Guardavo quella luce che irrideva e rassicurava, ed era come addormentarsi da piccoli con la tv accesa, sapendo che niente sarebbe successo e la tv sarebbe stata ancora accesa una volta sveglio, e ci sarebbe stato qualcos’altro da guardare.
Poi qualcuno spense la tv e il mio letto cominciò a muoversi verso la sala operatoria.
Ci sono cambiamenti che sono meno evidenti agli altri. Non è solo l’occhio. Le mani, per esempio, non tremano più. Erano state tutte le medicine che ho preso in questo anno. Adesso riesco a tenere senza problemi una penna in mano. Mi sembra che le poesie mi vengano anche meglio.
Anche il sonno è migliorato, ma lì non credo sia un discorso di medicine.
La gente intorno a me è diversa. Sono passati dalla pena al “Beato te!” con la velocità che ha un politico nel cambiare schieramento. Loro funzionano così, bianco o nero. Quando avevo la benda e dicevo di stare bene, non mi credevano. Adesso che non la porto più, sembra che non debba mai avere momenti di down. Ognuno tira una linea e ci dice come dovremmo sentirci.
Per quanto mi riguarda, ogni volta che sento un “Beato te!” sorrido. Mi sembra l’unica cosa possibile.
Assieme a quella di giurare di non dirlo mai a nessuno.
Ho fatto l’albero di Natale, con un anticipo quasi ridicolo. E sì, molto è dovuto alla mia strana ossessione per il Natale –per anni fortemente odiato, cenoni in famiglia in primis. Ma l’albero, le lucette e tutte quelle stronzate lì mi piacevano, mi piacciono. Mi sembra un buon modo per rallentare il tempo, per tornare ad altri passati che, se non più felici, fanno comunque parte di me.
Ma non l’ho fatto per questo, adesso. L’ho fatto per festeggiare, con uno stupore quasi bambinesco, il fatto di essere qui e poterlo fare. Poter accendere le luci e starle semplicemente a guardare, magari scolando una bella Guinness. Lo prendo come un promemoria: mi ricorda di essere grato, di star su, e di perdermi ancora in questi attimi senza tempo e senza senso, perchè forse un senso ce l’hanno anche loro. E forte.
Ho camminato senza fretta dalla fermata del bus. Non avevo le cuffie. Era primavera, e volevo annusarla e ascoltarla fino a non poterne più.
Una volta giunto davanti all’edificio, che sembra più un museo che un ospedale, l’ho guardato per un attimo e ho pensato: questa è la prima volta che lo sto vedendo senza la mia solita benda all’occhio. Sembrava un dettaglio di poco conto, così come io sembravo uno dei tanti visitatori del pomeriggio. Ma nessuna di queste cose era era vera.
Ormai ero una presenza abituale, anche se a quelle mura, in fondo, non ci si abitua mai. Sai fin troppo bene cosa succede dietro quelle porte, per poter star sereno. Ma tu ci sei passato, tu hai fatto il tuo e ne sei uscito, come Andy Dufresne in “Le ali della libertà”. Un evaso pronto a lasciarsi andare al sole e al mare.
Il dottore che mi ha visitato era il più scorbutico di tutti. Eppure, nemmeno lui si è risparmiato su quella parolina che ho sentito spesso in quel luogo di calcoli e formule esatte.
Miracolo.
É un miracolo, mi ha detto. Dovresti esserne contento, ha aggiunto. Io mi sono limitato a fare di sì con la testa, ma probabilmente in faccia avevo schiaffato il più ebete dei sorrisi.
Alla fine della visita mi ha detto senza guardarmi, non serve che torni più qui. Un po’ me l’aspettavo. Eppure, quando sono andato oltre il banco, dopo aver salutato tutte le infermiere, preso l’ascensore, mi sono fermato un attimo fuori da lì, e l’ho guardato. Ho guardato quel posto, e ho pensato quello che ho pensato.
Ero fuori.
Ero pronto alla mia spiaggia.
Tra 2 settimane, tornerò in Italia. Chiuderò così questo anno che, proprio alla fine, sta provando a farsene perdonare qualcuna. Sono felice che stia finendo, e sono felice di finirla proprio lì, e proprio con quelle persone. Un cerchio che si chiude? Non ho visto tanti film. Una guerra è pur sempre una guerra. Bisogna dargli il suo tempo, farsi baciare le cicatrici dal sole, fare l’amore sulle macerie. In direzione ostinata e contraria, ma seguendo i movimenti del vento. Seppellire quel che c’è da seppellire, e poi cominciare a ricostruire.
Eppure ci sono persone che mi aspettano oltre quest’oceano, e altre che attenderanno il mio ritorno.
E anche questo è un bel miracolo.
Quando sono tornato dall’ospedale, quell’ultima volta, sono entrato in casa, ho lasciato la borsa per terra, messo la musica a palla, e ho cominciato a ballare.
Ho ballato in una casa che era solo mia, in una vita che era di nuovo mia. Ho ballato finchè non ce l’ho fatta più, e poi ho ballato un altro po’.
Non so cosa sia questa felicità, ma ci sono andato maledettamente vicino, quel giorno.
Ho ballato tra feriti e rovine. La guerra è finita, mi dicevo. La guerra è stata feroce, tremenda, ma qualcos’altro è stato più forte.
Qualcun altro, lo è stato.
Ho continuato a ballare.
Sono cresciuti dei fiori nel mio giardino. Me ne sono accorto solo l’altro giorno. Non erano previsti, sono venuti su per errore, hanno resistito a tutti cambiamenti di tempo.
E sono bellissimi.
lunedì 2 dicembre 2013
Tre anni.
Tre anni fa prendevo una delle mie prime decisioni da grande.
Tre anni fa lasciavo ciò che era certo, ma scomodo, per l’incerto.
Tre anni dopo sono qua ad abbandonare il certo per l’incerto, di nuovo, ma al contrario.
Ho sempre amato il numero 3, sin da piccolo; era la prima tabellina importante, tutti sono capaci di raddoppiare un numero, si sa, ma triplicarlo, è tutta un’altra storia. Roba da duri.
E poi, “Omnia trina perfecta sunt”, come ripeto spesso, per bearmi del mio latinorum.
Il tre è ovunque, nella vita di tutti i giorni, nei modi di dire, nella storia: i tre Re di Roma, i tre peccati capitali. Le tre facce della stessa medaglia.
Tre anni sembrano una vita.
Tre anni sono una vita.
In tre anni puoi trovare la donna della tua vita, dopo averne persa una che donna era, e basta.
In tre anni puoi ritrovare un amico perso, e rischiare di perderlo di nuovo,
stavolta per sempre.
E così scopri per caso che tre anni sono passati, volati.
Appunto, passati.
Ne riparliamo tra tre anni.
Non stanno a guardarsi negli occhi
L'altra parte del mondo, il down under, l'Australia, è più vicina che mai. È vero, ci vuole una giornata di viaggio, ma vuoi mettere com'era prima?
Oggi metti il culo su un aereo a Fiumicino e nemmeno 24 ore dopo sei dall'altra parte del mondo, a respirare l'aria di Sydney, che rispetto alla nostra sa un po' più di mare e di prati.
Qui tutto costa di più e tutto funziona ancora di più. Immagina la classica scena romana in cui il vigile vuole fare la multa al tipo che da 20 minuti è in doppia fila davanti al bar. Il tipo si incazza col vigile, gli dice "ma sono solo 5 minuti", gli dice "ma allora signor vigile io dove cazzo parcheggio?".
Non se ne esce.
Dall'altra parte del mondo invece è diverso. Qui l'impressione è che questi problemi non ci siano mai stati, perché la gente, dopo essersi data regole come tutti, ha pure scelto di rispettarle. Qui pare che una cosa del genere non possa accadere perché di fronte a un problema le persone non stanno a guardarsi negli occhi per più di un secondo, perché dopo si mettono a trovare la soluzione.
Quelli che incontri per strada sorridono, gli autisti dei mezzi pubblici ti salutano pure, mentre paghi il biglietto davanti ai loro occhi. Al supermarket i clienti litigano a colpi di "grazie", lasciandosi passare a vicenda.
Insomma, aerei a parte, l'altra parte del mondo, l'Australia, è più lontana che mai.
Oggi metti il culo su un aereo a Fiumicino e nemmeno 24 ore dopo sei dall'altra parte del mondo, a respirare l'aria di Sydney, che rispetto alla nostra sa un po' più di mare e di prati.
Qui tutto costa di più e tutto funziona ancora di più. Immagina la classica scena romana in cui il vigile vuole fare la multa al tipo che da 20 minuti è in doppia fila davanti al bar. Il tipo si incazza col vigile, gli dice "ma sono solo 5 minuti", gli dice "ma allora signor vigile io dove cazzo parcheggio?".
Non se ne esce.
Dall'altra parte del mondo invece è diverso. Qui l'impressione è che questi problemi non ci siano mai stati, perché la gente, dopo essersi data regole come tutti, ha pure scelto di rispettarle. Qui pare che una cosa del genere non possa accadere perché di fronte a un problema le persone non stanno a guardarsi negli occhi per più di un secondo, perché dopo si mettono a trovare la soluzione.
Quelli che incontri per strada sorridono, gli autisti dei mezzi pubblici ti salutano pure, mentre paghi il biglietto davanti ai loro occhi. Al supermarket i clienti litigano a colpi di "grazie", lasciandosi passare a vicenda.
Insomma, aerei a parte, l'altra parte del mondo, l'Australia, è più lontana che mai.
domenica 24 novembre 2013
Abbiamo vinto!
Abbiamo vinto!
urlava il vecchio
mentre guerre antiche
venivano spacciate per nuove
e si leggeva sui giornali
di tenere duro
mentre i ricchi diventavano più ricchi
i potenti più potenti
e i poveri più soli
Abbiamo vinto!
mentre uomini finivano in carcere
per gli stessi motivi per cui altri
venivano votati
mentre i giovani partivano
i disoccupati si sparavano
e i vecchi si spartivano le elemosine
Abbiamo vinto!
mentre le facce
restavano sempre le stesse
e gli altri non avevano più il coraggio
di guardarsi allo specchio
Abbiamo vinto!
mentre quello che una volta era temporaneo
diventava sopravvivenza
quello che era surplus
adesso era tutto
quello che funzionava
in fondo non aveva mai funzionato
Abbiamo vinto!
mentre le proteste per strada
diventavano barzellette da tg della sera
e i furti avvenivano alla luce del sole
tanto nessuno avrebbe detto niente
Abbiamo vinto!
mentre le voci erano sempre meno
sempre più flebili
Abbiamo vinto!
mentre le promesse diventavano scherzi
e di ogni briciola gettata
bisognava esser grati
Abbiamo vinto!
mentre i palconoscenici erano vuoti
i libri bianchi
e dietro ogni angolo avvenivano
tonnare di sogni e speranze
Abbiamo vinto!
urlava il vecchio
agitando il suo gratta-e-vinci
coronando
l’ultimo sogno triste della
sua generazione
e l’unico possibile
per la mia.
urlava il vecchio
mentre guerre antiche
venivano spacciate per nuove
e si leggeva sui giornali
di tenere duro
mentre i ricchi diventavano più ricchi
i potenti più potenti
e i poveri più soli
Abbiamo vinto!
mentre uomini finivano in carcere
per gli stessi motivi per cui altri
venivano votati
mentre i giovani partivano
i disoccupati si sparavano
e i vecchi si spartivano le elemosine
Abbiamo vinto!
mentre le facce
restavano sempre le stesse
e gli altri non avevano più il coraggio
di guardarsi allo specchio
Abbiamo vinto!
mentre quello che una volta era temporaneo
diventava sopravvivenza
quello che era surplus
adesso era tutto
quello che funzionava
in fondo non aveva mai funzionato
Abbiamo vinto!
mentre le proteste per strada
diventavano barzellette da tg della sera
e i furti avvenivano alla luce del sole
tanto nessuno avrebbe detto niente
Abbiamo vinto!
mentre le voci erano sempre meno
sempre più flebili
Abbiamo vinto!
mentre le promesse diventavano scherzi
e di ogni briciola gettata
bisognava esser grati
Abbiamo vinto!
mentre i palconoscenici erano vuoti
i libri bianchi
e dietro ogni angolo avvenivano
tonnare di sogni e speranze
urlava il vecchio
agitando il suo gratta-e-vinci
coronando
l’ultimo sogno triste della
sua generazione
e l’unico possibile
per la mia.
