eh sono di nuovo qui, "un caffè e una bustina di zucchero di canna please=)"
il tizio al bancne del bar della hall mi fa simpatia...
presto con questo caffè, ti prego, devo svegliarmi, ho da studiare....
nella testa un vortice, eppure mi sento completamente vuota....
sono stati giorni pieni, ma in fondo nulla mi ha colpito particolarmente....
vivo in una bolla, asettica e sterile...
però è comoda, accogliente....
sarà che io cresco, loro crescono, e possibilmente non stiamo rescendo nella stessa direzione....
boh.... stato d'animo molto...."boh"....
non vedo l'ora che l'estate scoppi la mia bolla, e mi riporti alla realtà, meno comoda, ma comunque alla realtà....
tenete botta
ps grazie, il caffè era buonissimo
giovedì 30 giugno 2011
martedì 28 giugno 2011
Camere separate
Il libro comincia con un viaggio, e finisce con un altro viaggio. La persona che viaggia è Leo, il protagonista, che altri non è che l’autore, Pier Vittorio Tondelli. Per gli amici, Pier. E lui, Tondelli, ti viene subito da chiamarlo Pier.
Forse aveva ragione il giovane Holden: un libro vale qualcosa solo se, una volta finito, ti viene voglia di chiamare al telefono l’autore.
Personalmente, un colpo di telefono gliel’avrei fatto volentieri. Però Pier è morto, poco dopo questa libro, e anzi già in questo libro la morte ha una sua parte importante. Tra un viaggio e l’altro, tra mete e ritorni che si confondono e vogliono dire sempre qualcos’altro.
Non per niente, Leo sta scappando dalla morte. Da scrittore in crisi creativa, e da neo-trentenne in crisi esistenziale, si imbarca in un giro solitario per l’Europa. Non vuole vedere nessuno, non vuole parlare con nessuno, non vuole scrivere. Tutto è stato detto, per Leo. Qualche tempo prima ha assistito alla morte lenta di Thomas, suo compagno da qualche anno. Una storia che sembrava poco importante per tutti, tranne che per loro due.
Leo comincia a vagare, a spostarsi, a cercare e a non voler trovare. Come se fosse arrivato nel fondo, e ci si fosse adagiato. Tra una sosta e l’altra, ricorda la storia con Thomas. Lui giovane musicista, timido, insicuro, accanto a Leo scrittore affermato, già adulto, passionale e confuso. Leo ricorda gli scontri, le liti, il dolore e il loro essere obbligati a vivere in camere separate, non solo per la distanza tra Italia e Germania, ma anche per i loro diversi modi di intendere la vita e l’amore. Si scrivono lunghe lettere, e Leo piano piano comincia a far pace con quella parte di sè inquieta, allergica ai rapporti lunghi, bisognosa d’affetto ma cocciuta fino all’autodistruzione. Tutto, finchè Thomas muore e Leo comincia il suo blues che lo porta a viaggiare, a tornare sui suoi passi, a far visita anche ai suoi, nel borgo dal quale era fuggito anni prima.
Tutto questo è “Camere separate”, semplicemente uno dei migliori libri italiani che mi sono mai trovato tra le mani. L’ho letto, l’ho riletto e prima che me ne accorgessi avevo ricominciato per la terza volta. Conoscevo Pier, e sapevo che riusciva a cambiare completamente tono e stile ad ogni libro. Avevo molto apprezzato “Altri libertini”, il suo best-seller, 6 racconti scritti con crudezza e rabbia e che avevano fatto girare le palle ai censori dell’epoca. Avevo apprezzato meno altri libri, ma questo “Camere” è una storia a sè. E’ un libro maturo, per quel che cazzo può voler dire questo. Un libro di una persona che non si è mai lasciata in pace, che ha fatto a botte con sè stessa e adesso è in grado di mostrare lividi e cicatrici con orgoglio, perchè finalmente hanno anche loro un senso. Un romanzo compiuto, che sembra parlare solo di amore o solo di morte, e invece dentro trovi un mondo, un periodo storico, una voglia e una tristezza che non ti saresti aspettato.
Il tutto, in un linguaggio che mi avrebbe fatto alzare la cornetta per chiamarlo e dirgli –ehi Pier, figlio di puttana, alla fine ce l’hai fatta. Dopo aver sperimentato tanto, qui arriva ad una lingua sciolta, musicale, precisa come lama, che dice quello che deve dire senza farti perdere altro tempo. Una prosa come se ne trova raramente, e che andrebbe studiata per bene.
“Camere” è anche un ultimo libro. Pier se n’è andato quando aveva raggiunto il suo obiettivo. Sapeva già qualcosa del suo destino, che non lascia affiorare se non nelle ultime righe del libro. E questo aggiunge solo coraggio e bellezza, ad un’opera che già spiazza e consola.
Magari un colpo di telefono provo a farlo lo stesso, Pier. Intanto vado per la terza rilettura.
E voi, che cazzo state aspettando a farvi la prima?
lunedì 27 giugno 2011
sabato 25 giugno 2011
venerdì 24 giugno 2011
Seduto nel balcone
Sto seduto nel balcone, per terra, le gambe appena lavate che aderiscono alle piastrelle, vento caldo di giugno.
Penso a quando sono nato, quasi 32 anni fa. Mentre abbandonavo quel posto, senza sapere, pronto a caricarmi fatture e conti degli altri, una chiazza di grigio si formava sul soffitto della sala operatoria e poi silenziosamente usciva dalla finestra.
Quella chiazza di grigio, poi diventata nuvoletta, poi nuvola. Spesso, uragano. Mi sono portato dietro monsoni e burrasche. Forse per questo i giorni di sole erano rari, e molto apprezzati.
Sto seduto sul balcone, a leggere scrittori e storie di cui non m'importa niente, solo un altro modo per sprecare del tempo potenzialmente utile per il mio inserimento nel Mondo e nella Società.
