sabato 12 novembre 2011

Cose che non dimentico

Sapevo che un giorno avrei scritto di questo. E sapevo anche che ci sarebbe voluto del tempo.
Ora di tempo ne è passato –quasi due anni- ma sembra ieri. Chissà perchè, le gioie sembrano sempre lontane nel tempo, mentre i dolori non ci lasciano mai. Hanno fiato e gambe forti, i dolori. Per quanto tu acceleri per non pensarci, loro riescono sempre a beccarti. E quando succede, è meglio che tu abbia un buon airbag.
Non so perchè ne scrivo proprio adesso. Non è successo niente di particolare. So solo che ho ripensato a quel posto, e ho capito che era arrivato il momento.
Arriva sempre, quel momento lì.
So che è un post di quelli tosti. Se siete delle animelle delicate, saltatelo e tornate sul vostro Facebook. Amici come prima.
Per tutti gli altri, ecco a cosa pensavo.

Il corridoio non era molto lungo, ma a me sembrava infinito. Quando eri ad un capo, ti sembrava di non riuscire a vedere l’altra estremità. L’unica cosa che ti restava da fare era cominciare a passeggiare piano, molto piano, per scoprire se finiva da qualche parte oppure no. Una volta scoperto che da qualche parte finiva, facevi dietrofront e ricominciavi daccapo.
Ogni volta sembrava infinito, e ogni volta trovavi un muro in fondo.
C’erano delle stelle di Natale nei vasi, anche se era marzo. Le stelle erano tutte rattrappite, scure, marcite sotto i nostri occhi. Nessuno le cambiava. Io ci trovavo un senso, come lo trovavo all’orologio fermo appeso al muro. Il tempo, da quelle parti, era un concetto molto diverso da quello a cui siamo abituati ogni giorno. Sarà perchè in quel corridoio la gente ci veniva a morire.
Ricordo ogni singola piastrella di quel posto. Camminavo e le contavo mentalmente. Alcune avevano delle macchie, strane opacità, o erano semplicemente sporche. A volte decidevo incosciamente di camminare in diagonale, altre saltavo le piastrelle pari o quelle dispari. Facevo un sacco di cose incosciamente, in quelle ore passate in corridoio.
Anche se i riscaldamenti erano sempre a palla e l’atmosfera ovattata e sonnacchiosa, noi sentivamo sempre freddo. Non ci toglievamo nemmeno il giubbotto. Camminavamo con le mani in tasca, rabbrividendo, con delle gocce che si affacciavano sul viso e qualcuno le scambiava per sudore.
Però no, di piangere non ci riusciva. Quando arrivi in quel corridoio, sembra che le lacrime le hai esaurite da un pezzo. Non è che non ti viene, anzi. E’ come se tutta la tua anima sia sconvolta da singhiozzi incapaci di qualunque consolazione. Tu però, fuori, imperturbabile. Vorresti piangere, lo vorresti con forza, per toglierti questo magone che sa di frasi mai dette, di maledetti stupendi ricordi, che sa di cose che non torneranno mai più, che parla di fine. Ma non ce la fai. Ti sforzi, ma non ci riesci. Sei impassibile. Le emozioni sono in black-out. Sei entrato in stress da allarme rosso e le difese sono andate affanculo. Fuscello portato dal vento, ti verrebbe più facile ridere istericamente per delle ore.
Ci sono due fratelli in quel corridoio. La madre è dentro la stanza, così come c’è stata negli ultimi 8 mesi, e da 8 mesi loro fanno avanti e indietro, per essere lì ogni sera –a far che? Ad aspettare? Ad essere presenti? Eppure non hanno mancato una serata, eppure lo sai che non potrebbero mai mancarne una... Eppure vorrebbero solo piangere e sciogliere questa montagna che si portano dietro, ma proprio non ce la fanno. Bisbigliano al telefonino, fuori dalla stanza. Hanno occhi che non conoscono più sonno, gli occhi di chi non ha più nessuna speranza e aspetta solo che arrivi quel momento. E loro lo aspettano così tanto che è solo una pena enorme vederli lì, mentre la madre si caga addosso e il suo corpo finge di lottare col cancro ma sta cedendo una vena alla volta e tutto quello che si può fare è vedere questo sfacelo e sorridere e dire come ti senti oggi e poi parlare di altre cose futili che poi potrebbero essere le ultime e quindi le devi dire futili e importanti, e sdrammatizzare e consolare e addirittura sollevare l’umore. Pensate di farlo per 8 mesi, tutte le notti. Pensate di andare in un posto con gli orologi fermi e il gelo anche a luglio. In un posto che è un parcheggio di corpi al capolinea, in attesa che si liberi un posto al cimitero. Le compagnie di pompe funebri vengono e lasciano bigliettini da visita sui divani. Hanno “appaltato” alcuni infermieri, che li chiamano non appena il paziente se ne va al Creatore. E’ un ottimo business, dicono. Girano tanti soldi. Sono quei momenti in cui pensi che non è poi una brutta cosa, lasciarsi dietro questo mondo qua.
E i fratelli sperano solo che la madre al Creatore ci vada presto, e così spera anche lei, e tutti si sentono colpevoli per pensare qualcosa del genere mentre il dolore spoglia le logiche e ci dice quello che l’uomo antico sapeva meglio di noi –quando è ora è ora, ed è crudele aspettare. Ma intanto aspettiamo tutti, sorpresi da una vita che prometteva di non finire mai, stupiti per qualcosa che capita sempre agli altri e mai a noi. Quando arrivo alla fine del corridoio guardo fuori dalla finestra e vedo le macchine giù, incolonnate all’entrata della superstrada. E’ un panorama di fabbriche vuote e casermoni, triste come un De Chirico ubriaco. Da lì sembrano tutti formiche, sembrano cose da niente, sembra che l’Universo intero sia solo una grossa presa in giro. Poi penso a loro nelle loro macchine, che magari vanno al cinema, che tornano a casa dal lavoro, che vanno a mangiare fuori. Non sanno niente di questo corridoio, della gente che qui dentro dice addio al mondo in un atroce ultimo scherzo. Li invidio, li odio. Non m’importa che un giorno ci passeranno anche loro. So che io sono qui, al freddo di questo caldo posto, e loro no. Mi sembra un’ingiustizia.