Marco Zangari ©
2013
martedì 22 ottobre 2013
Gentleman
Come alcuni di
voi sapranno, ho scritto tempo fa un romanzo (non pubblicato), che ho chiamato “Latinoaustraliana”.
Uno dei personaggi di quel libro si chiamava Rett.
Da ieri, Rett non
c’è più.
Ho ricevuto la
notizia in una bellissima sera d’estate anticipata, uno di quei momenti in cui
l’anima viene fuori a prendere fiato pure lei dopo le botte dell’inverno.
Subito dopo il messaggio, l’estate è sembrata un’altra illusione di questo 2013
dagli infiniti freddi.
La notizia mi ha
riportato in mente estati diverse, lontane nel tempo, le mie prime in questo
Paese. Così lontane da sembrare figure di foto da guardare con nostalgia e
stupore per gli anni che si sono messi in mezzo tra noi e quello che eravamo.
In quell’attimo
ho sentito la violenza di una parte della mia vita che si chiudeva per sempre,
e che ho amato più di quanto sospettassi.
Sembra ieri che
sentivo Rett bisbigliare con la figlia dopo il mio primo incontro con lui e,
dopo avermi studiato un po’, decidere che io ero un “fine, young gentleman”.
Ancora oggi, è uno dei complimenti a cui tengo di più (e pazienza per quel “young”,
che fa ridere ogni giorno di più).
Sembra ieri
vederlo bere impassibile quel famoso Grand Marnier all’arancia invecchiato 22
anni e versarcene ancora mentre io e Mauro eravamo già sotto il tavolo.
Sembra ieri che
lo sentivo ripetermi che, quando uno stringe la mano all’altro, lo deve fare
con decisione, non con forza. Capii che non c’era ostentazione in quel gesto,
ma solo la volontà di sapere con chi aveva a che fare.
Rett aveva avuto,
come tutti, la sua dose di esperienze che gli avevano fatto capire che, come
diceva Hemingway, essere uomini è il mestiere più difficile, e pochissimi ci
riescono. Rett, il suo lavoro, lo faceva discretamente bene.
E come nei
racconti di guerra di Hemingway (guerra che Rett aveva solo sfiorato, ma in
qualche modo gli era sempre rimasta dentro), sapeva che questi uomini sono eroi
imperfetti, pieni di paure, umani.
Rett aveva
commesso la sua parte di errori, che adesso il suo essere nonno mitigava, nella
speranza che, alla fine, potesse farsi due conti col sorriso sulle labbra. La
coscienza delle sue limitazioni lo portava ad essere quello era: un essere
umano più che decente, una persona buona e gentile come poche, un gentleman
come è difficile trovarne più. Un uomo all’antica, ma nel senso buono.
La notizia mi ha
riportato quel senso di vuoto che ho provato altre volte. Non per niente, una
delle ultime cose che aveva fatto mia nonna prima di finire in una stanza d’ospedale
dalla quale non sarebbe più uscita, era stata quella di guardare delle foto che
avevo fatto nel mio recente viaggio in Australia. Nelle foto c’era Rett, la sua
casa, il giardino che tanto amava. Mia nonna indicava le foto alla vicina e
diceva –Visto? Quello è il mio consuocero. Un giorno andrò anch’io lì in
Australia, a vedere quei campi, quel verde, quel sole.
Non aveva mai incontrato
Rett di persona, e anche se lo avesse fatto, non si sarebbe potuti scambiare
nemmeno una parola a causa della lingua. Eppure sentiva che era, come lo
definiva lei, un “bravo cristiano”.
Forse perchè lo
era anche lei.
Quando lei se n’è
andata, ho sentito questo vuoto. Una mancanza non solo, ovviamente, della
persona, e dei miei ricordi con essa. Era come se un pezzo di storia, con la
esse sia minuscola che maiuscola, se ne fosse andato per sempre. Come se quelle
storie che lei amava raccontare più e più volte, mentre fumava di nascosto
seduta sul dondolo, si sarebbero perse con lei.
Quelle mancanze
che ci lasciano più giovani, ma nel senso più triste del termine: con tutto il
futuro che ci pare, ma senza più un passato che ci dica chi siamo.
Lo stesso mi è
successo ieri. Rett, oltre alla persona, per me rappresentava anche una grossa parte di quell’ “australianità” che ero andato a rincorrere dall’altra parte
del mondo. Mi aveva messo a mio agio, mi aveva accettato e mi aveva raccontato
le sue storie.
Mi ricordo ancora
ad aggirarmi tra le stanze della sua bellissima casa in campagna, e trovare
negli scaffali dei libri che avevo letto, e altri che avrei voluto leggere. Se
la mia lingua e il suo udito lo avessero permesso, avremmo passato giornate
intere a discutere di guerre mondiali, economia, politica e barzellette zozze.
Ma quello che ci
siamo detti è bastato, ed ha fatto sì che lui continuasse a vivere, appunto,
nel personaggio di Rett e nel mio mondo.
L’ultima volta
che l’ho visto è stato ad una cena, parecchi mesi fa. Era già malato, e la
consapevolezza di questo rendeva le sue storie meno nitide e al tempo stesso
più urgenti. Il tempo assumeva la sua tragica importanza. Io lo ascoltavo e
pensavo che è bello quando, nella vita, ci capita di incontrare una persona con
l’anima buona. Una persona di stile, dotata di umorismo, che sapeva come
intrattenere chi gli stava di fronte, e che amava tutto di questa terra che era
stata generosa con lui in maniera alterna.
Adesso lui non c’è
più e noi ci troviamo ad uscire da questo maledetto 2013 un po’ più soli e
poveri di prima. Le sue risate mi
sembrano una danza estrema con la Morte, ma non è forse quello che facciamo
tutti? Far finta di niente, sedurla, cercare magari di metterle la lingua in
gola? É un gioco, e lui ha saputo giocare. Forse questo conta alla fine.
Questo, e le
storie che possiamo raccontare.
No, forse non
usciamo così poveri da questo anno. Abbiamo le loro storie, la loro
ispirazione, quello che sono stati, per spingerci ad essere anche noi eroi
imperfetti e mortali, grandiosi e stupidi, ad arrivare fino a domani, fino al
2014, fino al futuro.
Io, da parte mia,
non smetterò di ascoltare e raccontare. Mi sembra l’unico modo.
Buon viaggio.
Questa è per te,
Max.
domenica 13 ottobre 2013
Le nostalgiche libertà del romano incatenato
Questo traffico mi destabilizza. Come ogni volta. Penso che dovrei premere il piede sull'accelleratore, sollevarmi da terra, sorvolare su tutto e tutti, chiudere per un solo istante gli occhi, riaprirli e ritrovarmi in una distesa di terra libera da ostacoli.
Ho bisogno di aria pura. Ho bisogno di rilassarmi. La verità però è che lì dove sono posso solo aspettare; posso solo tentare di non concentrarmi su quel blocco umano fatto di armature metalliche, che si muove in massa come fosse un unico corpo. Ogni membro è strettamente connesso e dipendente da quello che lo precede. La Pontina ha l'inquietante potere di rendere queste armature metalliche un unico corpo amalgamato e farne parte può significare impazzire, perchè toglie il respiro.
Mentre lentamente mi avvicino a Roma, fuggo con lo sguardo da quella coda devastante e scorgo all'orizzonte il principio di un tramonto. Ricordo il mio orgoglio per la libertà conquistata negli ultimi anni e penso con cosa si identifica questa libertà: sorseggiare lentamente un cappuccino al tavolino di un bar in via Mazzini a Ferrara, sorseggiare un caffè shakerato al bar della Feltrinelli che si affaccia su largo Argentina a Roma mentre si conversa di letteratura o fare colazione davanti al mare alla Mirilla di Càdiz con un libro in mano.
Eccola qui la libertà: avere semplicemente la possibilità di distendere i sensi con un caffè caldo tra le mani e un buon libro da leggere, senza fiati sul collo. Lontana anni luce dalla realtà in cui mi trovo. Il traffico che mi rallenta in verità mi incatena.
Il rosso del sole al tramonto si infuoca e squarcia quel nostalgico cielo blu notte, smantellato da nubi chiare gonfie d'umidità. E' un vero spettacolo. Respiro profondamente e cerco di rilassarmi.
Roma è vicina. Ne scorgo l'Eurosky accanto all'edificio a cupole del centro commerciale più grande d'Italia (come ogni nuovo centro commerciale, d'altronde), eppure so che Roma è ben altro. Roma, quella vera, è sempre lontana.
Ho bisogno di aria pura. Ho bisogno di rilassarmi. La verità però è che lì dove sono posso solo aspettare; posso solo tentare di non concentrarmi su quel blocco umano fatto di armature metalliche, che si muove in massa come fosse un unico corpo. Ogni membro è strettamente connesso e dipendente da quello che lo precede. La Pontina ha l'inquietante potere di rendere queste armature metalliche un unico corpo amalgamato e farne parte può significare impazzire, perchè toglie il respiro.
Mentre lentamente mi avvicino a Roma, fuggo con lo sguardo da quella coda devastante e scorgo all'orizzonte il principio di un tramonto. Ricordo il mio orgoglio per la libertà conquistata negli ultimi anni e penso con cosa si identifica questa libertà: sorseggiare lentamente un cappuccino al tavolino di un bar in via Mazzini a Ferrara, sorseggiare un caffè shakerato al bar della Feltrinelli che si affaccia su largo Argentina a Roma mentre si conversa di letteratura o fare colazione davanti al mare alla Mirilla di Càdiz con un libro in mano.
Eccola qui la libertà: avere semplicemente la possibilità di distendere i sensi con un caffè caldo tra le mani e un buon libro da leggere, senza fiati sul collo. Lontana anni luce dalla realtà in cui mi trovo. Il traffico che mi rallenta in verità mi incatena.
Il rosso del sole al tramonto si infuoca e squarcia quel nostalgico cielo blu notte, smantellato da nubi chiare gonfie d'umidità. E' un vero spettacolo. Respiro profondamente e cerco di rilassarmi.
Roma è vicina. Ne scorgo l'Eurosky accanto all'edificio a cupole del centro commerciale più grande d'Italia (come ogni nuovo centro commerciale, d'altronde), eppure so che Roma è ben altro. Roma, quella vera, è sempre lontana.
mercoledì 9 ottobre 2013
Una mattina ti alzi e ci vedi
Lo so che sembra assurdo, ma ci ho messo mezz’ora a fare la foto che vedete qui sotto. Un po’ perchè, odiando l’autoscatto, non me ne piaceva nessuna. Un po’ perchè –e l’ho realizzato solo alla fine- queste erano le prime vere foto che facevo senza la benda.
E quando l’ho capito, ho capito anche che mi andava di scriverne –e così, eccomi qui.
Una delle prime volte in cui ho realizzato questo ritorno alla “normalità” è stato giovedì scorso. Stavo tornando a casa, ho attraversato la strada e una macchina mi ha suonato perchè non ero stato veloce abbastanza ad attraversare. É come quando noti un dettaglio minuscolo ma diverso da quello al quale sei abituato: nessuno mi aveva suonato il clacson per mesi. Portavo una benda all’occhio e tanto bastava per mettermi nella categoria disabili. La gente si scostava al mio passaggio, e si scusava mille volte se per caso mi sfiorava inavvertitamente. Quando incrociavo qualcuno per strada si facevano tutti da parte, quasi vergognosi. Mettevo in imbarazzo gli adulti e incuriosivo i bambini –gli unici capaci di parlare ancora con sincerità.
Dopo aver attraversato, ho pensato: forse è andata. Andata con le domande delle cassiere al supermercato, andata con i colleghi che mi chiedevano a giorni alterni come mai non potessi guidare con mezzo campo visivo fuori uso, andata con i ritorni la sera tardi indovinando solo le ombre, andata con gli sguardi strani e peggio ancora compassionevoli, andata con i genitori che ti chiedono come va e quando dici bene non ti credono, andata andata andata. Forse.
