Il primo giorno è sempre come tornare a scuola, e chiaramente settembre ci mette del suo. Tornare a scuola, ma con tutte le cose negative –se possibile, persino peggiorate- e con quelle positive così attutite, così diminuite dal tempo che fanno quasi ridere. Il tuo salvagente, un tempo, era la campanella. Adesso è la lancetta piccola sulle cinque.
Non è cambiato poi molto.
O forse sì. Se il giorno dopo non volevi andare a scuola, non ci andavi e basta. C’era compito in classe? Chi se ne sbatteva. Se era di matematica, poi, andare sarebbe stato solo una perdita di tempo.
Adesso non puoi. Hai dei giorni prestabiliti, per non andare. Certo, ti puoi ammalare, ma sono cazzi tuoi. La tua salute ti può fregare il doppio.
Dopo scuola, avevi i compiti. Qui hai responsabilità, cose da fare il giorno dopo, aggiornamenti.
Dopo scuola, avevi tutta la vita davanti a te.
Qui, no.
Qui hai una mattina assonnata, e un giorno così lungo che non provi nemmeno a vederne la fine.
Ho già provato questa sensazione, ma ora si fa sul serio. Per un anno saprò dove andare ogni mattina, e da dove tornerò a casa. Ho il tempo già preso. Mi volete un martedì mattina di metà aprile? Spiacente, non ci sono.
So già dove sarò, e non mi piace quella sensazione. So che economicamente dovrei solo ringraziare, ed infatti lo faccio. In un momento Precario, io ho trovato l’America. Ma non solo per i soldi. Mi piace quello che faccio, che è come vincere una lotteria.
Quindi non mi lamento del MIO lavoro, sia chiaro. E non mi lamento nemmeno per averne UNO. Anzi, non mi lamento e basta.
E’ solo che questo sistema qui, non l’ho mai ben capito. Ma se mi devo adeguare, lo faccio. Se devo uscire di casa ogni mattina prima delle 8, lo faccio. Se devo rispettare orari e scadenze, lo faccio. Ma non chiedetemi di sorridere. Vi basti il fatto che non mi sento (troppo) fregato.
Il primo giorno guardo le facce intorno a me, osservo le teste che si muovono in masse silenziose e compatte. Cerco di farmele piacere, perchè ci dovrò avere a che fare per i prossimi 12 mesi. Le espressioni, i volti stanchi, quelli neutrali, gli esaltati, gli ingessati, gli eleganti e quelli che ci provano e fanno ridere, le donne in carriera e quelle che fingono, quelli che ancora non sanno come sono finiti lì, quelli che sotto sotto se la ridono, quelli che pensano solo –ancora due giorni ed è venerdì. Entriamo ed usciamo da autobus, treni, traghetti, taxi. Quando siamo sovrappensiero facciamo una faccia come se qualcuno ci avesse rubato qualcosa e noi ce ne fossimo accorti solo adesso. Però poi lasciamo perdere e prendiamo un altro bus, treno, traghetto o taxi.
Sono vestito in giacca e camicia. A mia nonna sarebbe piaciuto. Diceva che ero bello, quando mi sistemavo. Buongustaia.
Io mi sento un po’ cretino. Mi piace vestirmi elegante, ma qui siamo vestiti tutti uguali. Siamo come qualcuno ci ha pensato, non come volevamo. Certo, con queste camicie a righine, questi completi grigi, queste scarpe lucide dovremmo essere tutti professionali, preparati, intraprendenti, e magari che parliamo correntemente 4 lingue, abbiamo 75 anni di esperienza, puliamo casa con uno starnuto e abbiamo peni di 24 cm per fare sesso per tutta la notte.
Un tempo mettevano le armature, ora abbiamo cravatte di Calvin Klein, di Versace, di Dolce e Gabbana. Non serve più un drago, e nemmeno un altro cavaliere con la lancia. Basta un progetto andato male, il mercato che crolla, il boss che si alza con la luna storta, un Governo lontano 15000 km che taglia i fondi, e veniamo infilzati da una parte all’altra.
E, vedete? Parlo già col “noi”. Perchè sono anch’io là in mezzo, tra le teste ammassate e silenziose.
Sto pensando tante cose, ma va bene così. Ci perderò l’abitudine.
La sera torno a casa, mi lavo, mangio e sono pronto per andare a dormire. Questa è la parte libera della mia vita.
Mi guardo allo specchio dopo la doccia, e vedo che ho perso capelli. Non molti, e mi dicono che c’entri la spazzola e che ricresceranno. Ma io guardo lo specchio e capisco. Bestemmio forte, dentro di me, ma capisco.
Mi siedo, accendo il computer, leggo il
post di un’amica arrivatomi sulla mail, e mi sollevo a sentire che non sono solo. Mi faccio due risate con un video mandatomi da un amico. Leggo le parole di 4 teste gloriose che mi pensano da lontano. Mando un messaggio ad un amico vicino, che tra poco rivedrò.
Mi distendo un po’, e penso che alla fine sono io che la faccio tragica, che alla fine non è tutto questo problema. No, davvero. Stai cominciando una nuova avventura, tutto qui. Hai paura. No, non è vero: ti caghi sotto. Sì, magari, ma hai anche voglia di vedere come va a finire. Quindi tranquillo, prenditela comoda. Non farti prendere dalle tue pippe mentali. Rilassati e goditela come puoi, nei tuoi momenti. E getta quella spazzola, perdio.
Ma c’è ancora qualcosa. Quel pensare, anche solo per un attimo, di essere come “loro”. Come le teste silenziose del mattino. E’ davvero così che finirò? O magari lo sono già?
Riecco che, dopo i capelli, ricomincia l’ansia. Che cazzo. Cosa succede, se divento un Fantozzi, uno che timbra il cartellino, che succede se divento il mio lavoro, se comincio a parlare solo di quello? Che succede se mi compro una tv di 130 pollici a 75 rate decennali, una lavatrice, un gazebo in cartongesso e una stalla per i pony? Che succede se comincio a seguire uno sport –calcio rugby football- e poi faccio il tifo e mi esalto se vinciAMO e mi incazzo se perdONO? Che succede se a Natale mando bigliettini d’auguri coi gattini, e d’estate me ne vado in vacanza nel resort dal quale non esci mai e ti fanno i massaggini e le treccine?
Che succede se smetto di scrivere per vivere come vogliono loro?
Beh, questo no, cazzo. Va bene anche il pony, ma NON questo. Mi alzo, corro al frigo, mi stappo una birra, poi me la porto qui al tavolo, accendo il computer, e comincio a battere sui tasti.
Tictictictictic.
No, dovrete aspettare ancora un po’ per vedermi come loro.
E spero che siate bravi ad aspettare.