Colui che non lascia niente al caso raramente farà cose in modo sbagliato, ma farà molte poche cose. (George Savile)
La mattina presto, al gabbiotto della stazione, c’è sempre un tizio di colore con una pettinatura afro spessa una decina di centimetri. Gli dò i soldi, lui mi dà il biglietto e mi dice: “Buona giornata, boss”. Lo fa tutte le mattine, e io ancora sorrido. E sono poche le cose che mi fanno sorridere a quell’ora del mattino.
Lui viene dalle isole Samoa. Così mi ha detto, una mattina che era più in vena. Per un attimo, mentre vado verso il treno, mi chiedo cos’ha portato un italiano e un samoano ad incontrarsi ogni mattina, prima delle sette, in una stazione alla periferia di Sydney. E’ una coincidenza, una delle tante delle mie giornate.
Io credo molto nel caso. Ci credo tanto che il caso è il mio dio. Sono fatalista. La gente si affida a piani, progetti, studia tutto nei minimi dettagli, e poi sono le cose impreviste che rovinano la vita in un attimo, o magari portano la felicità che si era smesso di aspettare.
Il lavoro l’ho trovato per una fortunata coincidenza. Non ci stavo pensando affatto. E’ successo e basta. Ma anche la mia presenza qui a Sydney, Australia, a 15mila chilometri dal luogo nel quale sono nato e cresciuto, è una coincidenza che ha a che fare con una notte romana, qualche Rusty Nail e una passeggiata sul Lungotevere.
Come diceva John Lennon, la vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare qualcos’altro. Ecco quello che intendo.
Questo lavoro, capitato per caso, oggi mi porta a visitare un centro di accoglienza per vecchi emigrati italiani. E’ pura coincidenza il fatto che, nonostante il mio scarsissimo senso d’orientamento, riesca a trovare il posto senza perdermi tra le periferie australiane- così come è una coincidenza il mio bussare alla porta sbagliata e trovarmi in una riunione di alcolisti anonimi, con gli occhi di tutti addosso.
Nel centro di accoglienza –quello giusto- gli anziani cominciano ad arrivare. Sono persone arrivate qui dall’Italia negli anni 50’ e 60’, e qualcuno anche prima. Vengono qui una volta a settimana per ritrovarsi, giocare a tombola e farsi un autentico pasto italiano. Le loro famiglie o non ci sono più, o non possono prendersi cura di loro, o sono dall’altra parte del mondo.
Gina, la responsabile del centro, mi dice che oggi è il compleanno di Lino. Lino fa 89 anni, e assomiglia un po’ ad Andreotti. 89 anni, e di questi più di 60 passati in Australia. Eppure Lino, per quel poco che parla, lo fa in italiano, con uno stretto accento torinese. Tutti, qui, parlano italiano, anche se a volte ci mettono in mezzo delle frasi in inglese. Non ci fanno più caso. Quando dico loro che sono qui solo da due mesi, mi subissano di domande, e un po’ mi guardano come a dire, vedrai, vedrai cosa vuol dire far l’emigrante. Mi chiedono da dove vengo. Glielo dico, e loro subito a chiedermi di questo o quel negozio, che nella mia città magari ha chiuso da vent’anni ma loro non l’hanno mai saputo. E’ una coincidenza che ci siano stati, che l’abbiano vista, e che ora siamo qui a parlarne in un posto dove a ottobre si va verso l’estate.
Gioco a tombola con loro –e da queste parti la tombola è un affare serio, credetemi- e poi ci siediamo a mangiare. C’è pasta con le polpette, che tutti vedono come tipico pasto italiano ma io, in 32 anni, non ho mai trovato in Italia. Coincidenza culinarie.
Mi siedo al tavolo con tre simpatici vecchietti, un calabrese, un veneto e Lino. Il calabrese è quello più attivo, racconta, parla, non la smette più. Il veneto se ne sta più tranquillo. Noto che usa solo un braccio per fare tutto. E’ un musone e spesso manda affanculo le signore sedute al tavolo dietro perchè fanno troppo rumore, a suo dire, ma poi si lancia anche lui nei discorsi. Gli chiedo com’era qui, 50 anni fa. Com’era, quando siete arrivati?