Ero tornato con enorme fatica a quello che avevo dato sempre per scontato, ed era una sensazione indescrivibile.
Dico “forse”, e sono cauto anche adesso che sto scrivendo con due occhi che non fanno più troppa fatica insieme. A parte dettagli importanti, sento di essere sulla strada giusta, ma con questo 2013 non si può mai sapere.
E anzi, a pensarci adesso sembra un incubo fatto da qualcun altro, pieno di gente senza vergogna, dolore a tonnellate, stanze d’ospedale, attese, buio e colpi di scena all’ultimo momento. Uno di quei film che ti fa stare col magone fino in fondo, e anche se dovesse avere il finale più bello che c’è, col cazzo che lo vuoi rivedere mai più.
Ma ci sarà la scrittura, per quello. E quando questi mesi assurdi e atroci si tramuteranno in parole, potrò sentire chiudersi queste cicatrici da far scaldare sotto il sole.
In questo momento, più che a questo anno del cazzo, voglio pensare alle persone che mi hanno portato fin qui, che hanno contribuito affinchè io mi trovassi seduto su questa sedia a sorseggiare Cooper’s con un sorriso scemo sul volto barbuto.
Lo dedico a voi, come ho sempre. Non sapete quanto avete fatto ma lo avete fatto, e ve ne sarò per sempre grato.
E visto che già mi immagino il compare Mauro scuotere la testa, mi rassegno e dico, ok, lo dedico anche a me. Gli autopompini (come gli autoscatti) non mi piacciono granchè, ma questa è la mia stanza nel Morgana e sono di buonumore, quindi che cazzo, sì, ci ho messo il mio.
Domani saranno 5 mesi esatti da quell’operazione. Mi rivedo quel giorno e non mi sembra reale –come non fosse mai successo. Ma poi ogni tanto rivedo quella scena in sogno, e so che è accaduto davvero, ed è accaduto a me.
Mi rivedo in terapia intensiva e poi fuori, da solo, a tirare avanti debolissimo e privo di un occhio, a gestire casa e lavoro e una serie di botte dell’anima. Mi rivedo a pisciare liquidi di contrasto e a chiedermi se ne sarei mai uscito. Mi rivedo ad essere ricoverato nuovamente, e nuovamente a sentire tutti i muri della mia anima cedere di schianto lasciando solo una confusione di mattoni e paure. Mi rivedo a dover ricominciare ancora una volta, senza sconti nè favori, contando su delle forze che non sospettavo nemmeno d’avere.
Mi rivedo e penso –ma come cazzo ho fatto?
Ed è allora che mi viene su qualcosa che non conoscevo molto bene, e che ho finito per identificare con l’orgoglio per quello che sono.
E quello che sono, oggi, mi sembra una gran cazzo di bella cosa.
Ho pensato spesso a questo momento. Il momento in cui mi sarei svegliato, avrei aperto gli occhi e sarei tornato a vederci. Lo confesso: ho pensato che avrei pianto. Pianto di sollievo, per tutti quei pianti che questi mesi non sono riusciti a farmi fare. Come a dire –finalmente, cazzo.
E invece no. Non è stato un momento da film. Semplicemente una mattina mi sono svegliato e ho deciso che avrei aspettato un po’ prima di mettere la benda. E nonostante questo non sbattevo sui muri e non cascavo per terra. Figo, pensavo (capita, quando la normalità diventa un traguardo insperato).
Ho fatto colazione, mi sono lavato, preparato per il lavoro –e continuavo a non avere la benda.
Allo specchio, mentre mi accorciavo la barba ancora con qualche difficoltà, ho sorriso e mi sono detto: allora è così? Una mattina ti alzi e ci vedi di nuovo.
Sembra niente, e invece è tutto.
Perchè non parliamo solo di diottrie. Qui davvero una mattina mi sono svegliato ed ho visto di nuovo. É stata come una prima volta, come reimparare a camminare o a fare l’amore. Era una conquista che mi sembrava incredibile, e ne assaporavo ogni attimo.
Per strada sorridevo e la gente non capiva come mai. In fondo ero come loro: due occhi, un naso, una bocca. La gente non sapeva molte cose. Io sapevo che una mattina mi ero alzato e ci vedevo, e potevo finalmente vedere quella primavera che sapeva già d’estate, e che mi ero ripromesso di godermi una volta che quel terribile, quasi fatale inverno sarebbe finito.
Ed io sono qui, in una calda sera di primavera, a dire che ce l’ho fatta, che l’inverno è finito ancora una volta ed io sono qui, a festeggiare questi 5 mesi all’inferno con un paradiso da niente fatto di odori, pace, birre vuote, mie parole e una pausa fuori dall’abisso.
A volte una mattina ti svegli e ci vedi, e quello che vedi ti piace fino a riempirti il cuore, ed a sentirti grato per esserci ancora e porterlo raccontare.
Non smettete mai di vedere.
Buona primavera.
E quando l’ho capito, ho capito anche che mi andava di scriverne –e così, eccomi qui.
Una delle prime volte in cui ho realizzato questo ritorno alla “normalità” è stato giovedì scorso. Stavo tornando a casa, ho attraversato la strada e una macchina mi ha suonato perchè non ero stato veloce abbastanza ad attraversare. É come quando noti un dettaglio minuscolo ma diverso da quello al quale sei abituato: nessuno mi aveva suonato il clacson per mesi. Portavo una benda all’occhio e tanto bastava per mettermi nella categoria disabili. La gente si scostava al mio passaggio, e si scusava mille volte se per caso mi sfiorava inavvertitamente. Quando incrociavo qualcuno per strada si facevano tutti da parte, quasi vergognosi. Mettevo in imbarazzo gli adulti e incuriosivo i bambini –gli unici capaci di parlare ancora con sincerità.
Dopo aver attraversato, ho pensato: forse è andata. Andata con le domande delle cassiere al supermercato, andata con i colleghi che mi chiedevano a giorni alterni come mai non potessi guidare con mezzo campo visivo fuori uso, andata con i ritorni la sera tardi indovinando solo le ombre, andata con gli sguardi strani e peggio ancora compassionevoli, andata con i genitori che ti chiedono come va e quando dici bene non ti credono, andata andata andata. Forse.
Ero tornato con enorme fatica a quello che avevo dato sempre per scontato, ed era una sensazione indescrivibile.
Dico “forse”, e sono cauto anche adesso che sto scrivendo con due occhi che non fanno più troppa fatica insieme. A parte dettagli importanti, sento di essere sulla strada giusta, ma con questo 2013 non si può mai sapere.
E anzi, a pensarci adesso sembra un incubo fatto da qualcun altro, pieno di gente senza vergogna, dolore a tonnellate, stanze d’ospedale, attese, buio e colpi di scena all’ultimo momento. Uno di quei film che ti fa stare col magone fino in fondo, e anche se dovesse avere il finale più bello che c’è, col cazzo che lo vuoi rivedere mai più.
Ma ci sarà la scrittura, per quello. E quando questi mesi assurdi e atroci si tramuteranno in parole, potrò sentire chiudersi queste cicatrici da far scaldare sotto il sole.
In questo momento, più che a questo anno del cazzo, voglio pensare alle persone che mi hanno portato fin qui, che hanno contribuito affinchè io mi trovassi seduto su questa sedia a sorseggiare Cooper’s con un sorriso scemo sul volto barbuto.
Lo dedico a voi, come ho sempre. Non sapete quanto avete fatto ma lo avete fatto, e ve ne sarò per sempre grato.
E visto che già mi immagino il compare Mauro scuotere la testa, mi rassegno e dico, ok, lo dedico anche a me. Gli autopompini (come gli autoscatti) non mi piacciono granchè, ma questa è la mia stanza nel Morgana e sono di buonumore, quindi che cazzo, sì, ci ho messo il mio.
Domani saranno 5 mesi esatti da quell’operazione. Mi rivedo quel giorno e non mi sembra reale –come non fosse mai successo. Ma poi ogni tanto rivedo quella scena in sogno, e so che è accaduto davvero, ed è accaduto a me.
Mi rivedo in terapia intensiva e poi fuori, da solo, a tirare avanti debolissimo e privo di un occhio, a gestire casa e lavoro e una serie di botte dell’anima. Mi rivedo a pisciare liquidi di contrasto e a chiedermi se ne sarei mai uscito. Mi rivedo ad essere ricoverato nuovamente, e nuovamente a sentire tutti i muri della mia anima cedere di schianto lasciando solo una confusione di mattoni e paure. Mi rivedo a dover ricominciare ancora una volta, senza sconti nè favori, contando su delle forze che non sospettavo nemmeno d’avere.
Mi rivedo e penso –ma come cazzo ho fatto?
Ed è allora che mi viene su qualcosa che non conoscevo molto bene, e che ho finito per identificare con l’orgoglio per quello che sono.
E quello che sono, oggi, mi sembra una gran cazzo di bella cosa.
Ho pensato spesso a questo momento. Il momento in cui mi sarei svegliato, avrei aperto gli occhi e sarei tornato a vederci. Lo confesso: ho pensato che avrei pianto. Pianto di sollievo, per tutti quei pianti che questi mesi non sono riusciti a farmi fare. Come a dire –finalmente, cazzo.
E invece no. Non è stato un momento da film. Semplicemente una mattina mi sono svegliato e ho deciso che avrei aspettato un po’ prima di mettere la benda. E nonostante questo non sbattevo sui muri e non cascavo per terra. Figo, pensavo (capita, quando la normalità diventa un traguardo insperato).
Ho fatto colazione, mi sono lavato, preparato per il lavoro –e continuavo a non avere la benda.
Allo specchio, mentre mi accorciavo la barba ancora con qualche difficoltà, ho sorriso e mi sono detto: allora è così? Una mattina ti alzi e ci vedi di nuovo.
Sembra niente, e invece è tutto.
Perchè non parliamo solo di diottrie. Qui davvero una mattina mi sono svegliato ed ho visto di nuovo. É stata come una prima volta, come reimparare a camminare o a fare l’amore. Era una conquista che mi sembrava incredibile, e ne assaporavo ogni attimo.
Per strada sorridevo e la gente non capiva come mai. In fondo ero come loro: due occhi, un naso, una bocca. La gente non sapeva molte cose. Io sapevo che una mattina mi ero alzato e ci vedevo, e potevo finalmente vedere quella primavera che sapeva già d’estate, e che mi ero ripromesso di godermi una volta che quel terribile, quasi fatale inverno sarebbe finito.
Ed io sono qui, in una calda sera di primavera, a dire che ce l’ho fatta, che l’inverno è finito ancora una volta ed io sono qui, a festeggiare questi 5 mesi all’inferno con un paradiso da niente fatto di odori, pace, birre vuote, mie parole e una pausa fuori dall’abisso.
A volte una mattina ti svegli e ci vedi, e quello che vedi ti piace fino a riempirti il cuore, ed a sentirti grato per esserci ancora e porterlo raccontare.
Non smettete mai di vedere.
Buona primavera.
mercoledì 25 settembre 2013
Ironic
Io sono una apolide. Una senza radici. Colpa dei miei, diceva il terapista. Non gli ho lasciato il tempo di spiegarmi come risolvere.
Stamattina, con comodo, sono uscita di casa, aperto la portiera della macchina e mi sono resa conto di non avere nemmeno un cd.
Allora torno indietro.
Premi il pulsante: stacca l'allarme.
Prima chiave: aperto.
Seconda chiave: aperto.
Prendo velocemente un mucchio di vecchi cd che avevo inciso ancora prima di venire a vivere qui. Molti anni fa. Ne metto uno a caso e inizio a provare quel misto di imbarazzo e ipercritica tipico di quando guardi le tue foto da adolescente. Raggiunge l'apice quando arrivo agli Afterhours.
L'autostrada continua a scorrere inesorabile. Non c'è nessuno spiraglio di redenzione per questa onta di vergogna.
Poi inizio piano a smettere di pensare a chi ero l'ultima volta che quella canzone mi aveva attraversato il cervello. E senza rendermene conto mi vedo, come se fossi fuori da me, a urlare e cantare su "Ironic". Urlavo, tamburellavo i palmi sul volante e scuotevo i ricci esattamente come 10, forse 12 anni prima. Proprio come nel video. Ridevo. Non era cambiato niente.
