Esco di corsa dalle viscere della terra. Gradini fatti a due a due su una scala mobile, e mi lancio verso l'alto a una velocità sorprendente. L'avesse avuta Orfeo, la scala mobile, avrebbe salvato Euridice in un attimo e i due avrebbero passato il tempo a fare l'amore sui prati e a coglionare quel vecchio di Ade.
Fiatone, quando riemergo su viale Regina Margherita. E non è solo per le quattro Golia Bianca mandate giù una dietro l'altra. Scarsa lucidità, effetto allucinogeno. Vedo passare di fila tre 61 e un 649. Sbuffo e penso alla somma, ma ecco che dietro l'ultimo mi strizza l'occhio il 490.
Villa Borghese è cupa, misteriosa. Così buia e vasta che mi sembra possa perdermi tra gli alberi e urlare a squarciagola senza che nessuno mi senta.
Al botteghino, mentre ritiro la busta con i biglietti riservati, donne col trucco pesante prendono le sembianze di streghe e uomini che corrono in canottiera appaiono come fanti alla carica.
La locandina dice Shakespeare, e io mi domando quanto ne sappia a riguardo. Mi chiedo cosa ci faccia io lì, davanti a un teatro Elisabettiano.
William Shakespeare. Mi pare di sapere anche come si scriva. È un buon inizio. Poi mi vengono in mente titoli e frasi, più una manciata di ritratti che forse sono suoi o forse di qualche filosofo. Sono un po' in confusione, allora prendo l'agenda e scarabocchio qualcosa. Non è il buon William, il frutto del tratto della mia penna, ma ha comunque begli occhi. Cos'altro? Un film o qualcosa del genere: Shakespeare in love. Almeno lui.
Le luci calano e il palco s'illumina. Due giovani fuggono in un bosco. Luci e veli al vento mi trasportano nell'atmosfera del sogno. Quando me ne accorgo, ci sono già dentro. Sono tra quegli alberi, a seguire le loro parole. A giocare a nascondino, a spiare le stelle al di là delle fronde, al chiaro di luna. Poi la mente prende ad andare da sola. Si perde nei propri meandri, nei suoi sogni più in là. Nelle sue fughe, nei suoi inseguimenti, nelle sue parole compiute o rimaste a metà. È sogno o realtà? È l'uno, è l'altra, è prima l'uno e poi l'altra. Si rincorrono come gli innamorati sul palco, come il sole e la luna, come l'autunno e la primavera. Alzo gli occhi, e vedo ancora il cielo stellato. Il bosco sul palco non è altro che la stessa Villa Borhese, in cui mi sono smarrito. Riconosco i rumori, le luci. Forse quel campeggio che non ho più avuto. Vento tra le foglie. Aria.
Non riesco ad uscire, finalmente sono dentro di me. Roba che non posso descriverla, ma ho la pelle d'oca. Un brivido di paura, paura che quella libertà possa essere vera.
Le luci ripartono, e applausi scroscianti scacciano il vento di prima. Mi desto e mi unisco, alle luci e agli applausi. Riprendo a brillare, mi vesto di chiaro sul volto. Saluto e ringrazio. Offro le ultime Golia per non rischiare il suicidio. Ho la lingua che pare la pelliccia di un orso polare. Maledetta pubblicità.
I ragazzi seduti al mio fianco stanno insieme da 18 anni. Me lo dice lei. Io la guardo negli occhi e mi complimento. Lei, chissà poi perché, non mi crede.
Ultimi saluti, ultimi sorrisi e un paio di abbracci. Le Golia sono finite, per fortuna
Posso perdermi nella notte. A piedi, il sentiero è diventato d'asfalto e gli alberi sono adesso palazzi. Le stelle quasi non si vedono, ma luci arancioni filtrano ovunque.
Non ne sono mai uscito.
Continuate pure a chiamarlo teatro. Io lo chiamo magia.
giovedì 9 settembre 2010
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