La nuvola mi ha seguito in tutti gli spostamenti, nei viaggi brevi e in quelli lunghi, nei giorni dove gli altri andavano al mare, nelle notti in cui cercavo di vedere qualche stella.
Sto seduto nel balcone, accarezzandomi capelli lunghi e qualcuno di essi bianco, e penso solo alla mia bambina lontana, anche lei con le sue tempeste, lei che non meriterebbe nemmeno una pioggerella, di quella che quasi te la godi tanto sai che poi finisce. Ma a volte ci mette un po', a finire, e noi siamo lontani.
La nuvola assumeva forme diverse, diventando a volte quasi bianca, facendosi ispirazione, ansia da raccontastorie, entusiasmo dell'aver un percorso e qualcosa da dire, la fugace gioia di un'altra storia al pub, di un'altra birra, di un piccolo momento senza nuvole nere o grigie.
Sto seduto nel balcone e aspetto amici, loro verranno qui e mi portaranno qualcosa anche solo sedendosi con me nel balcone, e usciranno di qui reggendo un pezzo di questa nuvola, e io la loro. E a tutto questo daremo nome di una strana forma di amore e calore.
La nuvola a volta aderiva ai muri della stanza e allora cancellava le parole, i cosa farò da grande, disdiceva appuntamenti per me importanti, staccava il telefono, si metteva tra me e tutto il resto, e nella foschia camminavo con le braccia davanti finchè non mi perdevo completamente. Allora cominciava a piovere.
Sto seduto nel balcone, nel posto dove c'era la lettiera dei gatti e dove ora ci sono io, con la mia testa, dei pensieri da gennaio, del sonno arretrato e la consapevolezza che nessuno, vicino o lontano, potrà davvero dire o fare qualcosa che mi faccia rialzare, perchè oltre la ringhiera vedo quella nuvola che si rifà tempesta, le prime gocce si vengono a confondere nel mio viso, io non rientro e resto lì, seduto, a bermi la mia pioggia.
Penso a quando sono nato, quasi 32 anni fa. Mentre abbandonavo quel posto, senza sapere, pronto a caricarmi fatture e conti degli altri, una chiazza di grigio si formava sul soffitto della sala operatoria e poi silenziosamente usciva dalla finestra.
Quella chiazza di grigio, poi diventata nuvoletta, poi nuvola. Spesso, uragano. Mi sono portato dietro monsoni e burrasche. Forse per questo i giorni di sole erano rari, e molto apprezzati.
Sto seduto sul balcone, a leggere scrittori e storie di cui non m'importa niente, solo un altro modo per sprecare del tempo potenzialmente utile per il mio inserimento nel Mondo e nella Società.
La nuvola mi ha seguito in tutti gli spostamenti, nei viaggi brevi e in quelli lunghi, nei giorni dove gli altri andavano al mare, nelle notti in cui cercavo di vedere qualche stella.
Sto seduto nel balcone, accarezzandomi capelli lunghi e qualcuno di essi bianco, e penso solo alla mia bambina lontana, anche lei con le sue tempeste, lei che non meriterebbe nemmeno una pioggerella, di quella che quasi te la godi tanto sai che poi finisce. Ma a volte ci mette un po', a finire, e noi siamo lontani.
La nuvola assumeva forme diverse, diventando a volte quasi bianca, facendosi ispirazione, ansia da raccontastorie, entusiasmo dell'aver un percorso e qualcosa da dire, la fugace gioia di un'altra storia al pub, di un'altra birra, di un piccolo momento senza nuvole nere o grigie.
Sto seduto nel balcone e aspetto amici, loro verranno qui e mi portaranno qualcosa anche solo sedendosi con me nel balcone, e usciranno di qui reggendo un pezzo di questa nuvola, e io la loro. E a tutto questo daremo nome di una strana forma di amore e calore.
La nuvola a volta aderiva ai muri della stanza e allora cancellava le parole, i cosa farò da grande, disdiceva appuntamenti per me importanti, staccava il telefono, si metteva tra me e tutto il resto, e nella foschia camminavo con le braccia davanti finchè non mi perdevo completamente. Allora cominciava a piovere.
Sto seduto nel balcone, nel posto dove c'era la lettiera dei gatti e dove ora ci sono io, con la mia testa, dei pensieri da gennaio, del sonno arretrato e la consapevolezza che nessuno, vicino o lontano, potrà davvero dire o fare qualcosa che mi faccia rialzare, perchè oltre la ringhiera vedo quella nuvola che si rifà tempesta, le prime gocce si vengono a confondere nel mio viso, io non rientro e resto lì, seduto, a bermi la mia pioggia.
lunedì 20 giugno 2011
IL MOVIMENTO
C'è fermento stasera. Sento il vociare provenire dalla hall. Parole sempre più urlate, sconnesse. È successo qualcosa.
Ricordo qualche tempo fa, forse un anno, forse nemmeno. Il divano era lo stesso da cui ora sto scrivendo. Erano le due passate e non ricordo con cosa avevamo cenato, ma ricordo - oppure vado "a senso" - che ognuno di noi doveva avere in mano una birra. Parlavamo dei nostri tempi. Nostri di noi giovani. Che poi i tempi sono fatti di anni, eppure passano gli anni ma i tempi non sembrano cambiare. Maledetta clessidra che ci invecchia con insulsi granelli di sabbia tutti uguali fra loro.
Mi dici "Sai, ci vorrebbe un movimento".
Io resto zitto nella penombra, mi tengo stretta la birra.
"Un movimento, sì. Ogni epoca ha avuto il suo. Solo questa non ce l'ha. Giovani, intellettuali, non conta. Un movimento".
Dico che ormai nessuno dice più niente perché forse è già stato detto tutto, o forse perché tanto è inutile.
Ma forse - mi viene in mente al sentire queste parole gridate nella hall - non è così. Perché il movimento c'è. E la parola che mi viene in mente adesso, il nome più rappresentativo, è resistenza, RESISTENZA SOLIDALE. Che poi forse non è altro che l'amicizia, scritta solo un po' più lunga.