"Well life has a funny way of sneaking up on you
When you think everything's okay and everything's going right
And life has a funny way of helping you out when
You think everything's gone wrong and everything blows up in your face".
Realizzavo che oggi so chi sono. Conosco i miei limiti, i miei difetti e i miei fantasmi. So come mandare a fanculo la maggior parte di loro. Altri no, ci vuole tempo.
E ho smesso di accontentarmi di cose mediocri, situazioni mediocri, persone mediocri, rapporti mediocri. Sono diventata una discreta stronza.
A volte ti capitano momenti strani, colpa della "PMS". In quei momenti tutto sembra estremamente più chiaro, ti fai un male cane, ma realizzi tante cose.
Dopo 1 litro e mezzo di birra tedesca (tedesca!) mi sono vista rivivere qualcosa di già vissuto, e che mi aveva già fatto male. E ho deciso di smettere. I crashed my car into the bridge, I watched I let it burn.
Ho bisogno di mettere radici. Anche se ciò potrebbe causare un dolore maggiore se dovesse succedere di dovermi allontanare. Ne varrà comunque la pena. Perché è in giorni come questi che hai urgenza di radici.
Dopo mille lacrime su discorsi inutili e inconcludenti fatti con la peggiore parte di me, torna un sorriso inaspettato. E viene proprio dalla pancia... Dove stai tu. Sei stato tu. E io sono felice di averti incrociato.
Questa cazzata l'ho scritta perché domani, passata la sbornia, vorrò ricordarlo. È per questo che scriviamo, no?
Stamattina, con comodo, sono uscita di casa, aperto la portiera della macchina e mi sono resa conto di non avere nemmeno un cd.
Allora torno indietro.
Premi il pulsante: stacca l'allarme.
Prima chiave: aperto.
Seconda chiave: aperto.
Prendo velocemente un mucchio di vecchi cd che avevo inciso ancora prima di venire a vivere qui. Molti anni fa. Ne metto uno a caso e inizio a provare quel misto di imbarazzo e ipercritica tipico di quando guardi le tue foto da adolescente. Raggiunge l'apice quando arrivo agli Afterhours.
L'autostrada continua a scorrere inesorabile. Non c'è nessuno spiraglio di redenzione per questa onta di vergogna.
Poi inizio piano a smettere di pensare a chi ero l'ultima volta che quella canzone mi aveva attraversato il cervello. E senza rendermene conto mi vedo, come se fossi fuori da me, a urlare e cantare su "Ironic". Urlavo, tamburellavo i palmi sul volante e scuotevo i ricci esattamente come 10, forse 12 anni prima. Proprio come nel video. Ridevo. Non era cambiato niente.
"Well life has a funny way of sneaking up on you
When you think everything's okay and everything's going right
And life has a funny way of helping you out when
You think everything's gone wrong and everything blows up in your face".
Realizzavo che oggi so chi sono. Conosco i miei limiti, i miei difetti e i miei fantasmi. So come mandare a fanculo la maggior parte di loro. Altri no, ci vuole tempo.
E ho smesso di accontentarmi di cose mediocri, situazioni mediocri, persone mediocri, rapporti mediocri. Sono diventata una discreta stronza.
A volte ti capitano momenti strani, colpa della "PMS". In quei momenti tutto sembra estremamente più chiaro, ti fai un male cane, ma realizzi tante cose.
Dopo 1 litro e mezzo di birra tedesca (tedesca!) mi sono vista rivivere qualcosa di già vissuto, e che mi aveva già fatto male. E ho deciso di smettere. I crashed my car into the bridge, I watched I let it burn.
Ho bisogno di mettere radici. Anche se ciò potrebbe causare un dolore maggiore se dovesse succedere di dovermi allontanare. Ne varrà comunque la pena. Perché è in giorni come questi che hai urgenza di radici.
Dopo mille lacrime su discorsi inutili e inconcludenti fatti con la peggiore parte di me, torna un sorriso inaspettato. E viene proprio dalla pancia... Dove stai tu. Sei stato tu. E io sono felice di averti incrociato.
Questa cazzata l'ho scritta perché domani, passata la sbornia, vorrò ricordarlo. È per questo che scriviamo, no?
domenica 25 agosto 2013
CONTO ALLA ROVESCIA
Quando sono arrivata era tutto diverso, ero sola, qualcuno
non mi piaceva, qualcuno un po’, avevo lasciato i miei amici e tutto quello che
c’era a Sydney, ho iniziato a fare il conto alla rovescia. Perché volevo che passasse
in fretta il tempo. Poi ho smesso, ho conosciuto, ho cambiato, l’equilibrio
perso è stato ritrovato, come al solito, quando cambi contesto. Il contesto. Il
contesto spesso è un grosso fardello, un amico, un nemico, una cosa da
costruire, in cui adattarsi, in cui modellarsi, in cui starci bene. Perché è
l’obiettivo ultimo di tutti star bene. Faticoso da costruire quando cambi
spesso casa, quartiere, città, paese, continente. Eppure siamo qui noi, noi
viaggiatori del mondo, viaggiatori della vita. Siamo immancabilmente differenti
in un luogo diverso da quello in cui nasciamo, eppure sempre gli stessi. Con un
abito diverso, una macchina diversa, a volte senza (come nel mio caso), con una
borsa diversa (back pack????). A volte ci si sente decontestualizzati per un
po’ e poi di nuovo contestualizzati. E questo ci mette sempre alla prova.
Avevo smesso di contare per un po’. Mi piaceva l’isola.
Stavo. Vivevo. Ascoltavo. Come sempre d’altronde. Oggi conto di nuovo. Di nuovo
alla rovescia ma in maniera contraria. Sembra che il tempo passi in fretta. Il
tempo. A volte è questione di pochi attimi e la percezione delle cose cambia in
maniera così drastica che vorresti fermarlo e tornare indietro oppure andare
avanti.
Non manca così tanto se paragono i giorni in cui sono stata
lontano da casa a quelli che rimangono qui. Mi chiedo cosa accadrà dopo e la
paura è sempre mista ad entusiasmo e curiosità. Sono cambiate tante cose in
così pochi giorni. Dove sarò? Con chi? Per fare cosa? Credo sia terminata la
prima fase del mio viaggio. La mia più grande amica in Australia è venuta a
salutarmi sull’isola per tornare a breve in Italia. Con lei una fase si chiude
e nel frattempo se ne è aperta un’altra. Seguendo sempre i miei passi e le mie
idee, progetto e…VIVO! Buona vita a tutti!
Venticinque Agosto Duemilatredici Ore Ventuno Emisfero
australe Horseshoe Bay
sabato 24 agosto 2013
Anime in stand-by (Hospital Blues)
In questo regno di
sonni a metà
parliamo una sola lingua
fatta di parole che
non conosciamo
nelle quali
crediamo
fino a sera
Abbiamo smesso, oltre quella
porta,
di essere persone
adesso siamo solo
anime in stand-by
in attesa in attesa in
attesa
che un estraneo ci dica
cosa succederà
di tutte le cose che
conosciamo
E quando ci parlano di
amore
chiediamo solo
cosa c’è per cena
Quello che resta dal
mondo di fuori
sono foto troppo colorate
erezioni improvvise
e sedie vuote
Anime in stand-by
col destino portato da
medici
col viso indifferente
come quello di dio
Luci al neon, pillole, carrelli che
passano
e poi è di nuovo
notte
Alla fine realizzi
che in questo regno
dove le lacrime hanno
ormai
perso senso
l’unica vera rivoluzione
è un sorriso
L’unica cosa che
ti può far arrivare al
mattino
insieme al pensiero
di quando sarai anche tu
di nuovo
dietro quella
porta.
Marco Zangari © 2013
sonni a metà
parliamo una sola lingua
fatta di parole che
non conosciamo
nelle quali
crediamo
fino a sera
Abbiamo smesso, oltre quella
porta,
di essere persone
adesso siamo solo
anime in stand-by
in attesa in attesa in
attesa
che un estraneo ci dica
cosa succederà
di tutte le cose che
conosciamo
E quando ci parlano di
amore
chiediamo solo
cosa c’è per cena
Quello che resta dal
mondo di fuori
sono foto troppo colorate
erezioni improvvise
e sedie vuote
Anime in stand-by
col destino portato da
medici
col viso indifferente
come quello di dio
Luci al neon, pillole, carrelli che
passano
e poi è di nuovo
notte
Alla fine realizzi
che in questo regno
dove le lacrime hanno
ormai
perso senso
l’unica vera rivoluzione
è un sorriso
L’unica cosa che
ti può far arrivare al
mattino
insieme al pensiero
di quando sarai anche tu
di nuovo
dietro quella
porta.
Marco Zangari © 2013
martedì 20 agosto 2013
Parole in Pixel
E' troppo grande questa pagina bianca,
questa traccia finta di un mondo parallelo che c'è e che non c'è,
mi manca il rumore della penna che scorre sul foglio e l'odore della carta,
mi manca il contatto vero con le parole, come se quelle che vedi apparire sullo schermo non fossero davvero tue, come se qualcuno stesse scrivendo per te.
Non amo scrivere al computer, ho sempre l'impressione che mi rubi i pensieri.
Solo un diario può essere il tuo vero confidente.
Un diario è qui e ora, lo puoi toccare, nascondere in una scatola o dentro l'armadio, lo puoi rivestire con foto, renderlo uno specchio perfetto della tua anima.
Il computer è tremendamente impersonale, freddo e uguale a tanti altri, le parole perdono la loro carica, non riescono a rilevare il tremolio della mano, la rabbia o la tristezza.
Nonostante ciò eccomi qui, le frasi scivolano attraverso il mio corpo fino alla punta della dita sui tasti.
Vorrei scrivere di tutto quello che mi sta accadendo, della mia avventura in Australia, della malinconia che alle volte mi coglie, della gioia che mi riempie gli occhi quando mi rendo conto dell'incredibile esperienza che sto vivendo, della solitudine che mi accompagna come un cane fedele, del coraggio che mi spinge avanti.
Non lo farò, non per ora.
Devo convincermi che questo schermo è amico e non pensare a quanto siano volatili i documenti digitali.
Inoltre c'è un momento giusto per tutto, un momento in cui la mente si apre e riversa tutto fuori.
Bisogna regolare questo flusso e indirizzarlo verso uno scopo, se no si appare banali e ci si annega dentro.
Concludo con un dubbio che mi tormenta da tempo: a chi e a cosa servono tutte queste parole, questi fogli carichi di pensieri? la scrittura non perde il suo scopo se non è rivolta agli altri, se non serve a qualcosa e a qualcuno?
sabato 17 agosto 2013
Discorso con l'anima
La mia anima siede
al tavolo
a fine pomeriggio
con braccia conserte
il piede che dondola
nervosamente
La guardo da
dietro un bicchiere
-silenzio-
solo il rumore soffice
del tiro di una sigaretta
il rumore sordo di anni
che si schiantano contro il
muro
e nessuna curiosità di
controllare
se qualcuno è ancora vivo
tra le lamiere
Silenzio. Bicchiere.
Poi lei mi guarda
come a voler continuare
un discorso, sospira
-E poi non sai niente di me.
Mi chiami con un nome
non mio
mi invochi quando le tue
ferite vomitano fiamme
lingue di niente
nelle notti ghiacciate
-ma non sai chi sono
non sai cosa voglio
non conosci l’orrore
che mi porto dentro
le albe desolate, gli abbandoni
gli strazi di stupri a metà
di eserciti di pensieri che mi
hanno scavato rughe come trincee
Silenzio. Bicchiere.
La mia mano a cercare tra
la barba
l’ultima verità nascosta
l’ultimo biglietto vincente
-ma non trovo nulla
-Io so che per te sono tutto
(ricomincia lei)
ma non voglio che tu
parli di me con gli altri
-non capirebbero
Ci fissiamo un attimo
stupiti di essere ancora insieme
dopo liti e insulti a forma di coltello
stupiti di essere ancora vivi
dopo saccheggi e incendi
che hanno svuotato
le nostre infinite strade
Ne verso un altro
gocce che cadono sul tavolo
gocce nuove su gocce antiche
quelle future
la guardo e dico
-posso almeno
scriverne?