Loro mi dicono che sì, c’era abbondanza di lavoro, la carne non mancava e il pesce nemmeno. Mangio la mia pasta mentre loro raccontano dei vitelli venduti agli angoli alla strada per soli due dollari, che ci mangiava una famiglia intera per una settimana, o di quando si andava a pescare e bastava gettare la lenza che subito qualcosa abboccava.
E gli australiani?
Beh, come dire, non erano felicissimi. Gli italiani erano spesso analfabeti e facevano mestieri che nessuno voleva fare, e così si spargeva la voce che “rubavano” il lavoro agli australiani. Nei pub, la sera, c’erano risse continue. Se un italiano ordinava da bere, arrivava l’australiano a prendergli il bicchiere, ed era meglio che l’italiano se ne stava zitto, sennò arrivava la settima cavalleria.
“Oh, ma mica era sempre così” dicono, e poi raccontano delle memorabili batoste che si erano beccati gli australiani, come quella volta che un gruppo di siciliani e calabresi aveva cacciato un gruppo di galletti australiani e gli aveva fatto fare a calci in culo tutta la Parramatta Road.
“E da allora, nessuno ci ha dato più fastidio” dice il veneto orgoglioso.
Mi guardo intorno e penso, che strano, che coincidenza, forse anche più grande di quella del samoano –perchè trovare la tua gente tra altra gente, in questo remoto angolo di mondo, ti fa pensare ad un intrico di destini legati come fili e sparpagliati dalla fortuna –o dalla sfortuna, a seconda dei casi.
Andando avanti nella conversazione, scopro che il veneto fa il compleanno il mio stesso giorno. Non mi era mai successo. Altra coincidenza. Ci stringiamo la mano, e lui mi dà la sinistra. Solo dopo, mentre stanno andando via, l’autista del pullman che li ha portati qua mi dice: “Ha avuto un ictus, anni fa, e da allora ha perso l’uso di metà corpo, compreso il braccio. Nonostante questo, vuole fare tutto da solo. Non vuole mai il mio aiuto” dice. Lui è inglese, ha vissuto in Danimarca, si è sposato con una polacca, e ora si trova qui a Oz. Coincidenze. “Se mai dovesse succedere a me, spero solo di morire. A mia moglie è successo, ed è stato meglio così”. Mi stringe la mano e va via.
Il fatto di essere vivi, di essere in salute, è tutta una coincidenza. Scaramanzie a parte, come si fa a capire quale logica c’è dietro uno che si becca il cancro, o un bambino che nasce senza gambe? Nasciamo per caso e moriamo per lo stesso motivo. Forse sarebbe meglio ricordarcelo, ogni tanto. Ci toglierebbe un po’ di arroganza, ci smonterebbe qualche scusa, e ci regalerebbe briciole di eternità.
Una vecchietta, uscendo, mi dice: “Sono 47 anni che sono andata via, e l’Italia mi manca come il primo giorno che sono partita”. Di questa gente, in Italia, non si sente parlare nemmeno per caso. Eppure sono tra i pochi, rimasti, che la amano davvero.
Forse perchè non sanno davvero com’è.
E l’amore, certo, anche quello è coincidenza. Usciamo una sera, troviamo qualcuno e ci sembra che sia QUELLA persona, senza renderci conto che l’amore stesso è un caso, che così come arriva può decidere invece di starsene a casa. Come possiamo affidare la nostra felicità a queste correnti capricciose?
Ma è esattamente quello che facciamo, e mentre torno in ufficio sento, da una pizzeria, il suono di una canzone, che è la canzone che avevamo io e la mia prima fidanzata, un secolo e mezzo fa. Quante possibilità c’erano che la sentissi proprio qui, a Sydney, a eoni di distanza da dove ci siamo dati il primo bacio?
Una su un miliardo. Ma è proprio questo il punto: tutto quello che siamo, si basa su questa statistica ridicola.
Ma in fondo è quello che siamo anche noi.
Così progettate, prevedete, studiatevi ogni mossa: la vita sarà quello che resterà fuori dai vostri calcoli.
Buone coincidenze.
domenica 2 ottobre 2011
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1 commenti:
Non poteva essere più delizioso questo quadro. La forza motrice delle nostre azioni è più arcana di qualsiasi logica, e proprio per questo non vale la pena perdere tempo a capirla o a rifiutarla. Bello come ti fai trascinare dalle coincidenze... :)
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