Resistiamo, ci facciamo forza. Puliamo la merda dal viso dell'altro e poco importa se alla fine ce ne resta un po' fra le mani. Avanziamo in qualcosa che è peggio del deserto, più letale dell'inferno. È la vita. Anche se non possiamo essere certi che l'avremmo fatta meglio, ci troviamo a spalare la merda che i nostri illustri padri - quelli che sanno tutto, quelli tutti d'un pezzo, quelli che ormai nessuno ha più le palle che avevano loro - hanno confezionato per noi.
Ma noi resistiamo. Stiamo uniti. Ci ascoltiamo, ci consigliamo, ci consoliamo, ci comprendiamo. Proviamo a fare qualcosa, a trovare gli uni la soluzione per gli altri di noi, nel nostro piccolo.
Il nostro piccolo movimento, che è l'unica parola che mi sembra utile per levarsi da questa merda che continua a arrivare. Un movimento che mi sembra l'unico modo per togliere di mezzo quei relitti immobili che continuano a spruzzare.
Ho cercato in frigo, la birra nemmeno c'è. Ma anche ne avessi una di marca migliore, adesso con me, non avrebbe quel buon sapore, autentico, di quella dell'anno scorso.
Ricordo qualche tempo fa, forse un anno, forse nemmeno. Il divano era lo stesso da cui ora sto scrivendo. Erano le due passate e non ricordo con cosa avevamo cenato, ma ricordo - oppure vado "a senso" - che ognuno di noi doveva avere in mano una birra. Parlavamo dei nostri tempi. Nostri di noi giovani. Che poi i tempi sono fatti di anni, eppure passano gli anni ma i tempi non sembrano cambiare. Maledetta clessidra che ci invecchia con insulsi granelli di sabbia tutti uguali fra loro.
Mi dici "Sai, ci vorrebbe un movimento".
Io resto zitto nella penombra, mi tengo stretta la birra.
"Un movimento, sì. Ogni epoca ha avuto il suo. Solo questa non ce l'ha. Giovani, intellettuali, non conta. Un movimento".
Dico che ormai nessuno dice più niente perché forse è già stato detto tutto, o forse perché tanto è inutile.
Ma forse - mi viene in mente al sentire queste parole gridate nella hall - non è così. Perché il movimento c'è. E la parola che mi viene in mente adesso, il nome più rappresentativo, è resistenza, RESISTENZA SOLIDALE. Che poi forse non è altro che l'amicizia, scritta solo un po' più lunga.
Resistiamo, ci facciamo forza. Puliamo la merda dal viso dell'altro e poco importa se alla fine ce ne resta un po' fra le mani. Avanziamo in qualcosa che è peggio del deserto, più letale dell'inferno. È la vita. Anche se non possiamo essere certi che l'avremmo fatta meglio, ci troviamo a spalare la merda che i nostri illustri padri - quelli che sanno tutto, quelli tutti d'un pezzo, quelli che ormai nessuno ha più le palle che avevano loro - hanno confezionato per noi.
Ma noi resistiamo. Stiamo uniti. Ci ascoltiamo, ci consigliamo, ci consoliamo, ci comprendiamo. Proviamo a fare qualcosa, a trovare gli uni la soluzione per gli altri di noi, nel nostro piccolo.
Il nostro piccolo movimento, che è l'unica parola che mi sembra utile per levarsi da questa merda che continua a arrivare. Un movimento che mi sembra l'unico modo per togliere di mezzo quei relitti immobili che continuano a spruzzare.
Ho cercato in frigo, la birra nemmeno c'è. Ma anche ne avessi una di marca migliore, adesso con me, non avrebbe quel buon sapore, autentico, di quella dell'anno scorso.
domenica 19 giugno 2011
Dimmi chi ti ha ridotta in questo Stato
Appena finito di vedere “Il Caimano”. Film abbastanza mediocre, confuso, con più voglia che idee.
Eppure ti porta lo stesso a pensare a lui. Voi del Morgana sapete che non amo parlare di politica, e di lui in particolare (vedi: 14 dicembre 2010), ma sarà per i miei scoramenti, sarà la serata, sarà la rabbia, ma stanotte non riesco a trattenermi come vorrei.
Semplicemente, non capisco come questo tizio abbia potuto prenderci per il culo così a lungo, senza che noi sospettassimo mai niente. Ci ha fatto il lavaggio del cervello? Davvero ci è entrato in casa con le sue televisioni, e ci ha fatto chiudere un occhio o –più spesso- tutti e due? Siamo stati davvero così tanto un Paese di furbetti, da permettere che uno scempio del genere potesse accaderci sotto gli occhi, e si ripetesse pure?
Il berlusconismo mi fa orrore. Peggio ancora, mi fa paura. Perchè è cieco, è sordo, spesso anche ignorante, e questa è stata la sua forza più grande. Non è stato mai un movimento politico nè sociale, ma forse più un fenomeno di costume di quelli che ti cambia la vita, come l’invenzione della lavatrice o del bidet, e non sai come si viveva prima. E prima, certo, non erano rose, ma queste qui sono ortiche, di quelle concimate spesso e volentieri.
Il berlusconismo mi fa paura e mi fa pena, perchè è come un rifiuto che cerca di smaltirsi da solo, un cadavere che ha ancora pensieri da vivo. Si è intrufolato in questo Paese già schizofrenico di suo, ed ha proliferato in un modo che, in un universo parallelo, ci farebbe anche ridere. Se non fosse che ci sono andate di mezzo le nostre vite. Le vite di tutti.
Il berlusconismo ci ha deviato le esistenze, le ha costrette ad un percorso che altrimenti non avrebbero seguito, e questo mi dà la nausea. Ha reso nulle tutte quelle regole –giuste o sbagliate- con le quali eravamo cresciuti. Ha mostrato come risibili tutte le alternative, anche le più creative o coraggiose. Ha fatto piazza pulita di quei valori che ancora si studiano sui libri di scuola, che sono ingialliti anche quando sono freschi di stampa.