Lei non risponde
si alza e va nell’altra
stanza
ed io capisco
che resteremo
per sempre
insieme.
Marco Zangari © 2013
al tavolo
a fine pomeriggio
con braccia conserte
il piede che dondola
nervosamente
La guardo da
dietro un bicchiere
-silenzio-
solo il rumore soffice
del tiro di una sigaretta
il rumore sordo di anni
che si schiantano contro il
muro
e nessuna curiosità di
controllare
se qualcuno è ancora vivo
tra le lamiere
Silenzio. Bicchiere.
Poi lei mi guarda
come a voler continuare
un discorso, sospira
-E poi non sai niente di me.
Mi chiami con un nome
non mio
mi invochi quando le tue
ferite vomitano fiamme
lingue di niente
nelle notti ghiacciate
-ma non sai chi sono
non sai cosa voglio
non conosci l’orrore
che mi porto dentro
le albe desolate, gli abbandoni
gli strazi di stupri a metà
di eserciti di pensieri che mi
hanno scavato rughe come trincee
Silenzio. Bicchiere.
La mia mano a cercare tra
la barba
l’ultima verità nascosta
l’ultimo biglietto vincente
-ma non trovo nulla
-Io so che per te sono tutto
(ricomincia lei)
ma non voglio che tu
parli di me con gli altri
-non capirebbero
Ci fissiamo un attimo
stupiti di essere ancora insieme
dopo liti e insulti a forma di coltello
stupiti di essere ancora vivi
dopo saccheggi e incendi
che hanno svuotato
le nostre infinite strade
Ne verso un altro
gocce che cadono sul tavolo
gocce nuove su gocce antiche
quelle future
la guardo e dico
-posso almeno
scriverne?
Lei non risponde
si alza e va nell’altra
stanza
ed io capisco
che resteremo
per sempre
insieme.
Marco Zangari © 2013
mercoledì 14 agosto 2013
SYDNEY VS MAGGIE
Una bella battaglia, forse non si possono neanche paragonare,
però qualche idea me la sono fatta al riguardo. Sydney è piena di luci, suoni,
anzi suoni e rumori, gente che arriva da tutte le parti del mondo, l’autobus
che passa tutta la notte sempre pieno di gente in qualsiasi ora, una marea di
locali con serate a tema e ogni tipo di genere musicale, come vuoi, quando vuoi,
con il tipo di gente che vuoi; l’altro con luci più soffuse, più naturali, più
selvagge, autobus che passano più o meno solamente di giorno, pochi party cool,
zero palestre, insomma meno suoni, ma tanti rumori. Si, rumori. Se di giorno
noi umani facciamo un po’ di confusione con qualche barchetta e qualche
fuoristrada, la notte inizia il “loro” concerto…di chi precisamente non ve lo
so spiegare, di sicuro sono uccelli. Poi dopo il concerto senti che si muove
qualche albero e capisci che un opossum si sta sta arrampicando fra i rami o
magari un rock wallaby si è ammucchiato mentre saltellava tra le rocce. Chissà
se gli altri wallaby lo avranno preso in giro. Lui gli avrà risposto a tono o
irritato avrà cambiato roccia? In tutti i casi, sono sicura che domani faranno
pace. I primi giorni l’atmosfera notturna può sembrare davvero inquietante. Per
quanto sono rumorosi questi animaletti, possono svegliarti nella notte. Ho
detto svegliarti nella notte? Si. L’ho detto! In trent’anni non mi era mai
successo!!! Sono una di quelle persone che non si svegliano neanche per far
pipì! In molti invece lo fanno, almeno credo. Uno dei più semplici ma grandi vantaggi
di Maggie è che se la batteria del cellulare sta per scaricarsi, non devi
spegnere il cellulare o metterlo offline. Semplicemente passi a casa a metterlo
in carica.
Ieri pensavo: qui non c’è quasi niente! Ma in un niente ci
può essere tutto? Insomma, alla fine per vivere cosa ci serve di più di una
spiaggia paradisiaca, un tramonto sul mare pazzesco, qualche amico con cui
chiacchierare. I grattacieli, l’i-phone, i locali cool, la macchina cool,
l’abito cool, la vita cool, ce li siamo costruiti noi. E molta gente è insoddisfatta
di quello che ha intorno. Credo mi sia proprio uscito un pensiero profondo,
modestia a parte, anche se probabilmente, tutta una vita qui, forse, mi
annoierei un po’ anch’io. Insomma, anche qualche bene materiale può tornarci
utile ogni tanto! Perché sputargli sopra!
Undici Agosto Duemilatredici, ore venti, stessa baia, stessa
isola, stessi amici, nuovi bei pensieri.
martedì 6 agosto 2013
Superare Cristo
Stavo rileggendo il post che avevo scritto un anno fa per il mio compleanno (chi mi segue sa che ne scrivo sempre uno in quel periodo, se siete masochisti potete perfino andarveli a ripescare. Non chiedetemi perchè lo faccio, visto che odio i compleanni).
Mi suona molto strano adesso, specie la fine: “e a 33 non c’è altro da fare che puntare Cristo e superarlo col sole in faccia”.
Beh, credo che se lo superassi adesso, mi darebbe sicuramente un sorrisino del tipo, cazzi tuoi, non sai cosa ti aspetta. Del tipo, a chi pensi che sia andata meglio, qui?
E di superarlo, lo sto superando –se tengo per le prossime 6 ore, ma direi che si può fare. Il punto è come lo sto facendo. Un anno fa avevo il piede incollato all’acceleratore, il sole in faccia, una birra aperta e tutto da perdere.
Poi i 33 sono stati tostissimi, senza tregua. Aggiungergli un anno è qualcosa che addirittura sembrava non fosse più possibile, qualche mese fa, quando me la sono vista brutta.
Non ho smesso di vedermela brutta. Il destino ha deciso di sparigliare ancora una volta le carte, e quasi non so più nemmeno a quale gioco stiamo giocando –ma so qual’è la posta in palio, ed è maledettamente alta.
Quindi capirete che di compleanni, in questo momento, non me ne frega poi molto. Meno del solito, molto meno, anzi sembra quasi una presa in giro. Cosa ci sarà mai da festeggiare?
Forse niente, forse è un altro di quei modi in cui ci illudiamo che tutto vada bene anche se i muri stanno crollando. Invecchiare non piace a nessuno, e farlo con queste zero certezze, piace infinitamente di meno.
Ma allora, che cazzo farne di questo 7 agosto? Potrei far finta di niente, sorridere educatamente quando colleghi e amici mi faranno gli auguri, concentrarmi sulla visita medica di domani mattina (un regalo che mi sono concesso, in perfetta sintonia con questo 2013), tornare a casa, aprire una birra e pensare già al giorno dopo.
Però, come ho già scritto da qualche parte in questo blog, da queste date non si scappa. Ti vengono naturali bilanci, magoni e bestemmie.
Ma no, tranquilli, non farò nessuna di queste stronzate. Non è tempo di bilanci, per uno che sta ancora sospeso sull’abisso –e per magoni e bestemmie, c’è sempre tempo. Ma se proprio dobbiamo brindare, non facciamolo a questo 7 agosto. É un giorno del cazzo, e tra 24 ore non ne sentiremo più parlare. Passa veloce e se ne va, come tante altre cose e persone nella mia vita. No, adesso ho bisogno di certezze.
Brindiamo alla certezze, quindi –quelle due o tre che in questo momento fanno la differenza.
Alla certezza che dopo questo giorno ce ne sarà un altro, e un altro ancora, fino ad arrivare (mi auguro) a quei temuti 35 (cazzo che vecchio!). Alla certezza che anche quel giorno dei 35 scriverò un post palloso come questo.
Alla certezza di avere degli amici che sono una famiglia. Alla certezza di avere una famiglia che conta più di tutto.
Alla certezza, granitica, del mio compare.
Alla certezza che domani F e R mi accompagneranno dal medico ed in macchina faremo casino ed io sarò contento di essere con loro, che E starà ad aspettarmi e poi festeggeremo il suo ultimo giorno e lei si sforzerà di non piangere per i primi 2 minuti, che G mi chiederà come una mamma cosa voglio e come sto, che N mi darà un passaggio al lavoro ed in macchina sentiremo musica hip-hop e parleremo di tutte le stronzate che ci passano per la testa. Alla certezza della mia sorellina M che mi pensa dall’Elba, di R che prepara i suoi dolci buonissimi per me, di F che si preoccupa e mi chiama ogni sera anche se ha i cazzi suoi, di A che mi manda messaggi dallo zoo. E poi tutti gli amici che verranno venerdì e sabato a fare festa, per dimenticarci un po’ di questa guerra infinita.
E la certezza delle mie tante famiglia in Italia, della loro voce che non si spegne mai, dei loro nomi che sono sempre gli stessi. Siete voi, quello che mi porterà fino alla mezzanotte del 7 agosto e poi oltre, sempre oltre.
Alla certezza che tra un po’ farò una doccia, poi una buona cena e mi rilasserò. Cercherò di essere me stesso tra lo sfacelo, e da questo sfacelo farò nascere qualcosa di buono, come fiori in mezzo alle macerie.
Non ho molte certezze, ma per questo 7 agosto, bastano e avanzano.
E grazie ancora a tutti voi per non farmele mancare mai.
Adesso è ora di superare Cristo.
domenica 4 agosto 2013
TRAFFIC LIGHT
Ieri sera abbiamo festeggiato i 40 anni della nostra amica ungherese. Falò in spiaggia, musica anni ‘60, una marea di stelle e due shooting stars (stelle cadenti) portatrici di due desideri molto importanti per il mio 2013. Dopo il falò, siamo stati nell’unico locale affollato dell’isola di sabato sera: più o meno 30 persone che ballavano musica commerciale sui tavoli con qualche jug di birra e qualche rum and cola qua e là. Mentre parlavo con la mia amica australiana scopro una cosa fantastica: gli australiani chiamano Amber il colore arancione del semaforo. È una cosa bellissima! Finora, quando non capivano il mio nome, cioè sempre, dicevo: “Ambra, come la pietra, in inglese è Amber”. E tutti capivano. Ma questa cosa del semaforo non la sapevo. Mi ci ritrovo tantissimo, mi piace essere l’arancione del semaforo. Quando c’è l’arancione le persone hanno bisogno di prendere una decisione: se andare avanti spediti e oltrepassare l’incrocio oppure rallentare e fermarsi. Mi piace che le persone per conoscermi abbiano una possibilità di scelta: se venire rapidamente verso di me per conoscermi a fondo, prendere velocità, guardare a destra poi a sinistra e premere l’accelleratore verso una nuova conoscenza o una nuova relazione. Oppure indietreggiare, osservarmi da lontano, rallentare, aspettare che diventi di nuovo verde e prendersi del tempo per studiare le nuove mosse. Pazientare e magari ripartire per avvicinarsi oppure cambiare strada e allontanarsi. E poi il giallo è in mezzo, o l’arancione, come preferite. È tra il rosso e il verde. Io sono sempre stata in mezzo. Mi piace stare in mezzo. In mezzo a tante situazioni, con la mia spiccata curiosità, in mezzo a tanta gente per conoscere nuove idee, nuovi pensieri, nuovi modi di fare e anche per sentire il calore della gente. Adoro stare in mezzo da quando sono nata. In maniera educata e mai rumorosa o fastidiosa, ma comunque in mezzo. Ora sono in mezzo a più o meno duemila persone. Il semaforo è verde, la velocità è moderata, la guida rilassata, di quelle che puoi girarti un secondo a guardare la costa col finestrino abbassato. Buon viaggio a tutti!
La Storia siete voi
La Storia
è segni passati, tacche su
rivoltelle
è stupore per la nostra
ingenuità
è voler credere
che fossimo beati
che avessimo tutto
la Storia
sono libri impolverati
che nessuno ha voglia
di leggere
è una ricorrenza
a rammentarci il tempo
sprecato
la Storia
è una scusa
per i nostri sbagli futuri
una giustificazione
per quelli passati
la Storia
è un pasto cucinato da altri
che mangiavamo solo
perchè dovevamo
ma a qualcuno piaceva
la Storia
è la speranza ultima
del pavido
che qualcosa di tutto
questo
resterà
La Storia
è carri armati & affreschi,
lager & missili, progresso & torture
è tutto quello che uno
ci vuole vedere
la Storia
si scriveva sulle ossa dei morti
sui fallimenti degli oppressi
si scriveva usando nomi di
re, generali, imperatori
e tutti gli altri
erano cifre da ricordare
per l’interrogazione
La Storia siete voi
voi che ci volete
ancora convincere
che c’eravamo anche noi.
