venerdì 20 maggio 2011

Giocatori, gatti, haiku


Tutto così, come mi viene.
Stare a Big Sur significa sveglia tardi, occhieggiare il mattino là fuori, vedere se il mare è agitato, come il vento fa piegare gli ulivi della campagna. Significa nessun rumore, cielo blu e sole, significa fare quello che ti pare delle tue ore, del tuo oggi, del tuo domani e del tuo dopodomani. Significa sedere e riuscire a vedere un monte Hozomeen, lontano, che guarda come se tutto questo fosse solo uno scherzo.
Davanti al monte Hozomeen ho seppellito un gatto. Era morto proprio nel mio giardino. Le mosche gli mangiavano gli occhi. Ho preso una pala e ho scoperto che un corpo morto ha un peso consistente. Mi chiedevo, ma se ha perso l’anima, non dovrebbe essere più leggero?
L’anima ci sembra una cosa impalpabile, che c’è e non c’è. La usiamo nelle poesie, nelle liturgie, e in tante altre fregnacce.
Quel gatto lì non so se avesse avuto mai un’anima. Non so nemmeno se l’ho avuta io. Però era pesante, e rigido. Farlo entrare in quel sacco nero era un’impresa.

La morte la vita e Big Sur. Qui siamo tutti bevute, sorrisi, occhiali da sole e pose da rockstar. Qui le donne vengono e ci guardano come non guardano mai i loro ragazzi. Il sole ci fa pensare ad un’estate che non è mai andata via.

Uno dei miei film preferiti è “Il giocatore”, con Matt Damon. Quello sul poker. Me l’ha ricordato un mio amico, che ora si sveglia mentre io porto avanti la mia notte infinita. Lo guardavamo spesso insieme.
E ho pensato che a volte è così. Ti fai due conti, e capisci che il pollo da spennare al tavolo sei proprio tu.
A volte ti lasci confondere da un sogno più grande e perdi di controllo la situazione, la mano, tutta la posta.
A volte ti vengono in mente solo le tue sconfitte, anche se ci sono state tante vittorie.
E pensi che non puoi perdere quello che non punti.
Però non puoi neanche vincere.

Il gatto alla fine cadeva in fondo al sacco nero. Il rumore ti scuoteva il fondo dello stomaco. Ma noi abbronzati, noi stanchi, noi sorridenti di Big Sur lo portavamo al bidone, e lì aspettavamo che un’altra creatura di Dio finisse il suo percorso. Che senso ha avuto la sua vita? Che senso c’era in questa storia?
Nessuno, probabilmente. Per questo, con testa molle, vuota, strana, sono andato dentro, mi sono lavato le mani e ho stappato una birra. Avevo un sapore strano in bocca da lavare via. Il gatto era andato, io ero ancora lì
in uno strano
luminoso haiku
che non aveva alcun senso
ma la birra scendeva bene e il crepuscolo scendeva, e mentre il gatto si irrigidiva nel sacco nero mi veniva un sorrisetto pazzo, uno alla Jack Nicholson in Shining per intenderci, ma anche benevolo, come il tizio di Don’t worry Be happy, e pensavo ai sacchi neri, ai tramonti, alle cose da fare, e sì, è tutta una partita del cazzo, e a volte devi sederti a quel tavolo fottendotene dei soldi, col solo obiettivo di battere il tuo avversario, e più è tosto e più la cosa ti stuzzica. Sederti al tavolo coi peggiori figli di puttana, ed uscirne in qualche modo vivo. Quanti possono dire di averlo fatto?
Il gatto forse no, ma io sì.
Che poi magari puoi farcela anche bluffando, ma quello è anche meglio. Li hai fottuti. Loro potranno sempre ammazzarti, ma quello che gli hai fatto tu, non poteva farglielo nessun altro.
E i soldi, baby, non c’entrano niente.
Quindi sii te stesso, credici, non cambiare una virgola, sii sporco e santo, siediti a quel tavolo, e fai quel che sai.
E cerca anche di non finire in un saccone nero.
C’è tempo.

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