Ha cancellato il futuro di intere generazioni, e lo ha fatto con un ghigno.
E’ per questo che ci siamo abbracciati tutti, con le ascelle sudate, il 17 marzo? L’unità, il Paese, Garibaldi, tutte quelle belle fregnacce? E’ per ascoltare quel bavoso farneticante del suo compare a reti unificate, come è successo oggi, che della gente è morta, e dell’altra si è beccata un giorno di vacanza 3 mesi fa?
Non voglio fare un comizio. Odio parlare di queste cose, ma stanotte mi traboccano dal cuore. Mi hai oscurato il cielo, e io non posso starmene zitto.
Tieniti strette le tue Publitalia, le tue Mediobanche, i tuoi giornali, i tuoi servi, le tue puttane. Tieniti le televisioni e le televendite. Tieniti le tue palle, la tua spazzatura, le tue furberie. Tieniti questo Paese, che hai costretto alla terapia intensiva.
Io non ho mai avuto niente da spartire con te o con quelli come te. Eppure tu mi hai cambiato il destino, in qualche modo. Penserò a te come ultima cosa, prima di lasciare questo Paese. A te che non sai nemmeno chi sono, e lo stesso mi hai peggiorato la vita. A te, che troverai sempre qualcuno che ti darà ragione, anche a costo di pagarlo, come fai con le tue mignotte.
Siamo stati fiancheggiatori, complici, silenziosamente consenzienti. Ma queste cose si pagano. Lo vediamo, e lo vedrete.
Come cantava De Andrè, “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.
Nessuno può tirarsi fuori. Siamo arrivati sul fondo e abbiamo scavato, e lo stesso siamo riusciti a tirare avanti in questa guerra giornaliera che ci siamo creati dal niente. Non siamo stati capaci di andare contro a questa marea di merda, e la merda ci ha investito. L’individuo e la massa si perdono, perchè qui perdono tutti tranne uno.
Un giorno, lo so, gli dedicheranno vie, viali, monumenti. C’è chi la chiama ancora democrazia. Forse, come dice Edoardo, questa terra doveva essere sventrata e conquistata da altri popoli secoli fa. Sarebbe andata meglio.
Peggio, comunque, era difficile.
L’ultimo pensiero su quell’aereo non sarà per i miei genitori, o per gli amici, ma solo per te. Per te, che su quell’aereo mi ci hai messo, senza neanche prenderti la briga di pagarmi il biglietto. Qualche persona illuminata (da chi, da Ferrara?) che conosco mi aveva detto che il Primo Ministro viene criticato solo nei Paesi del Terzo Mondo. Mi chiedo cosa siamo noi, oggi.
Quando mia nonna è nata, c’era già Mussolini. Quando è morta, c’era Berlusconi al potere.
Meritava molto di più.
E non era la sola.
Scoramenti
Ogni tanto mi prendono quelli che Pier Vittorio Tondelli definiva “scoramenti”. Sono quei momenti che capitano a chiunque, quando tutto sembra troppo, anche se solo per qualche istante. Un’onda scura si abbatte con violenza su sentimenti e idee, e si crea un piccolo cortocircuito del cuore. Nemmeno la mente è molto lucida, anche se continua a battere sempre sullo stesso punto.
Non so come si affrontano questi scoramenti. Per il lavoro che faccio (o meglio, che dovrei fare), so aiutare la gente a superare i propri. Ma io? Il guaritore si guarda la sua ferita e ne resta risucchiato. Così classico da far ridere.
Massì, capitano a tutti, e non intendo parlarne troppo. L’ultimo scoramento è qui nell’aria, e le vene pompano ancora quel misto di amarezza e nausea.
Ci sono maniere eleganti di tirarsi fuori da questi scoramenti, e altri più pragmatici. Tirare fuori le palle è una reazione più che sensata ad una situazione del genere. Solo che gli esseri umani sono molto meno sensati di quello che preferiscono credere. Non c’è conseguenzialità, non c’è un ordine preciso. Lo scoramento arriva e se ne va, dopo aver testato il nostro coraggio e la nostra sopportazione, dopo averci fatto spostare i nostri limiti un po’ più in qua o in là, e averci convinto che, una volta finiti, non torneranno più, almeno per un po’.
C’è chi ci beve sopra, chi vuole distrarsi in compagnia per non pensarci, chi si getta scientificamente su ogni piccolo dettaglio dello scoramento in atto. Chi fa finta di niente per evitarlo, e per cascare solo in uno scoramento un po’ più grande. Ognuno scelga il suo. Il mio direi che è un mix.
Lo stesso, non c’è niente di deprimente in tutto questo. Gli scoramenti fanno parte della vita, così come l’insonnia ci fa apprezzare anche una semplice notte di sonno. La completano, le danno un colore diverso. Respingerli sarebbe come togliere delle frasi al libro della nostra esistenza: senza, non si capisce più niente.
Certo che non sono granchè piacevoli. Arrivano e fanno cerchi nell’acqua che si allargano sempre più, e noi già rimpiangiamo la superficie piatta e noiosa di poco prima.
Che fare? Vorrei dirvi che passerà tutto, che andrà meglio. Che ce la faremo. Che tutto questo sarà solo ricordo.
Ma qui, nella mia stanza del Morgana, è il tramonto, e la camera si inonda di un arancione brillante, acceso, come se stesse andando a fuoco. Non sembra nemmeno possibile che tra poco sarà buio, e le ombre si mangeranno ogni cosa. Non voglio pensarci e mi concentro sull’arancione, vivo, avvolgente, allegro.
Non faccio promesse ma dico solo: tenetevi stretto quell’arancione lì.
Ci si vede più tardi nella hall.
Non so come si affrontano questi scoramenti. Per il lavoro che faccio (o meglio, che dovrei fare), so aiutare la gente a superare i propri. Ma io? Il guaritore si guarda la sua ferita e ne resta risucchiato. Così classico da far ridere.