“Siamo tutti moscerini
sul parabrezza della Storia”
Marco Zangari © 2012
(Photo by Giancarlo Privitera)
è segni passati, tacche su
rivoltelle
è stupore per la nostra
ingenuità
è voler credere
che fossimo beati
che avessimo tutto
la Storia
sono libri impolverati
che nessuno ha voglia
di leggere
è una ricorrenza
a rammentarci il tempo
sprecato
la Storia
è una scusa
per i nostri sbagli futuri
una giustificazione
per quelli passati
la Storia
è un pasto cucinato da altri
che mangiavamo solo
perchè dovevamo
ma a qualcuno piaceva
la Storia
è la speranza ultima
del pavido
che qualcosa di tutto
questo
resterà
La Storia
è carri armati & affreschi,
lager & missili, progresso & torture
è tutto quello che uno
ci vuole vedere
la Storia
si scriveva sulle ossa dei morti
sui fallimenti degli oppressi
si scriveva usando nomi di
re, generali, imperatori
e tutti gli altri
erano cifre da ricordare
per l’interrogazione
La Storia siete voi
voi che ci volete
ancora convincere
che c’eravamo anche noi.
“Siamo tutti moscerini
sul parabrezza della Storia”
Marco Zangari © 2012
(Photo by Giancarlo Privitera)
venerdì 26 luglio 2013
TWO THOUSAND SOULS
Un’esperienza di vita…queste parole mi sembrano riduttive per riassumere quello che sto vivendo da quando ho avuto il coraggio di raggiungere l’altra parte del mondo. Riduttive come qualsiasi cosa densa di emozioni e significati. Come quando senti di amare così tanto qualcuno che ti mancano le parole per esprimerlo. Vi è mai successo?
Insomma…eccomi qui! Ce l’ho fatta! Sono arrivata in Australia a Gennaio e sto vivendo un anno incredibile. Dopo 6 mesi ho deciso finalmente di scrivere qualcosa e lasciare qualcosa di me in questo spazio. Magnetic Island ti ispira, con la sua bellezza, la sua pace, il suo tepore. Questo è il momento giusto per sentirmi un po’ scrittrice, non per le capacità letterarie, ma per la vena poetica. Sono passati 8 giorni e sto iniziando a conoscere qualcuno dei 2500 abitanti dell’isola. Ieri notte sono stata a casa di una signora dolcissima, che abita qui da 30 anni con i suoi tre gatti neri. Mi offre un Cowboy cocktail e mette su un po’ di Bob Marley. Non potevo tornare a casa prima dell’una a causa dell’alta marea. Abito in un posto da sogno, sulla spiaggia, ma dovevo ricordarmi che questo sogno era senza strada. Così sorseggio il mio cocktail mentre una delle tre gatte riceve ben volentieri le mie coccole. La gatta ha una panciona enorme, convinta che fosse incinta chiedo alla padrona da quanto tempo, mi risponde che è semplicemente “fat”. Per fortuna era solo una gatta! Non credo si sia offesa.
Il giardino era pieno di collane di conchiglie, di statue di gatti, di fiori. Mi sentivo Alice nel paese delle meraviglie, ma al posto del Bianconiglio c’era uno strano uccello grigio con le zampe lunghe che correva per tutto il giardino inseguito dal gatto. Continuo a chiacchierare con la signora e organizziamo una cena durante la prossima settimana. Finalmente torno a casa a piedi, e non a nuoto, saluto i tre micioni spalmati sul divano e raggiungo il mio caro letto.
Penso a quanto sia semplice la vita qui. Mi manca un po’ Sydney, la sua confusione, i suoi festival, il suo modo di stupirti sempre al meglio e, ovviamente, mi mancano i miei amici. Una delle cose che ho imparato nelle lunghe permanenze lontano da casa è che quel mucchio di emozioni che provi viaggiando si colora solo se condiviso. Sono partita dall’Italia da sola, ma sapevo che avrei dovuto subito cercare qualcuno con cui condividere quest’esperienza. Ero consapevole delle mie “capacità di ricerca”, cresciute grazie ai due anni trascorsi a Roma e ai sei mesi in Portogallo. Ma come in tutte le cose, avevo bisogno anche di un pizzico di fortuna, forse anche due…alla fine credo di averne avuta una bella manciata. Dalla prima settimana ho trovato quella che è stata, ed è tuttora, la mia migliore amica a Sydney. Una matta e solare siciliana con la quale ho riso, pianto, ballato, mangiato, bevuto, litigato, conosciuto, imparato…Ora sono su questa isola stupenda e non vedo l’ora di vivere le mie prossime avventure, felice e orgogliosa della mia forza e delle mie scelte, senza dimenticare mai la mia casa e miei affetti dall’altra parte del mondo.
lunedì 8 luglio 2013
memoria
Troppo facilmente ci si rivaluta, ci si trasforma in bravi
cittadini, ci si dimentica chi o cosa eravamo, cosa e come abbiamo vissuto.
Improvvisamente diventiamo eroi di noi stessi, artisti, geni e grandi
pensatori, senza percorso e senza meta ma con il diritto e il dovere di puntar
il dito e scuoter la testa.
Tutti ricchi di merito, smemorati dimentichiamo il passato.
domenica 7 luglio 2013
Ricapitolando
Ricapitolando, questo 2013 è stato un anno un po’ particolare.
Ricapitolando, nel giro di pochi mesi sono stato prima derubato (ma non di beni materiali), poi sono stato in Italia a visitare le mie due famiglie, e al ritorno sono riuscito a dare un’occhiata al sistema sanitario australiano tramite una permanenza forzata di un paio di settimane nel glorioso Royal Prince Alfred Hospital di Sydney e un’operazione al cervello che mi è quasi riuscita fatale.
Dopo quell’esperienza sono stato risputato dentro la vita di tutti i giorni, consapevole che per me non sarebbe mai più stata la vita di tutti i giorni. E se non avessi ancora la famosa benda all’occhio a ricordarmelo, avrei un bel po’ di altre cose che non me lo faranno scordare mai.
Ricapitolando, questo è stato, finora, il 2013. Un anno che mi ha fatto male fino a spaccarmi il cuore, e poi ha provato pure ad ammazzarmi –tanto che comincio a chiedermi cosa posso mai avergli fatto. L’ho forse picchiato quand’era bambino?
Ora davanti a me ci sono altri 5 mesi e rotti di questo simpatico anno. Vi prego di mettermi nelle vostre preghierine fino al Capodanno 2014.
Ricapitolando: e adesso?
Adesso sono qui a scrivervi, e sono abbastanza contento di farlo. So che mi state leggendo sparpagliati per il mondo, da qui dietro l’angolo fino ad arrivare nella parte di mondo che adesso sta dormendo. Dopo aver raccontato (per il bisogno di raccontare) la mia esperienza in ospedale, sono contento di poter scrivere di altro.
Sono contento perchè oggi sono tornato a scrivere sul serio, che è un po’ come tornare a fare l’amore dopo un grosso spavento come quello passato: non ti è mai sembrato così bello, ti stupisci di saperlo fare ancora, e quando hai finito vuoi ricominciare subito. E c’è fame dietro, una fame gigantesca ma lucida, di chi si vuole mangiare il mondo ma coi suoi tempi e alle sue condizioni.
Non sono mai stato leggero come adesso –adesso che sono sotto medicine che giocano coi miei ormoni, e che giro come un pirata fuoristagione. Non credo di aver mai sorriso come in questi giorni, e non so nemmeno io perchè. Mi verrebbe da dirmi “E ridici al cazzo” (ovviamente col tono di voce di Giancarlo), ma non mi va d’interrompere questo sorriso.
E in fondo, perchè dovrei?
La mia vita è stata così assolutamente rivoluzionata negli ultimi 3-4 mesi, che comincio a credere che non abbia più senso pensare ad un prima e un dopo. Forse qualcosa è morto e qualcosa è nato, tutto qui.
Era giusto così? É stata tutta una grossa ingiustizia? Non posso saperlo. Non posso nemmeno aspettare che arrivi un intervento divino a sistemare il punteggio a mio vantaggio. Lo so cosa ho passato, e lo so cosa mi merito dopo averlo passato, ma la vita segue regole un po’ diverse.
Sta a me risistemare i conti il più possibile, semmai sarà possibile. Non credere ad una giustizia da lieto fine, ma arrivare alla fine nella maniera più giusta per noi.
Ricapitolando, ho meno risposte di prima, ma quelle che ci sono, sono più forti. Io, sono più forte. Ho passato la vita a cercare ispirazioni, e adesso sono orgoglioso di quello che sono e che faccio. Ho smesso di cercare fuori, e ho cominciato a fare un po’ di pulizia dentro. Ecco, il compare ha definito benissimo questo momento: mi sento più pulito.
E ne avevo un gran bisogno.
Ricapitolando, forse siamo tutti in cerca di pulizia. Ci sbattiamo per darci una sistemata, per pagare tutti i debiti, riparare tutti i rubinetti che perdono, compilare tutti i moduli, cominciare tutte le diete e le palestre, fare tutte le pulizie di primavera, come se vivessimo in un eterno lunedì mattina, quando ci sono i buoni propositi del fine settimana, che inevitabilmente non sopravvivono nemmeno al mercoledì.
Ricapitolando, forse per pulirci dobbiamo accettarci. Sapere cosa siamo, cosa valiamo, in cosa facciamo schifo. Ricordarci che in questa pelle dobbiamo viverci per un altro pezzo (2013 permettendo), e allora tanto vale arredarla e cominciare a conoscerla. E a quel punto, anche se siamo mezzi orbi e ancora convalescenti, potremo sentirci forti e puri come se fossimo appena nati.
Ricapitolando, stamattina mi sono svegliato e ho visto questo panorama dalla finestra. E tra il 2013, furti, operazioni e bende, ho pensato che me lo sono sudato, questo panorama.
E ne valeva la pena.
Ricapitolando, nel giro di pochi mesi sono stato prima derubato (ma non di beni materiali), poi sono stato in Italia a visitare le mie due famiglie, e al ritorno sono riuscito a dare un’occhiata al sistema sanitario australiano tramite una permanenza forzata di un paio di settimane nel glorioso Royal Prince Alfred Hospital di Sydney e un’operazione al cervello che mi è quasi riuscita fatale.
Dopo quell’esperienza sono stato risputato dentro la vita di tutti i giorni, consapevole che per me non sarebbe mai più stata la vita di tutti i giorni. E se non avessi ancora la famosa benda all’occhio a ricordarmelo, avrei un bel po’ di altre cose che non me lo faranno scordare mai.
Ricapitolando, questo è stato, finora, il 2013. Un anno che mi ha fatto male fino a spaccarmi il cuore, e poi ha provato pure ad ammazzarmi –tanto che comincio a chiedermi cosa posso mai avergli fatto. L’ho forse picchiato quand’era bambino?
Ora davanti a me ci sono altri 5 mesi e rotti di questo simpatico anno. Vi prego di mettermi nelle vostre preghierine fino al Capodanno 2014.
Ricapitolando: e adesso?
Adesso sono qui a scrivervi, e sono abbastanza contento di farlo. So che mi state leggendo sparpagliati per il mondo, da qui dietro l’angolo fino ad arrivare nella parte di mondo che adesso sta dormendo. Dopo aver raccontato (per il bisogno di raccontare) la mia esperienza in ospedale, sono contento di poter scrivere di altro.
Sono contento perchè oggi sono tornato a scrivere sul serio, che è un po’ come tornare a fare l’amore dopo un grosso spavento come quello passato: non ti è mai sembrato così bello, ti stupisci di saperlo fare ancora, e quando hai finito vuoi ricominciare subito. E c’è fame dietro, una fame gigantesca ma lucida, di chi si vuole mangiare il mondo ma coi suoi tempi e alle sue condizioni.
