mercoledì 28 ottobre 2009

Di corsa piano piano

Così diceva mio nonno buon'anima, che forse non c'era mai salito sulla metropolitana.

Io invece lo faccio spesso.
Coi tempi che sono cambiati, con le linee che sono diventate due e pensano a raddoppiarsi entro breve. Coi parcheggi che lì sopra sono finiti, con le strade che tra ingorghi e semafori non trovi posto nemmeno a camminarci in punta di piedi.

Io la metro la prendo spesso.
Nonostante abbia le sue pecche, come ogni altro servizio urbano di Roma, riconosco che per i tempi di percorrenza valga almeno il prezzo del biglietto (quello dell'autobus dovrebbe invece essere dimezzato).

Ci siamo chiusi in spazi sempre più piccoli e li abbiamo resi affollati come formicai. Sottoterra, specie nelle fermate più importanti, la sensazione di soffocamento e confusione è in grado di disorientare anche il più esperto metro-viaggiatore, talvolta.

Tutti in fila a sgomitare per entrare per primi, per accaparrarsi uno dei pochi posti a sedere rimasti in palio. Sgomitare con chi li brama come e più di noi, sgomitare con chi invece abbandona il vagone felice di "aver già dato".
Ma non è detto che per lui sia finita. Non è affatto detto che sia salvo.
Ora forse deve correre in superficie, deve uscire a riveder le stelle a tempo di record, prima che il suo appuntamento sfumi nel nulla rendendo inutile tanto affanno.
Altri si cercano, e forse a loro non basterà ritrovarsi tra la folla per tornare a stringersi la mano.
Altri ancora avanzano senza piglio e senza vita, come fossero anime in marcia verso l'attracco del malevolo traghetto.

Io invece voglio solo correre.
Per allontanarmi da quell'inferno, per fuggire via lontano verso l'aria esterna che sarà pur sempre sporca ma almeno anche più viva.
Scatto tra quegli spettri, ne scarto due o tre alla volta tra un "permesso" e uno "scusi". Saltello tra i non morti, zompetto agile e un po' sudato tra gli zombi.

Poi però mi fermo, di colpo.
Una decina di persone deviano il flusso di spiriti come una specie di promontorio.
Nel gruppo, che cerca di non perdersi come un trombo nella circolazione, dei ragazzi down.

E io, che voglio solo correre, rallento con calma e aspetto.
Capisco.
Ma da dietro uno spirito appena superato mi rivela una sua insospettata consistenza fisica.
Muscoli, ossa. Carne.
Mi urta per trovare un varco ai margini del promontorio, mi spinge contro quel gruppo di persone circondate dall'inferno.
I ragazzi sono confusi e spaventati, e io finisco praticamente in mezzo a loro.
A parte per lo sguardo e il cappellino che io non porto, non sono affatto diverso.
Anche loro vorrebbero solo correre, scappare. Solo che hanno bisogno di qualcuno che li aiuti.
Commento amaramente la spinta di quel morto vivente, scusandomi per aver impattato contro alcuni di loro. E loro hanno la forza di sorridermi.
E in quell'inferno di ribollente magma, di romboanti suoni metallici, di anime intente a andare piano verso una morte che si rinnova ogni giorno, il tempo si ferma.
E filtra una luce, fatta di simpatici sguardi sorridenti.

Dura un attimo, ma la ricorderò per sempre.
Riprendo la mia strada, in salita verso le stelle.

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