Massì, capitano a tutti, e non intendo parlarne troppo. L’ultimo scoramento è qui nell’aria, e le vene pompano ancora quel misto di amarezza e nausea.
Ci sono maniere eleganti di tirarsi fuori da questi scoramenti, e altri più pragmatici. Tirare fuori le palle è una reazione più che sensata ad una situazione del genere. Solo che gli esseri umani sono molto meno sensati di quello che preferiscono credere. Non c’è conseguenzialità, non c’è un ordine preciso. Lo scoramento arriva e se ne va, dopo aver testato il nostro coraggio e la nostra sopportazione, dopo averci fatto spostare i nostri limiti un po’ più in qua o in là, e averci convinto che, una volta finiti, non torneranno più, almeno per un po’.
C’è chi ci beve sopra, chi vuole distrarsi in compagnia per non pensarci, chi si getta scientificamente su ogni piccolo dettaglio dello scoramento in atto. Chi fa finta di niente per evitarlo, e per cascare solo in uno scoramento un po’ più grande. Ognuno scelga il suo. Il mio direi che è un mix.
Lo stesso, non c’è niente di deprimente in tutto questo. Gli scoramenti fanno parte della vita, così come l’insonnia ci fa apprezzare anche una semplice notte di sonno. La completano, le danno un colore diverso. Respingerli sarebbe come togliere delle frasi al libro della nostra esistenza: senza, non si capisce più niente.
Certo che non sono granchè piacevoli. Arrivano e fanno cerchi nell’acqua che si allargano sempre più, e noi già rimpiangiamo la superficie piatta e noiosa di poco prima.
Che fare? Vorrei dirvi che passerà tutto, che andrà meglio. Che ce la faremo. Che tutto questo sarà solo ricordo.
Ma qui, nella mia stanza del Morgana, è il tramonto, e la camera si inonda di un arancione brillante, acceso, come se stesse andando a fuoco. Non sembra nemmeno possibile che tra poco sarà buio, e le ombre si mangeranno ogni cosa. Non voglio pensarci e mi concentro sull’arancione, vivo, avvolgente, allegro.
Non faccio promesse ma dico solo: tenetevi stretto quell’arancione lì.
Ci si vede più tardi nella hall.
Su facebook stanno tutti bene
Podrìa ser el tìtulo de un libro, se dicìa. En esta època, todo el mundo tiene prisa de hacer. Y también de estrechar amistades. Pues, el fb es la prueba que la relaciones sociales funcionan asì. No hace falta nada màs que preguntar a la gente como està que ya parece suficiente escuchar que "bien, estoy bien", para sentirnos satisfechos de la conversaciòn.
Es la primera vez que entento escribir en español aquì y lo hago principalmente porque aunque probablemente en la mayorìa de los casos ocurre lo que dicìa, ayer me ha parecido verdaderamente bueno hablar tramite el fb, porque es el ùnico medio que tengo para ponerme en contacto con Chema. Y en todas estas cosas, hablar con él me ha dado muchas ganas de sentirme como cuando estaba en Càdiz: màs cosmopolita de lo que soy.
Saber que el uso de la lingua escrita y la posibilidad de hablar istantaneamente con alguien a cientos Km de distancia es algo facil hoy en dìa, me hace serena.
Se puede riesgar de perder los recuerdos, ademàs de los contactos con las personas, màs dificilmente que en el pasado.
En estos meses he pensado muchas veces en como las cosas han cambiado en el ùltimo año. Y cada cambiamento me hace una persona màs consciente de sì misma y de sus aspiraciones. A lo mejor, todavia no sé donde estoy iendo. Pero seguro sé donde no quiero ir.
A lo mejor, hablar con alguien como Chema o Carolina, que aunque sean lejos de mì me parecen que sean presentes, me da cuenta que lo que pasa durante los años no va perdido. Siempre añade algo màs.
Y ya lo sé que son cosas que se saben y en que todo el mundo piensa, pero pensarlo en otra lingua parece que pueda fortalecerlo.
Es la primera vez que entento escribir en español aquì y lo hago principalmente porque aunque probablemente en la mayorìa de los casos ocurre lo que dicìa, ayer me ha parecido verdaderamente bueno hablar tramite el fb, porque es el ùnico medio que tengo para ponerme en contacto con Chema. Y en todas estas cosas, hablar con él me ha dado muchas ganas de sentirme como cuando estaba en Càdiz: màs cosmopolita de lo que soy.
Saber que el uso de la lingua escrita y la posibilidad de hablar istantaneamente con alguien a cientos Km de distancia es algo facil hoy en dìa, me hace serena.
Se puede riesgar de perder los recuerdos, ademàs de los contactos con las personas, màs dificilmente que en el pasado.
En estos meses he pensado muchas veces en como las cosas han cambiado en el ùltimo año. Y cada cambiamento me hace una persona màs consciente de sì misma y de sus aspiraciones. A lo mejor, todavia no sé donde estoy iendo. Pero seguro sé donde no quiero ir.
A lo mejor, hablar con alguien como Chema o Carolina, que aunque sean lejos de mì me parecen que sean presentes, me da cuenta que lo que pasa durante los años no va perdido. Siempre añade algo màs.
Y ya lo sé que son cosas que se saben y en que todo el mundo piensa, pero pensarlo en otra lingua parece que pueda fortalecerlo.
sabato 18 giugno 2011
Niente placche né groppi alla gola, solo prurito
Sto piangendo.
Anzi no, ma vorrei tanto farlo. Ieri una ragazza col mal di gola ha cambiato la mia giornata, mi ha svegliato da un torpore di origine lavorativa che non riuscivo a combattere. Non è stata un'esplosione e poi basta, non è durato il tempo di un lampo. Mi ha tenuto compagnia, semplicemente. E quando se n'è andata mi sono accorto di stare meglio. Ha pulito la polvere del vuoto che avevo sulla pelle. È strano come certa gente ci riesca, quasi involontariamente, quasi senza saperlo.
