Quando l’aereo si alza in volo, sto dormendo. Sono state troppe le emozioni, nei giorni precedenti, e troppo poco il sonno. Quando mi risveglio, davanti a me c’è il mega-schermo che indica a che ora siamo partiti, dove siamo diretti e quanto tempo impiegheremo ad arrivarci. Questa è una di quelle cose da evitare, in un viaggio del genere. Mai pensare a quanto manca. Per mia distrazione non ho nemmeno un orologio, e alla fine penso sia meglio così.
Mi risveglio nel viola soffuso dell’aereo della Thai. Le hostess avvolte da grandi foulard colorati e gli steward, vestiti come pinguini, cominciano ad agitarsi, a correre lungo i corridoi. Ci portano il primo giro di bevande. Io vado per un aranciata. Sono in un doposbronza micidiale. Il mio è un esperimento: sopravvivere ad un volo di 26 ore in queste condizioni. Inoltre, è dannatamente rock.
Hostess e steward continuano a correre come dannati, noccioline, strane palle bianche che si rivelano essere fazzoletti a temperature vulcaniche, ancora da bere, tutti che ci danno sotto, whisky e cocktail dappertutto, portano il pranzo e allora non resisto più, prendo anch’io del vino bianco thailandese che sa di medicinale. Dopo il pranzo, ci portano anche del cognac. A quel punto, dopo che ci hanno riempito di cibo e alcol, ci spengono le luci e ci mettono un film. Tutti ci sistemiamo più comodi sulle poltrone, accettando benvolentieri questa regressione verso l’infanzia. Da qui a quando atterreremo, nessuno di noi farà più parte del mondo degli adulti. Per quello, c’è la signorina col foulard.
Dopo un altro sonnellino, un terribile film che si rivela essere un remake hip-hop di "La finestra sul cortile" di Hitchcock e un po’ di pigra lettura provo a parlare un po’ coi miei vicini di sedia –la tipica coppia italiana che va in viaggio di nozze a Bali, lui subnormale, lei di più, che ridono a voce alta per un film demenziale, incapaci di dire grazie o di essere gentili in alcun modo. Visto che sto abbandonando quel paese, non vedo perché fare quest’ultima fatica. Mi lascio scivolare tra Kerouac e Fante, e qualche saltuario appisolamento. Quando guardo di nuovo dal finestrino vedo che stiamo fuggendo dal tramonto, dritti dritti verso il buio fitto. Non so più che ore sono, dentro e fuori. L’unico contatto con la realtà –e anche la cosa più bella di tutte- è il mega-schermo che, tra un pessimo film e l’altro, indica la posizione dell’aereo. Così scopro magicamente che il mio culo in quel momento sta sorvolando Kabul. L’Himalaya. L’India. Solo 8 giorni fa ero nel Bucodiculo, e adesso volo attraverso l’Asia su paesi che non mi sembravano nemmeno esistere al di fuori di fiabe e telegiornali. È una sensazione troppo bella per chi ha il viaggio nel sangue.
All’Australia non voglio pensare. So solo, vagamente, che arriveremo a Bangkok, prima o poi.
Ci arriviamo appena dopo l’ennesimo pasto della giornata (giornata?), e lì mi trovo a percorrere chilometri col mio bagaglio a mano pesante 18 chili (peso consentito: 7 chili), fino al terminal che, come potete ammirare nella foto, è caratteristico –per usare un eufemismo. Lì un indiano col turbante mi squadra il passaporto più e più volte, lo legge, lo ingrandisce. Non lo convinco proprio. Brutta faccia. Alla fine mi fa passare, e mi unisco agli altri. Salgo sull’aereo, leggermente emozionato. Facce stanche, facce da alba, facce contente. Accanto a me c’è un tizio, e non è difficile capire da dove arrivi. Parliamo un po’. Gli chiedo se è di Sydney. E lui "No, mate! Going to Brisbane, mate!".
Meraviglioso, penso.
Stavolta si fa sul serio. Comincio a pensare che veramente, cazzo, arriverò in Australia. È troppo. Quando passa l’hostess mi faccio mettere davanti un Jack Daniels con ghiaccio. Appena butto giù la prima sorsata, ci siamo: il mega-schermo dice che, dopo aver volato sull’Indonesia, attraverso l’Oceano Indiano e tutte le isole e isolette del caso, siamo ufficialmente in Australia. Di più: siamo già sul deserto australiano, non molto distante da Uluru. Inutile dire che butto subito giù un’altra sorsata, e gli occhi mi diventano come più brillanti. Il cuore batte all’impazzata e un sorriso scemo, rinforzato anche da un altro Jack e un bicchiere di vino, mi si pianta in faccia e non va più via finchè non tocchiamo terra. Esco dall’aereo mezzo sbronzo. Mi sembra un buon inizio.
Appena metto piede fuori, la sbronza mi passa. Ho viaggiato per un giorno intero, ho perso ogni cognizione di luogo e data, eppure passa subito anche questo. Sono davvero in Australia. Io, in Australia. Dio. Solo adesso mi rendo conto che non cammino ma sto CORRENDO verso l’uscita.
Al controllo passaporti la tizia mi chiede se è la mia prima volta in Australia. Dico di sì, e spero non sia l’ultima. Lo spero anch’io, fa lei, in quel misto di ironia e cordialità tipicamente australiana che amo da subito. Anche la donna al controllo visti è altrettanto gentile, e la cosa mi sembra amplificata dal fatto che sono le nove di sera passate. Sono al settimo cielo. Prendo subito la mia valigia e, trasportando qualcosa come 40 chili come un bue, vado alla dogana, l’ultimo passo. Spero non mi facciano storie, perché qui non scherzano affatto. La donna mi fa qualche domanda, io rispondo, mi giustifico, lei sorride e dice, no worries, passa pure. Vorrei abbracciarla. Vorrei stringerla. Vorrei piangere.