Non sono mai stato leggero come adesso –adesso che sono sotto medicine che giocano coi miei ormoni, e che giro come un pirata fuoristagione. Non credo di aver mai sorriso come in questi giorni, e non so nemmeno io perchè. Mi verrebbe da dirmi “E ridici al cazzo” (ovviamente col tono di voce di Giancarlo), ma non mi va d’interrompere questo sorriso.
E in fondo, perchè dovrei?
La mia vita è stata così assolutamente rivoluzionata negli ultimi 3-4 mesi, che comincio a credere che non abbia più senso pensare ad un prima e un dopo. Forse qualcosa è morto e qualcosa è nato, tutto qui.
Era giusto così? É stata tutta una grossa ingiustizia? Non posso saperlo. Non posso nemmeno aspettare che arrivi un intervento divino a sistemare il punteggio a mio vantaggio. Lo so cosa ho passato, e lo so cosa mi merito dopo averlo passato, ma la vita segue regole un po’ diverse.
Sta a me risistemare i conti il più possibile, semmai sarà possibile. Non credere ad una giustizia da lieto fine, ma arrivare alla fine nella maniera più giusta per noi.
Ricapitolando, ho meno risposte di prima, ma quelle che ci sono, sono più forti. Io, sono più forte. Ho passato la vita a cercare ispirazioni, e adesso sono orgoglioso di quello che sono e che faccio. Ho smesso di cercare fuori, e ho cominciato a fare un po’ di pulizia dentro. Ecco, il compare ha definito benissimo questo momento: mi sento più pulito.
E ne avevo un gran bisogno.
Ricapitolando, forse siamo tutti in cerca di pulizia. Ci sbattiamo per darci una sistemata, per pagare tutti i debiti, riparare tutti i rubinetti che perdono, compilare tutti i moduli, cominciare tutte le diete e le palestre, fare tutte le pulizie di primavera, come se vivessimo in un eterno lunedì mattina, quando ci sono i buoni propositi del fine settimana, che inevitabilmente non sopravvivono nemmeno al mercoledì.
Ricapitolando, forse per pulirci dobbiamo accettarci. Sapere cosa siamo, cosa valiamo, in cosa facciamo schifo. Ricordarci che in questa pelle dobbiamo viverci per un altro pezzo (2013 permettendo), e allora tanto vale arredarla e cominciare a conoscerla. E a quel punto, anche se siamo mezzi orbi e ancora convalescenti, potremo sentirci forti e puri come se fossimo appena nati.
Ricapitolando, stamattina mi sono svegliato e ho visto questo panorama dalla finestra. E tra il 2013, furti, operazioni e bende, ho pensato che me lo sono sudato, questo panorama.
E ne valeva la pena.
domenica 23 giugno 2013
Scelta
L’uomo sta affacciato sulla fine del mondo
guardando in sù per non guardare
guardando un cielo bianco di notte
e nuvole lì a danzare
in mezzo alla mancanza di stelle
e il bianco è nuovo
l’aria è nuova
e nella mente dell’uomo c’è una parte
oscura
con dentro tutti gli addii, tutte le
paure, tutte le domeniche mattina
tutte le voglie di
lasciar perdere
In quel punto c’è
tutto il nero che l’uomo
abbia mai
conosciuto
Donne vestite da angeli
baciano quel punto
prima di uscirgli da ferite
curate con abbracci e cartoline
L’uomo guarda ancora in sù
per non guardare
Schiavo dei ricordi
libero abbastanza
per decidere se
fare un passo in avanti
verso la fine
o fissare quel bianco
fino a sentirsi
di nuovo
innamorato.
Marco Zangari © 2013 (The Yellow House)
(nell'immagine: "La Raccolta" di Giancarlo Privitera © 2013 )
domenica 16 giugno 2013
Survivors (epilogo)
Sto aspettando il treno per andare al lavoro. Sulla panchina ci sono decine di persone, perlopiù asiatici. Tutti mi fissano, chi più discretamente, chi meno. Lo stesso fanno gli studenti, una volta che siamo saliti sulla vettura. Poi arrivo in ufficio, e si ricomincia. Chissà, magari sarà perchè la barba mi dona davvero e mi rende (cosa incredibile a pensarsi) ancora più attraente. O forse è la benda che porto all’occhio sinistro, che ancora non si è riallineato a quello destro.
Quella benda attira gli sguardi e le domande di tutti. Cos’hai, come stai, cos’hai avuto, e tutto il tempo non smettono di fissare la benda. C’é chi passa e se ne va, stringendomi la mano, quasi che la benda fosse contagiosa. Li capisco. É qualcosa che gli ricorda che sono stato male, anzi che sono ancora “malato”, in un senso popolare del termine. E la malattia fa paura, anche in tempi di smartphone e microimpianti.
Il bello è che tutti sembrano farne un caso nazionale di questa benda, tranne me. Forse perchè, fino a qualche settimana fa, l’occhio era leggermente meno importante del fatto che potessi lasciarci la pelle.
O forse perchè questa è la mia nuova vita, e nella mia nuova vita non ci si preoccupa troppo di niente: si sorride con grazia, e poi si va avanti.
Si va sempre avanti.
La prima notte che ho passato fuori dall’ospedale, ho dormito profondamente e con gusto, come non mi succedeva da mesi. Era stato bello tornare a casa. Quando avevo aperto la porta, quasi avevo pensato che dentro ci avrei trovato un cane che mi veniva incontro per farmi le feste. Invece, ovviamente, non c’era nessuno.
La mattina dopo feci una bella colazione. Ero stato così tanto in ospedale, che mi ero quasi abituato a quei ritmi scanditi da pasti disgustosi, farmaci e controlli invasivi. Dopo la colazione mi vestii e andai in giardino. Mi sedetti sugli scalini, chiusi l’occhio buono e mi lasciai avvolgere dal sole.
Era questo, più di tutto, che desideravo fare una volta uscito dall’ospedale.
Non sesso selvaggio, non feste e alcol.
Volevo solo tornare nel mio giardino e starmene al sole, senza un pensiero al mondo.
E così feci.
Restai lì non so quanto tempo. Quando rientrai in casa, mi aggirai per le stanze. Vedevo i miei mobili, i miei libri, le mie cose. Tutto quello che avevo lasciato due settimane prima, e che pensavo di aver perso per sempre. Adesso facevo risuonare i passi in casa, nella mia casa, quella dove ero stato derubato qualche tempo fa, e pensai che i ladri si credevano furbi, che pensavano di avermi preso tutto e di averlo fatto anche in maniera pulita.
Adesso, mentre mi aggiravo fra le stanze, capivo che non me ne importava più niente. Che si tenessero quello che volevano. Mi avevano preso tutto, eppure la parte che mi era rimasta era la più importante, la più vera, la più viva.
Era la parte che non mi avrebbero mai preso, e che i ladri avrebbero sempre rimpianto.
Fino alla fine.
La prima settimana la passai a casa, cercando di riprendermi. Mi stancavo facilmente, e avevo dolori ovunque. Non ero ancora abituato alla benda nell’occhio, quindi dovevo imparare a capire le distanze con uno solo, e a non tagliarmi un dito mentre tritavo la cipolla per il ragù.
Dopo qualche giorno dall’operazione al cervello, tornai al lavoro. La mattina prendevo due treni e camminavo per una buona mezz’ora prima di arrivare. Una volta lì stavo al computer, incontravo clienti, organizzavo eventi e rispondevo almeno duecento volte al giorno alla domanda, che hai fatto all’occhio (la battuta del pirata era quella che riscuoteva più successo). Una volta finito facevo la spesa e rifacevo il percorso inverso fino a casa. Lì cucinavo, lavavo, stiravo. Sistemavo cose burocratiche. Tranquillizzavo i miei al telefono. Prendevo medicine ad intervalli regolari. Innaffiavo le piante. Buttavo la spazzatura negli appositi contenitori. La sera non ci mettevo molto ad addormentarmi.
Il giorno dopo ricominciava tutto, ed io arrancavo, ancora pieno di medicine e con un occhio solo, verso il treno, dovrei avrei lottato per un posto seduto.
Facevo tutto da solo, e ne ero fiero.
Quella mattina andai al solito bar a prendere un caffè. Il barista, un arabo che lavora lì da una vita, mi guardò e mi chiese, che ti è successo all’occhio?
Avevo appena usato la battuta del pirata con una delle cassiere del supermercato, così dissi, sono stato coinvolto in una rissa al pub.
Non sembri il tipo che fa a pugni, disse lui.
Sorseggiai il mio caffè, pagai e tornai al lavoro pensando, non sai quanto ti sbagli, amico mio.
Non so come, ma quel 10 Maggio mi ha cambiato, e lo ha fatto per sempre. E il bello è che questo mi era sempre sembrato un clichè. Si vede che non sono poi così originale come credevo.
Mi sono trovato di fronte me stesso, quel giorno, ed ho saputo reggere lo sguardo. Ho saputo guardare oltre le mie scuse, le mie trappole, i miei nascondigli e le mie rese, e ho capito che non ero passato di lì per niente. Che nessuno passa di qui per niente.
Ho guardato dentro i miei occhi e ho capito che, qualsiasi cazzata avessi fatto nella mia vita, adesso ero pronto per ricominciare. Per rifare quegli errori, magari, o farne degli altri, ma con uno spirito completamente diverso: lo spirito di chi sa che, d’ora in poi, può diventare tutto quello che vuole diventare. Di chi ha capito che in cinque minuti puoi giocarti e perderti tutto, e allora tanto vale non prendersela troppo e godersela più che si può.
Di chi finalmente ha capito il significato della parola “famiglia”, e vuole dargli un peso sempre più importante.
Non sono diventato un santone, e non passo i giorni a meditare in giardino. Col passare dei giorni ricominciano le piccole lotte quotidiane, le piccole sfighe legate al traffico, alla pioggia, al lavoro. É giusto che succeda, che la vita ricominci a scorrere. Eppure, anche così, non sarà come prima. Quello che è successo risiede adesso nel fondo della mia anima, qualunque cosa sia. Non come ricordo preciso, ma come corrente sotterranea ma potente, che fa sentire la sua forza. Lo capisco quando, in mezzo a tutte le difficoltà, non riesco a smettere di sorridere, mai. Perchè se incontri difficoltà vuol dire che sei vivo, e se sei vivo, hai ancora il tempo di superarle come e quando vuoi.
Non ho la bacchetta magica, e non ne so più di prima. Però forse ho finalmente fatto la pace con me stesso –magari una pace temporanea, ma più dura e meglio è. Ho passato la mia vita a preoccuparmi per gli altri, a prendermi cura delle persone che amavo. Adesso è tempo di amare quella persona che ho ignorato per tanto tempo, e che incontro ogni mattina allo specchio, vedendola come se fosse la prima volta.
E tutto, nei giorni post-ospedale, era come la prima volta che lo vedevo. Mi sentivo un bambino, e forse lo ero davvero. Essere rinati ha i suoi vantaggi. Volevo piaceri piccoli, semplici. Tutti i Grandi Problemi che mi avevano assillato nella vita, adesso sembravano solo stronzate. Come avevo potuto perderci tempo ed energie?
Eppure sapevo che sarebbe successo ancora. É la vita, baby. La mia, al momento, va a 100 all’ora, braccio sul finestrino e aria in faccia, pronta a godersi tutto quello che incontrerà nel suo cammino.
Quello che mi è successo ha avuto qualche effetto anche in chi mi è stato vicino in quelle lunghe giornate in ospedale. C’è chi ne è uscito più positivo e pronto ad affrontare i propri casini e chi ha avuto un sovraccarico emozionale. Forse non ha cambiato la loro vita, ma di sicuro ha fatto vedere loro qualcosa che non sapevano, e che anch’io ignoravo del tutto: che siamo mortali, che siamo sempre sottoposti a questi giochetti del destino, e che tutto può cambiare in un istante. Proprio per questo, dobbiamo dare alla vita il colore e la direzione che vogliamo. Dobbiamo capire fin da ora perchè stiamo passando di qui, trovare il nostro scopo e sentirlo fino in fondo.