E’ un’ingiustizia.
Intanto passeggio piano nel corridoio, faccio avanti e indietro, così come ho fatto in un corridoio simile qualche anno prima. Era un corridoio buio, molto diverso. Lì qualche speranza c’era, e i medici non si preoccupavano nemmeno di dissimulare la loro totale incredulità in questa speranza. Quando ci davano gli aggiornamenti mangiucchiavano una gomma e si stiracchiavano pensando a cosa prendere per cena. Era lavoro per loro, non c’è niente di male. Abituati alla morte. Forse non erano abituati all’educazione e alla sensibilità e al non essere delle teste di cazzo, ma questo è un altro discorso.
Io alla morte ci pensavo spesso, mentre camminavo per chilometri in quei corridoi e le infermiere mi rimproveravano perchè ero distratto e facevo perdere loro tempo con le mie domande. Ci pensavo, e sono sicuro di non aver pensato mai così tanto alla vita come in quei momenti. Magari sembrerà fuori luogo, ma io lì pensavo a tutto fuorchè a morire. Pensavo alla vita, quella succosa, quella che uno dovrebbe chiedere col pugno sul tavolo. Pensavo che meritavo di essere felice, come tutti. Pensavo che meritavo di ridere in maniera spensierata, come non mi capitava da tempo.
In quei momenti pensavo ai colori, ai sapori, alle giornate di sole in campagna. In un posto dove la gente dormiva attaccata ai tubi e spesso non si svegliava, io pensavo a fare l’amore fino a svenire –sì cazzo, fare sesso con donne bionde e donne brune, godere e farle godere, ridere con loro. In un posto che era un’ultima fermata, io pensavo ai viaggi che mi sarebbe piaciuto fare, pensavo alle cose che avevo lasciato in sospeso, pensavo a come tutti i problemi sembravano delle cagatine di mosca, a come mi ero perso anni e anni dietro a cose assolutamente prive di senso mentre la vita mi passava sotto il balcone, pensavo a bevute con amici e grandi mangiate, pensavo al fatto che avevo ancora da scrivere e da far vedere, pensavo a baci e morsi, pensavo alle canzoni ubriache con la macchina che corre e il vento notturno in faccia, pensavo a quelle giornate di autunno che senti tutti gli odori del mare e degli alberi e ti sembra che sia troppo, pensavo alle serate e nottate folli passate a parlare ballare scopare scherzare, pensavo alla felicità ah la felicità, che cazzo era non lo sapevo mica ma ci pensavo, e pensavo, te lo prometto, tu che sei là dentro, ti prometto che uscito di qua sarò felice. Questa è la mia promessa per te. Niente cimiteri o ricorrenze. Ti porterò con me, e ti farò fare qualche risata lungo il cammino.
Ecco, pensavo qualcosa del genere, mentre camminavo in quel corridoio senza uscita. Più la morte si faceva sentire e vedere, più mostrava la sua faccia puzzolente, e più io pensavo al suo opposto. Forse lo facevo per predisposizione ad andare in direzione ostinata e contraria, o perchè quei momenti mi rendevano la vita come qualcosa che potevo vedere, toccare, e di cui avrei dovuto godere. Ci sarei finito anch’io lì dentro, come tutti voi che leggete (e che vi toccate le palle proprio adesso). Sarei finito in un letto per 8 mesi con tutti che sperano che io crepi il prima possibile.
E prima di questo ci saranno anche le migliaia di morti quotidiane, quelle rinunce che sembrano da niente, quei poi si vedrà, quei mi piacerebbe ma adesso non posso magari dopo. Ci saranno quei momenti dove la morte, vera o figurata, definitiva o solo temporanea, sarà dappertutto. A quel punto potremo decidere se morire ancora un po’ oppure ricominciare a vivere per come sappiamo e per come vogliamo.
Potremo vedere gli ostacoli di ogni giorno come piccole trappole o come ostacoli insormontabili. Potremo farci deviare l’esistenza, o potremo cercare di deciderla noi.
Io ho deciso di viverla, e per vivere ho ripreso uno dei ricordi più dolorosi che abbia mai avuto e ho deciso di mettervelo qui perchè la morte è privata ma la vita va condivisa, e io voglio condividerla con voi.
Una delle cose che pensavo in quelle passeggiate infinite era, voglio andare in Australia un giorno.
Magari da lassù saranno meno incazzati con me, dopotutto. La lista, però, è ancora lunga.
Non si finisce mai di morire, e non si finisce mai di vivere.

Una delle cose che mi ha insegnato quella persona in quella stanza di quel corridoio, era proprio questo: tutto quanto finirà –anzi, sta per finire- quindi perchè prendersela tanto? Perchè sprecare tempo ad essere infelici, a rimandare, a morire un pezzo alla volta?
Lei rideva, ed era tutto quel che le serviva. Rideva anche lì dentro. Io ridevo meno, in quei momenti, e quando tornavo a casa sentivo questa canzone.
Ma queste sono cose che non dimentico.
Buona risata, ovunque tu sia.
E buona vita a voi.
Mi raccomando.



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