La sensazione del cambiamento, il bellissimo sbadiglio del risveglio. Nel momento stesso in cui l'ho avvertito, ero già pronto per vivere ancora di più, nonostante qualche minuto prima mi fosse venuta in mente la farse del titolo: né placche né groppi alla gola, solo prurito. Era prurito di vita, desiderio inascoltato di placche e di groppi a perdita d'occhio.
E in serata quel ragazzo di Big Sur, che ha provato così tanto a cambiare la sua terra, a trovarci un senso e una strada per sé, che con la sua fantasia le ha cambiato il nome. Le ha donato la sua poesia, i suoi anni, le sue parole e le sue lacrime. La terra indegna però l'ha rigettato, dopo averlo masticato, come un boccone dal sapore indigesto.
"Sto partendo", mi dice. E io ci metto qualche secondo prima di capirne la portata. Prima di intravedere quel dolore, quel senso di vuoto e di buio che in un attimo mi prende tra le braccia con sé.
Il paradosso di questa terra a forma di stivale, che odora di fogna dentro e fuori. Provare a calzarlo e non riuscirci, sentendosi persino più miseri dello stesso stivale.
I barbari dovevano bruciarla, questa serva, questa nave in tempesta senza nocchiere, questa troia oltre la cinquantina e tossicodipendente, ammalata e raggrinzita, che si veste in pelliccia per andare a sentir messa, facendo l'occhietto a vecchi impotenti che si sbavano sul cappotto.
Esistono madri che non meritano i figli che hanno, ma i figli sopportano, soffrono, penano per farsi apprezzare. Ma da chi? Da chi?
Ora lo sento. Sento le placche e sento il groppo. E sento ancora il prurito. Ora forse sto davvero piangendo.
Anzi no, ma vorrei tanto farlo. Ieri una ragazza col mal di gola ha cambiato la mia giornata, mi ha svegliato da un torpore di origine lavorativa che non riuscivo a combattere. Non è stata un'esplosione e poi basta, non è durato il tempo di un lampo. Mi ha tenuto compagnia, semplicemente. E quando se n'è andata mi sono accorto di stare meglio. Ha pulito la polvere del vuoto che avevo sulla pelle. È strano come certa gente ci riesca, quasi involontariamente, quasi senza saperlo.
La sensazione del cambiamento, il bellissimo sbadiglio del risveglio. Nel momento stesso in cui l'ho avvertito, ero già pronto per vivere ancora di più, nonostante qualche minuto prima mi fosse venuta in mente la farse del titolo: né placche né groppi alla gola, solo prurito. Era prurito di vita, desiderio inascoltato di placche e di groppi a perdita d'occhio.
E in serata quel ragazzo di Big Sur, che ha provato così tanto a cambiare la sua terra, a trovarci un senso e una strada per sé, che con la sua fantasia le ha cambiato il nome. Le ha donato la sua poesia, i suoi anni, le sue parole e le sue lacrime. La terra indegna però l'ha rigettato, dopo averlo masticato, come un boccone dal sapore indigesto.
"Sto partendo", mi dice. E io ci metto qualche secondo prima di capirne la portata. Prima di intravedere quel dolore, quel senso di vuoto e di buio che in un attimo mi prende tra le braccia con sé.
Il paradosso di questa terra a forma di stivale, che odora di fogna dentro e fuori. Provare a calzarlo e non riuscirci, sentendosi persino più miseri dello stesso stivale.
I barbari dovevano bruciarla, questa serva, questa nave in tempesta senza nocchiere, questa troia oltre la cinquantina e tossicodipendente, ammalata e raggrinzita, che si veste in pelliccia per andare a sentir messa, facendo l'occhietto a vecchi impotenti che si sbavano sul cappotto.
Esistono madri che non meritano i figli che hanno, ma i figli sopportano, soffrono, penano per farsi apprezzare. Ma da chi? Da chi?
Ora lo sento. Sento le placche e sento il groppo. E sento ancora il prurito. Ora forse sto davvero piangendo.
mercoledì 15 giugno 2011
In equilibrio PRECARIO e a fari spenti nella Notte
Ieri notte ci sono ricascato.
Tornavo da una cena con amici, ero in macchina da solo, ed è successo. Mi sono fatto un giro dei paesini in macchina, senza meta, tra strade vuote e spiagge deserte. Non mi succedeva da anni .
E’ stato strano, è stato diverso. Allora lo facevo per sentirmi vivo, per ritrovarmi in quel mondo in movimento, per respirare salsedine e stelle dal finestrino.
Stavolta avevo dei pensieri da portare in giro. Non sapevo che farne, e allora ho lasciato che fosse la strada a decidere per me. La linea bianca scandiva il ritmo dei miei casini, ora intermittente, ora continua.
Mi sentivo un precario, ieri notte. Un precario della vita, come molti di quelli che conosco. Mi sentivo a metà, senza un progetto, senza piano B, senza soluzioni. Mi sentivo senza rete di sicurezza, mi sentivo pressato, mi sentivo confuso.
Soprattutto, mi sentivo stanco.
E così sono andato. Ho fatto andare lo stereo e mi sono fatto passare davanti agli occhi incroci e stazioni, e poi tutte le persone con cui ho parlato in questi giorni, e tutti a dirmi qualcosa, a cercare di darmi un loro pensiero, ma anche loro sono precari della vita, e ognuno ha i suoi casini da gestire. E’ questa la grande fregatura. A volte, tutto quello che possiamo fare è darci una pacca sulla spalla e berci sopra, in un silenzio che dice tutto.
Ho pensato e ripensato alle parole di tutti, e poi alla realtà che cancella ragioni e torti e vuole solo che si saldi il suo conto. La Realtà, lei, è l’unica prostituta che non vedo in queste strade notturne.
State certi però che, se l’avessi incontrata, non l’avrei mai fatta salire in macchina. Non guadagno così tanto. Sono un precario, io.