É questo, più o meno, quello che ho cercato di dire al barbecue che ho organizzato qualche giorno dopo l’ospedale, per ringraziare tutti coloro che avevano sofferto d’insonnia insieme a me. Un po’ l’imbarazzo, un po’ il mio primo drink in 2 mesi, mi sa che non é venuto fuori molto bene.
Ma mi sa che loro hanno capito lo stesso.
L’altro giorno stavo tornando a casa dal lavoro. Era una serata già invernale, col vento che spazzava la pioggia, bagnando la spesa che mi trascinavo dietro e rischiando di spezzarmi l’ombrello. Il freddo mi era entrato nelle ossa. L’occhio buono, dopo ore al computer, era appannato. Uno di quei momenti in cui ti vorresti abbandonare ai piccoli lamenti, ahimè ahimè.
Poi ho pensato una cosa, e da allora il freddo e la pioggia non sono più esistiti. Ho ripreso il mio sorriso di adesso, quello vero, e non l’ho mollato fino a casa.
Ho pensato che dopo quell’inverno ci sarebbe stata un’altra primavera, e che io sarei stato lì ad aspettarla.
Era bello sapere di esserci per questo.
Era maledettamente bello.
(Ok, lo so che sono stato sdolcinato come poche volte, ma lasciatemelo fare...
Voglio dire grazie a tutti. Tutti quelli che ci sono stati, lì all’ospedale o attraverso numerosissimi messaggi, telefonate, email. Tutti quelli che si sono preoccupati, e che invece adesso si devono sorbire questo Zango per chissà quanto. Tutti quelli che hanno saputo dire le parole giuste, anche senza dire niente.
É stato bellissimo trovarvi al mio ritorno.
E grazie anche a tutti quelli che hanno avuto il barbaro coraggio di leggere questi tre post infiniti. Avevo bisogno di raccontare questa storia. Se pensate che mi sia lamentato, o che mi sia perso in chiacchiere, beh, ovviamente è vero. Ma è anche vero che per me era importante scriverne, e l’ho fatto.
Adesso riprendo possesso della mia solita stanza nell’Hotel Morgana. I bagagli possono aspettare. É tempo di andare giù al bar e ordinare un mojito.
Ci si vede lì.)
Quella benda attira gli sguardi e le domande di tutti. Cos’hai, come stai, cos’hai avuto, e tutto il tempo non smettono di fissare la benda. C’é chi passa e se ne va, stringendomi la mano, quasi che la benda fosse contagiosa. Li capisco. É qualcosa che gli ricorda che sono stato male, anzi che sono ancora “malato”, in un senso popolare del termine. E la malattia fa paura, anche in tempi di smartphone e microimpianti.
Il bello è che tutti sembrano farne un caso nazionale di questa benda, tranne me. Forse perchè, fino a qualche settimana fa, l’occhio era leggermente meno importante del fatto che potessi lasciarci la pelle.
O forse perchè questa è la mia nuova vita, e nella mia nuova vita non ci si preoccupa troppo di niente: si sorride con grazia, e poi si va avanti.
Si va sempre avanti.
La prima notte che ho passato fuori dall’ospedale, ho dormito profondamente e con gusto, come non mi succedeva da mesi. Era stato bello tornare a casa. Quando avevo aperto la porta, quasi avevo pensato che dentro ci avrei trovato un cane che mi veniva incontro per farmi le feste. Invece, ovviamente, non c’era nessuno.
La mattina dopo feci una bella colazione. Ero stato così tanto in ospedale, che mi ero quasi abituato a quei ritmi scanditi da pasti disgustosi, farmaci e controlli invasivi. Dopo la colazione mi vestii e andai in giardino. Mi sedetti sugli scalini, chiusi l’occhio buono e mi lasciai avvolgere dal sole.
Era questo, più di tutto, che desideravo fare una volta uscito dall’ospedale.
Non sesso selvaggio, non feste e alcol.
Volevo solo tornare nel mio giardino e starmene al sole, senza un pensiero al mondo.
E così feci.
Restai lì non so quanto tempo. Quando rientrai in casa, mi aggirai per le stanze. Vedevo i miei mobili, i miei libri, le mie cose. Tutto quello che avevo lasciato due settimane prima, e che pensavo di aver perso per sempre. Adesso facevo risuonare i passi in casa, nella mia casa, quella dove ero stato derubato qualche tempo fa, e pensai che i ladri si credevano furbi, che pensavano di avermi preso tutto e di averlo fatto anche in maniera pulita.
Adesso, mentre mi aggiravo fra le stanze, capivo che non me ne importava più niente. Che si tenessero quello che volevano. Mi avevano preso tutto, eppure la parte che mi era rimasta era la più importante, la più vera, la più viva.
Era la parte che non mi avrebbero mai preso, e che i ladri avrebbero sempre rimpianto.
Fino alla fine.
La prima settimana la passai a casa, cercando di riprendermi. Mi stancavo facilmente, e avevo dolori ovunque. Non ero ancora abituato alla benda nell’occhio, quindi dovevo imparare a capire le distanze con uno solo, e a non tagliarmi un dito mentre tritavo la cipolla per il ragù.
Dopo qualche giorno dall’operazione al cervello, tornai al lavoro. La mattina prendevo due treni e camminavo per una buona mezz’ora prima di arrivare. Una volta lì stavo al computer, incontravo clienti, organizzavo eventi e rispondevo almeno duecento volte al giorno alla domanda, che hai fatto all’occhio (la battuta del pirata era quella che riscuoteva più successo). Una volta finito facevo la spesa e rifacevo il percorso inverso fino a casa. Lì cucinavo, lavavo, stiravo. Sistemavo cose burocratiche. Tranquillizzavo i miei al telefono. Prendevo medicine ad intervalli regolari. Innaffiavo le piante. Buttavo la spazzatura negli appositi contenitori. La sera non ci mettevo molto ad addormentarmi.
Il giorno dopo ricominciava tutto, ed io arrancavo, ancora pieno di medicine e con un occhio solo, verso il treno, dovrei avrei lottato per un posto seduto.
Facevo tutto da solo, e ne ero fiero.
Quella mattina andai al solito bar a prendere un caffè. Il barista, un arabo che lavora lì da una vita, mi guardò e mi chiese, che ti è successo all’occhio?
Avevo appena usato la battuta del pirata con una delle cassiere del supermercato, così dissi, sono stato coinvolto in una rissa al pub.
Non sembri il tipo che fa a pugni, disse lui.
Sorseggiai il mio caffè, pagai e tornai al lavoro pensando, non sai quanto ti sbagli, amico mio.
Non so come, ma quel 10 Maggio mi ha cambiato, e lo ha fatto per sempre. E il bello è che questo mi era sempre sembrato un clichè. Si vede che non sono poi così originale come credevo.
Mi sono trovato di fronte me stesso, quel giorno, ed ho saputo reggere lo sguardo. Ho saputo guardare oltre le mie scuse, le mie trappole, i miei nascondigli e le mie rese, e ho capito che non ero passato di lì per niente. Che nessuno passa di qui per niente.
Ho guardato dentro i miei occhi e ho capito che, qualsiasi cazzata avessi fatto nella mia vita, adesso ero pronto per ricominciare. Per rifare quegli errori, magari, o farne degli altri, ma con uno spirito completamente diverso: lo spirito di chi sa che, d’ora in poi, può diventare tutto quello che vuole diventare. Di chi ha capito che in cinque minuti puoi giocarti e perderti tutto, e allora tanto vale non prendersela troppo e godersela più che si può.
Di chi finalmente ha capito il significato della parola “famiglia”, e vuole dargli un peso sempre più importante.
Non sono diventato un santone, e non passo i giorni a meditare in giardino. Col passare dei giorni ricominciano le piccole lotte quotidiane, le piccole sfighe legate al traffico, alla pioggia, al lavoro. É giusto che succeda, che la vita ricominci a scorrere. Eppure, anche così, non sarà come prima. Quello che è successo risiede adesso nel fondo della mia anima, qualunque cosa sia. Non come ricordo preciso, ma come corrente sotterranea ma potente, che fa sentire la sua forza. Lo capisco quando, in mezzo a tutte le difficoltà, non riesco a smettere di sorridere, mai. Perchè se incontri difficoltà vuol dire che sei vivo, e se sei vivo, hai ancora il tempo di superarle come e quando vuoi.
Non ho la bacchetta magica, e non ne so più di prima. Però forse ho finalmente fatto la pace con me stesso –magari una pace temporanea, ma più dura e meglio è. Ho passato la mia vita a preoccuparmi per gli altri, a prendermi cura delle persone che amavo. Adesso è tempo di amare quella persona che ho ignorato per tanto tempo, e che incontro ogni mattina allo specchio, vedendola come se fosse la prima volta.
E tutto, nei giorni post-ospedale, era come la prima volta che lo vedevo. Mi sentivo un bambino, e forse lo ero davvero. Essere rinati ha i suoi vantaggi. Volevo piaceri piccoli, semplici. Tutti i Grandi Problemi che mi avevano assillato nella vita, adesso sembravano solo stronzate. Come avevo potuto perderci tempo ed energie?
Eppure sapevo che sarebbe successo ancora. É la vita, baby. La mia, al momento, va a 100 all’ora, braccio sul finestrino e aria in faccia, pronta a godersi tutto quello che incontrerà nel suo cammino.
Quello che mi è successo ha avuto qualche effetto anche in chi mi è stato vicino in quelle lunghe giornate in ospedale. C’è chi ne è uscito più positivo e pronto ad affrontare i propri casini e chi ha avuto un sovraccarico emozionale. Forse non ha cambiato la loro vita, ma di sicuro ha fatto vedere loro qualcosa che non sapevano, e che anch’io ignoravo del tutto: che siamo mortali, che siamo sempre sottoposti a questi giochetti del destino, e che tutto può cambiare in un istante. Proprio per questo, dobbiamo dare alla vita il colore e la direzione che vogliamo. Dobbiamo capire fin da ora perchè stiamo passando di qui, trovare il nostro scopo e sentirlo fino in fondo.
É questo, più o meno, quello che ho cercato di dire al barbecue che ho organizzato qualche giorno dopo l’ospedale, per ringraziare tutti coloro che avevano sofferto d’insonnia insieme a me. Un po’ l’imbarazzo, un po’ il mio primo drink in 2 mesi, mi sa che non é venuto fuori molto bene.
Ma mi sa che loro hanno capito lo stesso.
L’altro giorno stavo tornando a casa dal lavoro. Era una serata già invernale, col vento che spazzava la pioggia, bagnando la spesa che mi trascinavo dietro e rischiando di spezzarmi l’ombrello. Il freddo mi era entrato nelle ossa. L’occhio buono, dopo ore al computer, era appannato. Uno di quei momenti in cui ti vorresti abbandonare ai piccoli lamenti, ahimè ahimè.
Poi ho pensato una cosa, e da allora il freddo e la pioggia non sono più esistiti. Ho ripreso il mio sorriso di adesso, quello vero, e non l’ho mollato fino a casa.
Ho pensato che dopo quell’inverno ci sarebbe stata un’altra primavera, e che io sarei stato lì ad aspettarla.
Era bello sapere di esserci per questo.
Era maledettamente bello.
(Ok, lo so che sono stato sdolcinato come poche volte, ma lasciatemelo fare...
Voglio dire grazie a tutti. Tutti quelli che ci sono stati, lì all’ospedale o attraverso numerosissimi messaggi, telefonate, email. Tutti quelli che si sono preoccupati, e che invece adesso si devono sorbire questo Zango per chissà quanto. Tutti quelli che hanno saputo dire le parole giuste, anche senza dire niente.
É stato bellissimo trovarvi al mio ritorno.
E grazie anche a tutti quelli che hanno avuto il barbaro coraggio di leggere questi tre post infiniti. Avevo bisogno di raccontare questa storia. Se pensate che mi sia lamentato, o che mi sia perso in chiacchiere, beh, ovviamente è vero. Ma è anche vero che per me era importante scriverne, e l’ho fatto.
Adesso riprendo possesso della mia solita stanza nell’Hotel Morgana. I bagagli possono aspettare. É tempo di andare giù al bar e ordinare un mojito.
Ci si vede lì.)
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