Invece rido, e corro. Corro verso l’uscita, senza mai smettere di ridere.
Mi risveglio nel viola soffuso dell’aereo della Thai. Le hostess avvolte da grandi foulard colorati e gli steward, vestiti come pinguini, cominciano ad agitarsi, a correre lungo i corridoi. Ci portano il primo giro di bevande. Io vado per un aranciata. Sono in un doposbronza micidiale. Il mio è un esperimento: sopravvivere ad un volo di 26 ore in queste condizioni. Inoltre, è dannatamente rock.
Hostess e steward continuano a correre come dannati, noccioline, strane palle bianche che si rivelano essere fazzoletti a temperature vulcaniche, ancora da bere, tutti che ci danno sotto, whisky e cocktail dappertutto, portano il pranzo e allora non resisto più, prendo anch’io del vino bianco thailandese che sa di medicinale. Dopo il pranzo, ci portano anche del cognac. A quel punto, dopo che ci hanno riempito di cibo e alcol, ci spengono le luci e ci mettono un film. Tutti ci sistemiamo più comodi sulle poltrone, accettando benvolentieri questa regressione verso l’infanzia. Da qui a quando atterreremo, nessuno di noi farà più parte del mondo degli adulti. Per quello, c’è la signorina col foulard.
Dopo un altro sonnellino, un terribile film che si rivela essere un remake hip-hop di "La finestra sul cortile" di Hitchcock e un po’ di pigra lettura provo a parlare un po’ coi miei vicini di sedia –la tipica coppia italiana che va in viaggio di nozze a Bali, lui subnormale, lei di più, che ridono a voce alta per un film demenziale, incapaci di dire grazie o di essere gentili in alcun modo. Visto che sto abbandonando quel paese, non vedo perché fare quest’ultima fatica. Mi lascio scivolare tra Kerouac e Fante, e qualche saltuario appisolamento. Quando guardo di nuovo dal finestrino vedo che stiamo fuggendo dal tramonto, dritti dritti verso il buio fitto. Non so più che ore sono, dentro e fuori. L’unico contatto con la realtà –e anche la cosa più bella di tutte- è il mega-schermo che, tra un pessimo film e l’altro, indica la posizione dell’aereo. Così scopro magicamente che il mio culo in quel momento sta sorvolando Kabul. L’Himalaya. L’India. Solo 8 giorni fa ero nel Bucodiculo, e adesso volo attraverso l’Asia su paesi che non mi sembravano nemmeno esistere al di fuori di fiabe e telegiornali. È una sensazione troppo bella per chi ha il viaggio nel sangue.
All’Australia non voglio pensare. So solo, vagamente, che arriveremo a Bangkok, prima o poi.
Ci arriviamo appena dopo l’ennesimo pasto della giornata (giornata?), e lì mi trovo a percorrere chilometri col mio bagaglio a mano pesante 18 chili (peso consentito: 7 chili), fino al terminal che, come potete ammirare nella foto, è caratteristico –per usare un eufemismo. Lì un indiano col turbante mi squadra il passaporto più e più volte, lo legge, lo ingrandisce. Non lo convinco proprio. Brutta faccia. Alla fine mi fa passare, e mi unisco agli altri. Salgo sull’aereo, leggermente emozionato. Facce stanche, facce da alba, facce contente. Accanto a me c’è un tizio, e non è difficile capire da dove arrivi. Parliamo un po’. Gli chiedo se è di Sydney. E lui "No, mate! Going to Brisbane, mate!".
Meraviglioso, penso.
Stavolta si fa sul serio. Comincio a pensare che veramente, cazzo, arriverò in Australia. È troppo. Quando passa l’hostess mi faccio mettere davanti un Jack Daniels con ghiaccio. Appena butto giù la prima sorsata, ci siamo: il mega-schermo dice che, dopo aver volato sull’Indonesia, attraverso l’Oceano Indiano e tutte le isole e isolette del caso, siamo ufficialmente in Australia. Di più: siamo già sul deserto australiano, non molto distante da Uluru. Inutile dire che butto subito giù un’altra sorsata, e gli occhi mi diventano come più brillanti. Il cuore batte all’impazzata e un sorriso scemo, rinforzato anche da un altro Jack e un bicchiere di vino, mi si pianta in faccia e non va più via finchè non tocchiamo terra. Esco dall’aereo mezzo sbronzo. Mi sembra un buon inizio.
Appena metto piede fuori, la sbronza mi passa. Ho viaggiato per un giorno intero, ho perso ogni cognizione di luogo e data, eppure passa subito anche questo. Sono davvero in Australia. Io, in Australia. Dio. Solo adesso mi rendo conto che non cammino ma sto CORRENDO verso l’uscita.
Al controllo passaporti la tizia mi chiede se è la mia prima volta in Australia. Dico di sì, e spero non sia l’ultima. Lo spero anch’io, fa lei, in quel misto di ironia e cordialità tipicamente australiana che amo da subito. Anche la donna al controllo visti è altrettanto gentile, e la cosa mi sembra amplificata dal fatto che sono le nove di sera passate. Sono al settimo cielo. Prendo subito la mia valigia e, trasportando qualcosa come 40 chili come un bue, vado alla dogana, l’ultimo passo. Spero non mi facciano storie, perché qui non scherzano affatto. La donna mi fa qualche domanda, io rispondo, mi giustifico, lei sorride e dice, no worries, passa pure. Vorrei abbracciarla. Vorrei stringerla. Vorrei piangere.
Invece rido, e corro. Corro verso l’uscita, senza mai smettere di ridere.
Marco (The Aussie Bloke)
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