Con la macchina sono tornato nei soliti posti, cercando di capire cosa sentivo. In ogni strada un ricordo, e per ogni ricordo qualcosa da far ballare e qualcosa da mandare a dormire. Ho sentito che ero cresciuto, da allora, che ero cambiato, ma che tutto questo alla fine contava poco, perchè sei sempre un pivello, in confronto ai nuovi casini che la vita ti costringe a guardare negli occhi.
Ho spento lo stereo e, passando accanto ad una spiaggia dove ero stato nudo molti anni prima, ho cercato di essere onesto con me stesso e con gli altri precari come me, e mi sono detto che sono fortunato, che ho delle cose con me che in quelle Notti nemmeno mi sognavo, che è una guerra sempre, ma ogni tanto una bella scopata e un bicchiere in pace te li riesci anche a fare. E che cazzo.
Mi sono fermato in un lungomare che conoscevo bene. Non c’era nessuno. Forse è l’età, pensavo, forse è questo essere precari. Ho attraversato notti e giungle, ho dormito in posti che non sapevo come c’ero finito, e cose così sono state la mia scuola. Ma ora è tempo di finirla, quella scuola, e di farne qualcosa con quello che ho imparato. Una delle cose che ti consigliano sempre, per restare vivo e creativo, è finire quello che hai cominciato. Io ho finito pochissime cose, nella mia vita.
Ma ora mi sono rotto il cazzo.
Poi sono tornato a casa. Non era ancora l’alba, ma non mi andava più di girare. Ho acceso il computer, e lì ho letto la notizia di quel ministro nano che insultava i precari, quelli veri.
Ho riletto la notizia, restando stranamente sbalordito. Poi ho spento tutto e mi sono messo a letto, ingoiato dal buio di una Notte nella quale non sono l’unico a girare senza meta.
Purtroppo.
Buon giro a tutti i Precari, di qualunque tipo.
Ci si rivede nella Notte.
Ci sono persone convinte di non meritare l’amore, loro si allonatanano in silenzio dentro spazi vuoti cercando di chiudere le brecce al passato…
domenica 12 giugno 2011
sabato 11 giugno 2011
Dacci oggi il nostro senso di colpa quotidiano
Dacci il motore, la sua
scintilla divina
dacci il copione
una base su cui lavorare
dacci del dolore
che non ci riusciremo
mai
a spiegare
Noi saremo qui
ad aspettare
ad incassare
a camminare su quel
prato proibito
ingoiando erba e fiori
che non ci spettano
godendo
per ogni singolo
boccone
Pagheremo tutto
dieci volte il suo
valore
Nel frattempo
lasciateci mangiare
queste
rose.
Marco Zangari © 2011
scintilla divina
dacci il copione
una base su cui lavorare
dacci del dolore
che non ci riusciremo
mai
a spiegare
Noi saremo qui
ad aspettare
ad incassare
a camminare su quel
prato proibito
ingoiando erba e fiori
che non ci spettano
godendo
per ogni singolo
boccone
Pagheremo tutto
dieci volte il suo
valore
Nel frattempo
lasciateci mangiare
queste
rose.
Marco Zangari © 2011
mercoledì 8 giugno 2011
Io & Big Sur
guardo dalla finestra
mentre sostengo sulle mie
spalle
tutto il peso del mare
dell’orizzonte
dei miei pensieri di
sale
apro una birra e
chiudo gli occhi
mentre il sole illumina tutto
tranne me
quel me che sono venuto
a cercare
tra rottami, scogliere, promesse
e pattumiere
quel me che nessuno
sa o può vedere
per colpa del sole
e del muovermi veloce
quel vento che s’infila
nei colli
di bottiglie
abbandonate nei prati
e crea sinfonie
che si perdono
nel
vuoto.
Marco Zangari © 2011
mentre sostengo sulle mie
spalle
tutto il peso del mare
dell’orizzonte
dei miei pensieri di
sale
apro una birra e
chiudo gli occhi
mentre il sole illumina tutto
tranne me
quel me che sono venuto
a cercare
tra rottami, scogliere, promesse
e pattumiere
quel me che nessuno
sa o può vedere
per colpa del sole
e del muovermi veloce
quel vento che s’infila
nei colli
di bottiglie
abbandonate nei prati
e crea sinfonie
che si perdono
nel
vuoto.
Marco Zangari © 2011
domenica 5 giugno 2011
Dj nella notte
Sono quasi le 3 del mattino e qui è il vostro dj del Morgana a tenervi compagnia, a tenersi e tenervi su con del rock che non dispiace mai, con del blues, con qualsiasi cosa abbia sangue che pompa nelle vene.
Sono quasi le 3 e cazzo, sì, io odio i dj e le loro voci felici anche quando non c'è un cazzo da essere felici, le loro voci perfette, le risate finte ed esagerate, il buonumore sempre sempre sempre, un po' come quelle persone odiose che ridono in TUTTE le foto, però vaffanculo, stasera sono il vostro dj, e così mi dovete prendere.
Sono quasi le 3 del mattino e mentre parte un altro pezzo ("Where's my mind" dei Pixies, se proprio volete saperlo), voglio dirvi che sto bene.
O meglio.
Non sto bene neanche un po'. Non c'è un cazzo che vada. Però mi trovo in un momento in cui tutte queste cose in bilico, questi conti in sospeso e case in costruzione si trovano in perfetto equilibrio. Roba che può durare minuti, anche secondi, che potrebbe anche non arrivare alle tre del mattino, ma chi se ne fotte, finchè c'è la tocchiamo, la palpiamo, la respiriamo e ce la godiamo fino in fondo.
Sono quasi le tre e il vostro dj è perfettamente felice nella sua infelicità, completo nella sua totale sospensione, un numero pieno in un cielo di zeri. Sono una macchia sul vestito, una virgola sfuggita al conteggio, una regola impazzita di cui nessuna si è reso conto.
