Il fine settimana inizia a modo suo in un hotel a Five Dock, in una delle tante Little Italy di Sydney. Io e lei seduti al tavolo, come se fosse un matrimonio, anche se il titolo dell’iniziativa parlava di Primavera, aria fresca, cose nuove. Il cibo è italiano, così come lo intendono qui –accanto alle lasagne troviamo il pollo “tandoori” all’indiana, con le cotolette alla milanese c’è l’insalata cinese. E’ un misto ed è giusto, qui nella terra multiculturale. Mi prendo un bicchiere di vino australiano e mi guardo intorno. Le facce hanno tratti comuni, le vecchiette potrebbero essere tutte tue nonne così come la vecchia scassaballe del piano di sotto. Non si sente parlare altro che inglese in giro, ma ogni tanto serpeggia una parola di dialetto, una scoreggia in siciliano, una pernacchia in veneto. La aspiriamo e continuiamo a troncare le parole alla maniera aussie.
Quando abbiamo la panza piena, cominciano i balli. Toto Cutugno, Modugno, la playlist dell’emigrante tira ancora forte da queste parti. Sento anche Nek, non capisco cosa c’azzecchi ma lo balliamo lo stesso –forte però, quel vino lì. Vanno alla grande i successi dance degli anni Settanta-Ottanta. Li ascolti e vedi i tizi sulla pista da ballo –impomatati, col parrucchino, indosso camicie ridicolmente attillate e aperte sul davanti- e ti rendi conto che questa è la musica che si sentiva quando loro sono emigrati, e in qualche modo tutto sembra cristallizzato a quel periodo –l’Italia, l’Australia, la loro giovinezza, i loro figli e nipoti e pronipoti.
Sul soffitto ci sono palloncini bianchi, rossi e verdi, che a tratti sembrano l’unica cosa che ti ricorda che lì si celebra l’Italia –ma un’Italia di polistirolo, un’Italia da cartolina ingiallita, da pallina con dentro la neve finta e sullo sfondo i palazzi, i panorami, i paesini dai nomi ridicoli che qui sembrano capitali mondiali, e tra la neve finta, il polistirolo, la mamma lontana, Italiani Brava Gente, la musica di Al Bano, le scuole di ballo, i movimenti di mani come a dire chissenefrega, la patria lontana, il Dio lontano, il tiramisù che passa tra i tavoli e la voglia di limoncello come frutto esotico e perverso, ci portiamo tutti addosso la croce di un Paese che non è mai esistito, se non nei racconti che ne facciamo, aumentando generosamente dimensioni e colori ogni volta che apriamo bocca. Quando i giovani vincono cantando “Volare”, io e lei capiamo che è ora di andare via, ed in culo tutti i posti di blocco.
In macchina ascolto musica, penso che a nessuno è venuto in mente di cantare “L’anno che verrà”, “Io non mi sento italiano”, “Goodbye Malinconia”, chessò, “La domenica delle salme”. L’immagine che vogliamo preservare è quella di verginella prima della comunione, allegra e genuina. Nessuno parla della sua troiaggine, del fatto che è sfondata, e si capisce perchè. Fare l’emigrante è un duro lavoro, un lavoro del cazzo, che ti prende le 24 ore, e che nessuno capisce. Partivi un secolo fa, partivi 30 anni fa, parti adesso, ed è come se non fossi mai partito. Nessuno sa niente di te, e tu pensi di sapere tutto su loro. Che equivoco, che polistirolo, che notte quasi ubriaca, ma troppo troppo lucida per me.
Ci svegliamo la mattina dopo, un po’ incartati, e quello che vedo quando accendo il computer qui, a latitudini australi, è una folla che festeggia, che stappa bottiglie, che canta ABBIAMO UN SOGNO NEL CUORE, BERLUSCA A SAN VITTORE. Sembra che sia cambiato qualcosa, che il sonno forse sia finito, o magari continua in maniera diversa. Ripenso ai palloncini, bianchi rossi verdi. Vedo la bandiera nelle strade, in mano a quelle che sono stati definiti coglioni, e che nei giorni seguenti saranno ancora chiamati così. Coglioni, per aver aspettato sotto il balcone una Rivoluzione che non è mai arrivata, col dubbio che forse forse, magari sarebbe stato meglio se l’avessero cominciata loro. Coglioni perchè hanno sopportato il sopportabile e un po’ di più, mentre i palloncini volavano in cielo e la neve finta si accumulava fino alle ginocchia. Coglioni perchè si erano macchiati della colpa della precarietà, che è la peggiore in quest’Italia mediocre. Coglioni che festeggiano, che urlano, e la loro gioia mi mette allegria, mi fa pensare che la notte, australe o italiana, da qualche parte forse finirà. Coglioni che cantano e ridono mentre chi li ha chiamati così scappa dalle uscite secondarie come i topi dalle navi che affondano.
Coglioni che cantano, e stasera-stamattina questo sembra importante, sembra tutto, sembra fresco e pulito, sembra parlare di futuro dopo aver guardato solo al passato.
Coglioni che hanno sempre cercato un loro posto, come me, che ho dovuto rincorrerlo dall’altra parte del mondo, che sono dovuto andare via mentre quelle facce sempre-le-stesse ingrassavano anche su di me, che si facevano più vecchie e oscene e ora qualcosa le ha mandate via, forse non per sempre, forse nemmeno a lungo, ma stanotte-stamane è solo nostra, e ce la godiamo finchè dura.
Mi vesto, mi preparo e con lei andiamo a nord, verso l’equatore, in questa linea calda di una domenica calda di novembre. Gli ubriachi festeggiano ancora a Roma mentre faccio il check-in all’albergo e sono pronto a lanciarmi nel “Festival dell’Ostrica” che c’è di sotto. C’è anche un Wine Tasting, così prendo il mio bravo bicchiere e giro tra gli stand, e presto sono ubriaco come tutti gli altri in canotta e ciabatte, a festeggiare con loro che non sanno.
Nessuno qui sa quello che è successo in Italia. Nessuno sa dei coglioni in piazza e del furbo che è scappato –e coglioni e furbi stasera si scambiano i posti. L’atmosfera è festosa, oltre che brilla. C’è musica dal vivo, risate, c’è calore, si sta bene. Una bambina dice al telefonino –i miei sono tutti e due sbronzi da qualche parte. Comincia la gara di chi mangia più ostriche in meno tempo. Offerta speciale per il vino frizzante. Hotdog tedeschi originali. C’è un posto italiano, fanno la pizza, ma la gestiscono degli asiatici. C’è una compagnia che sponsorizza crociere. Ecco, mi dico. Butto giù il bicchiere e vado. Mi propongo come cantante nelle loro navi. Magari posso raccontare anche barzellette. Non ho con me curriculum o niente, ma solo sorriso e faccia tosta. Basta questo.
Sì, vado. Da qualche parte bisogna pur (ri)cominciare.
Scappato un Coglione, ne serve subito un altro. Così funziona.
Ci vediamo quando scendo in campo.
domenica 20 novembre 2011
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commenti:
Bel pezzo dott!
Posta un commento