Sono le tre del mattino in questo momento, e mentre parte "No Surprises" dei Radiohead mi tocco la barba, ascolto la notte di mare là fuori e penso che in questo momento sono una centrale nucleare in fiamme, sono uno splendido errore, qualcosa che non ha ragione di essere ma è lo stesso, e cazzi vostri, sono uno sporcaccione in smoking, un vagabondo con la tunica da Papa, un gentiluomo con una lattina di birra in mano, un turista che ha deciso solo di perdersi per non tornare più.
Sono passate da poco le tre del mattino e come vostro dj posso solo mettere altra musica, ma non so spiegarvi altro. Non so dirvi perchè sto scrivendo questo, perchè voi lo leggerete, perchè siamo tutti qui su questo pianeta caldo e folle a fare (finta di fare) quello che facciamo. Abbiamo maschere che dobbiamo portare avanti, profili di Facebook e demoni nascosti, e forse stasera ho solo deciso di fottermene di tutto. Domani mattina ricominceranno i casini, le tensioni, le cose da fare, gli obbiettivi impossibili e quelli quasi, le liti, i vaffanculo, gli stronzi in doppia fila nelle nostre strade, dove la fortuna si gioca tutta nel giro di un parcheggio. Domani torneranno le scadenze, le sveglie presto, i pasti a certe ore, quelle ore stitiche, asciutte, quelle ore mestruate che non sanno di niente e ti dici- domani, dopodomani, venerdì, quest'estate. Domani ricomincerà quel casino che qualcuno potrebbe scambiare per la mia vita.
Domani, ma intanto stanotte sono il vostro dj. Il pezzo dei Radiohead finisce, e mentre mi sento un po' Jack Folla, un po' ubriaco, un po' scheggia impazzita in questo sistema di calcoli, profitti e perdite, mi tocco il pacco e lascio che l'aria calda di giugno mi passi addosso, mi accarezzi, mi faccia diventare un tutto con questa musica ora allegra, ora triste, ora incazzata, ora semplicemente note e parole che sono tatuaggi sulle mie ossa senza bisogno di destinazioni.
Domani la gente perbene si sveglierà, farà colazione, andrà a messa, preparerà pranzi di famiglia.
Ancora, però, è notte, e la notte è il pezzo finale che dedico solo a me stesso.
E va bene, la dedico anche a voi. Che il frigobar del Morgana sia con voi.
Io vado avanti.
C'è ancora tempo per domani...
Sono quasi le 3 e cazzo, sì, io odio i dj e le loro voci felici anche quando non c'è un cazzo da essere felici, le loro voci perfette, le risate finte ed esagerate, il buonumore sempre sempre sempre, un po' come quelle persone odiose che ridono in TUTTE le foto, però vaffanculo, stasera sono il vostro dj, e così mi dovete prendere.
Sono quasi le 3 del mattino e mentre parte un altro pezzo ("Where's my mind" dei Pixies, se proprio volete saperlo), voglio dirvi che sto bene.
O meglio.
Non sto bene neanche un po'. Non c'è un cazzo che vada. Però mi trovo in un momento in cui tutte queste cose in bilico, questi conti in sospeso e case in costruzione si trovano in perfetto equilibrio. Roba che può durare minuti, anche secondi, che potrebbe anche non arrivare alle tre del mattino, ma chi se ne fotte, finchè c'è la tocchiamo, la palpiamo, la respiriamo e ce la godiamo fino in fondo.
Sono quasi le tre e il vostro dj è perfettamente felice nella sua infelicità, completo nella sua totale sospensione, un numero pieno in un cielo di zeri. Sono una macchia sul vestito, una virgola sfuggita al conteggio, una regola impazzita di cui nessuna si è reso conto.
Sono le tre del mattino in questo momento, e mentre parte "No Surprises" dei Radiohead mi tocco la barba, ascolto la notte di mare là fuori e penso che in questo momento sono una centrale nucleare in fiamme, sono uno splendido errore, qualcosa che non ha ragione di essere ma è lo stesso, e cazzi vostri, sono uno sporcaccione in smoking, un vagabondo con la tunica da Papa, un gentiluomo con una lattina di birra in mano, un turista che ha deciso solo di perdersi per non tornare più.
Sono passate da poco le tre del mattino e come vostro dj posso solo mettere altra musica, ma non so spiegarvi altro. Non so dirvi perchè sto scrivendo questo, perchè voi lo leggerete, perchè siamo tutti qui su questo pianeta caldo e folle a fare (finta di fare) quello che facciamo. Abbiamo maschere che dobbiamo portare avanti, profili di Facebook e demoni nascosti, e forse stasera ho solo deciso di fottermene di tutto. Domani mattina ricominceranno i casini, le tensioni, le cose da fare, gli obbiettivi impossibili e quelli quasi, le liti, i vaffanculo, gli stronzi in doppia fila nelle nostre strade, dove la fortuna si gioca tutta nel giro di un parcheggio. Domani torneranno le scadenze, le sveglie presto, i pasti a certe ore, quelle ore stitiche, asciutte, quelle ore mestruate che non sanno di niente e ti dici- domani, dopodomani, venerdì, quest'estate. Domani ricomincerà quel casino che qualcuno potrebbe scambiare per la mia vita.
Domani, ma intanto stanotte sono il vostro dj. Il pezzo dei Radiohead finisce, e mentre mi sento un po' Jack Folla, un po' ubriaco, un po' scheggia impazzita in questo sistema di calcoli, profitti e perdite, mi tocco il pacco e lascio che l'aria calda di giugno mi passi addosso, mi accarezzi, mi faccia diventare un tutto con questa musica ora allegra, ora triste, ora incazzata, ora semplicemente note e parole che sono tatuaggi sulle mie ossa senza bisogno di destinazioni.
Domani la gente perbene si sveglierà, farà colazione, andrà a messa, preparerà pranzi di famiglia.
Ancora, però, è notte, e la notte è il pezzo finale che dedico solo a me stesso.
E va bene, la dedico anche a voi. Che il frigobar del Morgana sia con voi.
Io vado avanti.
C'è ancora tempo per domani...
mercoledì 1 giugno 2011
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